Una politica coi “controdazi”. Orientarsi contro la disinformazione di regime

In questi giorni è in corso quella che il circo mediatico della borghesia ha definito la “guerra dei dazi”. Gli Usa hanno imposto al mondo la politica dei dazi reciproci, ovvero hanno imposto tariffe uguali a quelle che vari stati imponevano loro negli scambi commerciali. Questo ha scombussolato il mercato delle speculazioni di borsa e innescato una serie di risposte di vari governi e paesi. Tra questi la risposta della RPC che ha annunciato dazi del 84% verso gli Usa, i quali li hanno alzati addirittura al 104%.

Al di là della propaganda tronfia di Trump queste misure rappresentano tentativi straordinari per far fronte al declino economico, finanziario e commerciale degli Usa. Questi dazi, infatti, si riveleranno un boomerang sia per l’innalzamento dei prezzi nel mercato interno, sia per l’esacerbarsi dei rapporti con gli altri paesi imperialisti, sia per la spinta che rappresentano per i vari paesi a scambiare prodotti con la RPC e la Federazione Russa anziché con gli Usa.

È importante contrastare l’intossicazione che i media di regime provano a promuovere mostrando queste mosse come attacchi finanziari che dovrebbero mettere in ginocchio la RPC e in parte la Federazione russa. Chi dice questo non tiene conto, ad esempio, che il commercio estero (le esportazioni) costituisce solo il 17% dell’economia cinese e che di questo 17% solo una parte riguarda gli scambi con gli Usa. Non tiene conto neanche del fatto che neppure le sanzioni hanno danneggiato un’economia solida come quella della Federazione Russa, che è stata capace di trovare altri canali di distribuzione e vendita del petrolio, sostituito le importazioni rafforzando il commercio con i paesi emergenti e rafforzato il proprio sistema finanziario autonomo.

Di seguito pubblichiamo due articoli pubblicati sul numero 79 e 77 della rivista La Voce del (n)PCI in cui si approfondiscono tali argomenti. Ne consigliamo la lettura come strumento per non cadere nell’intossicazione e nella propaganda di regime. Prossimamente approfondiremo ulteriormente gli sviluppi sulla “guerra dei dazi” e cosa comporta per i lavoratori e le masse popolari del nostro paese.

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Sul commercio estero della Repubblica Popolare Cinese

Tratto da La Voce 79

1. Incidenza sull’economia cinese delle esportazioni cinesi nel mondo (in particolare negli USA)

Per la Repubblica Popolare Cinese (RPC) il commercio estero (esportazione di merci [beni e servizi]) costituisce il 19,7% dell’attività economica complessiva (dati Ministero del Commercio Estero della RPC, 2023). Si tratta di una componente importante ma non preponderante dell’attività economica nazionale complessiva, in cui la domanda (consumo) interna risulta essere l’elemento trainante su cui la direzione del Partito Comunista Cinese punta maggiormente per portare a compimento la modernizzazione socialista (1) entro il 2035.

1. Nell’ambito del socialismo con caratteristiche cinesi, tale modernizzazione è una combinazione di vari fattori: ampio sviluppo delle forze produttive, superamento delle disuguaglianze socio-economiche tra zone urbane e zone rurali (rendendo le seconde sempre più autonome dalle prime, grazie anche alla loro industrializzazione), espansione dell’attività del PCC in tutti i campi della vita associata, coinvolgimento superiore delle masse popolari nella gestione della società, valorizzazione della storia e della cultura tradizionale cinese illuminate e orientate dal marxismo, scambio (apprendimento e insegnamento) di idee e pratiche con popoli stranieri nell’ambito della visione denominata “comunità umana dal destino condiviso”.

Le esportazioni di merci dalla RPC (escluse le Regioni Amministrative Speciali di Hong Kong e Macao e la provincia occupata di Taiwan) nel mondo ammontano complessivamente a 3.380 miliardi di $, mentre le importazioni ammontano a 2.556 miliardi di $.

Le esportazioni di merci dalla RPC negli USA ammontano a 500.2 miliardi di $: il paese nordamericano è la terza destinazione dopo i paesi del blocco ASEAN (Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico, composta da Vietnam, Laos, Myanmar, Filippine, Singapore, Cambogia, Indonesia, Malesia, Thailandia, Brunei) e l’Unione Europea.(2)

2. I dati sui flussi di esportazioni e importazioni sono relativi al 2023 e provengono dalla versione inglese dei siti dell’Amministrazione Generale delle Dogane della Repubblica Popolare Cinese e dell’Amministrazione Statale del Mercato Valutario, agenzia dipendente dalla Banca Popolare Cinese – la banca centrale – che si occupa della supervisione del mercato dei cambi e della gestione delle riserve (valuta estera, oro, diritti speciali di prelievo presso il Fondo Monetario Internazionale, altro).

Le aziende statali e private (3) della RPC esportano negli USA prevalentemente le seguenti merci (in ordine di volumi): materiale elettrico ed elettronico, macchinari industriali, reattori/moduli e caldaie per l’energia atomica, mobili per l’arredamento, strutture prefabbricate (case, per esempio), giocattoli, materiali di plastica e vetroresine, capi d’abbigliamento, veicoli (auto, locomotive e vagoni per tram e treni), materiali di ferro e acciaio.

3. Nella RPC, a differenza dei paesi imperialisti, “aziende private” indica:

1. aziende proprietà di artigiani (individuali, familiari, ecc.);

2. “aziende non statali”, che comprendono cooperative, aziende private capitaliste estere (sostenute da investimenti di aziende capitaliste di Hong Kong, Macao, Taiwan e del resto del mondo), “aziende miste” (aziende con partecipazioni finanziarie pubbliche e private cinesi e aziende con partecipazioni finanziarie pubbliche e private straniere).

Anche se ufficialmente alcune aziende strategiche per lo sviluppo economico nazionale (è il caso di Huawei nel comparto tecnologico-informatico e delle telecomunicazioni) sono alimentate in buona parte da fondi provenienti da capitalisti cinesi o investitori collettivi stranieri, lo Stato della RPC interviene con suoi massicci investimenti e detta legge sul piano regolamentare e politico.

Per maggiori dettagli sulle aziende cinesi, rimandiamo all’articolo Sulla gestione delle aziende nella Repubblica Popolare Cinese, VO 78 – novembre 2024, pag. 48.

Le importazioni di merci USA nella RPC ammontano a 164.1 miliardi di $. È evidente che la RPC ha una bilancia commerciale positiva, il che ne fa un paese esportatore netto a differenza degli USA, che sono un paese importatore netto con un disavanzo delle partite correnti.

Le aziende USA esportano nella RPC prevalentemente le seguenti merci (in ordine di volumi): soia, petrolio greggio e derivati, gas naturale liquefatto, macchinari per la produzione di semiconduttori (in maniera abbastanza regolare almeno fino al 2022, stanti anche la crisi pandemica, le ritorsioni politiche dell’amministrazione Biden e la nuova “guerra dei dazi” avviata dall’amministrazione Trump), preparati farmaceutici, macchinari industriali ed elettromedicali.

Sul versante della forza-lavoro, alla fine del 2023 erano 346 mila i lavoratori cinesi dislocati all’estero da parte di aziende statali e private della RPC nell’ambito di contratti siglati con le autorità pubbliche di paesi terzi, per lo più membri del progetto infrastrutturale globale della Nuova Via della Seta, a cui aderiscono 149 paesi (la Repubblica Popolare Democratica di Corea ne è osservatore). In quest’ambito, il flusso di lavoratori all’estero è regolamentato dal Ministero del Commercio Estero e dal Ministero delle Risorse Umane e della Sicurezza Sociale e periodicamente quantificato dall’Ufficio Nazionale di Statistica.

Il governo USA minaccia di applicare e in alcuni casi applica dazi alle merci cinesi – vedi il caso dei semiconduttori, delle auto elettriche (in particolare quelle prodotte da aziende statali come SAIC Motor, GAC Group, Chery ma anche quelle prodotte da aziende private come BYD) – nell’ambito della guerra commerciale contro la RPC, ripresa con vigore dall’amministrazione Trump dal febbraio 2025. Quest’ultima, infatti, ha imposto dazi del 25% (15% già applicato dalla precedente amministrazione Biden, a cui si somma il 10% in vigore da febbraio 2025). Il governo della RPC ha reagito applicando, a partire dal 10 febbraio, tariffe aggiuntive del 15% sulle importazioni di carbone e gas naturale liquefatto dagli USA e dazi più elevati del 10% sul petrolio greggio, sulle attrezzature agricole e su alcuni marchi automobilistici.

Tuttavia, senza merci cinesi – a partire da quelle contenenti un elevato numero di componenti tecnologici e frutto di vari e complessi procedimenti industriali – l’attività economica degli USA è in grado di funzionare solo parzialmente, poiché essa 1. è soggetta a una forte deindustrializzazione (un processo che per portata è comparabile solo a quanto sta accadendo in Germania dopo l’attentato terroristico perpetrato dalle autorità statunitensi e ucraine al gasdotto North Stream II nel settembre 2022) a vantaggio dell’“economia di carta” (nel complesso militare-industriale domina la componente finanziaria) e 2. non può basarsi su un adeguato livello di sviluppo scientifico-tecnologico a causa di investimenti ridotti rispetto alla RPC nel comparto “ricerca e sviluppo”.

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Prosegue la nostra ricerca 1. sulla linea seguita dal PCC nella costruzione del socialismo in Cina, 2. sul ruolo svolto dalla RPC nel mondo, 3. sull’azione del PCC nel movimento comunista internazionale. Il contributo di un collaboratore che pubblichiamo su questo numero dà un quadro della misura in cui la RPC dipende ancora oggi dall’importazione ed esportazione di merci, questione che gli articoli sul ruolo del PCC e dello Stato nella gestione delle aziende pubblicati sul numero scorso non affrontavano. Stante la linea imboccata dalla nuova amministrazione USA con la “guerra dei dazi”, l’allentamento della pressione sulla Federazione Russa e il sostegno all’allargamento delle aggressioni dello Stato sionista di Israele in Asia occidentale, la questione è rilevante per capire cosa noi comunisti possiamo aspettarci dalla RPC quanto a sviluppo della sua azione per aggregare quei paesi dove è forte l’aspirazione a liberarsi dal dominio dei gruppi imperialisti USA e, quindi, in che misura possiamo contare sulla RPC nella lotta per costituire il Governo di Blocco Popolare e poi per allargare la sua attività e difenderla dalle pressioni, dal boicottaggio e dal sabotaggio della Comunità Internazionale dei gruppi imperialisti e delle sue “quinte colonne” all’interno del paese.
La Redazione

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Per intenderci, nella RPC la spesa in questo comparto (trainata dalle istituzioni pubbliche) nel 2023 ammontava a 458.5 miliardi di $, mentre negli USA questa spesa (trainata soprattutto dalle aziende capitaliste e più specificamente da quelle belliche) ammontava a 204.5 miliardi di $.

Se gli USA da un momento all’altro cessassero di importare merci dalla RPC, per quest’ultima non sarebbe un dramma esistenziale, considerati i due principali mercati della RPC (paesi ASEAN e UE), ai quali vanno aggiunti in ordine America Latina (con il Brasile trainante seguito dal Messico), Giappone, Corea del Sud, Africa (con il Sudafrica trainante), Russia, Australia, India, Canada e altri. Inoltre, la RPC rafforzerebbe ulteriormente il suo commercio estero non solo con i membri e osservatori del gruppo BRICS+ (per esempio, l’Arabia Saudita e l’Iran sono già destinatari di massicce esportazioni di beni e servizi cinesi, oltre che di investimenti finanziari), ma anche con tutti quei paesi che hanno aderito alla Nuova Via della Seta (Kazakistan, Bielorussia, Nigeria, Cuba, Nuova Zelanda, ecc.).

Premesso che il livello di ricattabilità delle autorità politiche ed economiche della RPC dipende strettamente dal sistema di relazioni economiche e politiche vigenti nella RPC, tale livello, rispetto alle relazioni con il governo espressione dei gruppi imperialisti USA e delle aziende del complesso finanziario-militare-industriale, è trascurabile.

La produzione (cosa e quanto produrre) dipende principalmente dalla necessità di beni e servizi della popolazione della RPC e dall’importanza politica di avere ampie relazioni commerciali con l’estero e non dal bisogno delle aziende di valorizzare il proprio capitale. Sicuramente, per la RPC disporre del mercato USA (soprattutto per alcune tecnologie di punta: vedi il processo di costruzione dei semiconduttori per computer, macchinari, armi) è importante ma non imprescindibile, dato lo sviluppo scientifico-tecnologico raggiunto oggi dalla RPC – promosso dalle sue autorità, dalle aziende statali e da quelle private – e dato il possesso di materie prime che permettono una relativa indipendenza produttiva del paese.

Infine, se il governo dei gruppi imperialisti USA dovesse imporre politiche tariffarie ritenute insostenibili dalla RPC, sia sui prodotti ritenuti “critici” (per esempio, le nuove tecnologie negli ambiti delle telecomunicazioni e dell’energia) che su quelli “ordinari” (vestiti, cibo, ecc.), la RPC potrebbe rivolgersi ragionevolmente a Giappone, Corea del Sud, alle aziende private di Taiwan (vedi la TSMC per i semiconduttori) e a quelle compiacenti dei paesi UE e dell’Asia centrale per aggirare le misure coercitive unilaterali USA. Questi paesi sono ricattabili dai gruppi imperialisti USA ma non a tal punto da perdere il mercato (che riguarda potenzialmente 1.4 miliardi di persone) e la fiducia garantiti da aziende statali e private cinesi.

2. Obiettivi con cui aziende statali e private della RPC impiantano propri stabilimenti produttivi all’estero: nei paesi imperialisti UE, nei paesi della Nuova Via della Seta e altri

Di seguito alcuni tra gli esempi più emblematici di paesi oggetto degli investimenti di aziende della RPC divisi tra due settori in cui queste aziende investono cospicui capitali, cioè quello automobilistico e quello delle materie prime/energetico.

Settore automobilistico

Premessa: se consideriamo l’intera filiera del comparto elettrico – dalla produzione e raffinazione delle materie prime, alla produzione di batterie, al montaggio delle vetture, al riciclo finale delle stesse – il predominio cinese appare ancor più importante. In termini generali, in un’auto elettrica il 40% del costo totale è rappresentato dalle batterie, un altro 40% circa dal software (programma che gestisce tutti i dispositivi dell’auto), mentre tutto il resto pesa soltanto per il 20%. Le aziende della RPC padroneggiano la produzione e gestione di tutte e tre le componenti con un vantaggio incomparabile rispetto alle loro concorrenti europee (Peugeot, FIAT, Renault), USA (Tesla), giapponesi (Honda) e di altri paesi (Hyundai).

– Spagna: il marchio MG del consorzio statale SAIC Motor (che già collabora da un decennio con i colossi General Motors e Volkswagen) ha previsto nel luglio 2024 di avviare i lavori per impiantare un proprio stabilimento in Galizia entro la fine del 2024 (a marzo 2025 i lavori non sono ancora cominciati). Il consorzio è stato attirato dagli incentivi fiscali lanciati dal governo Sánchez, il quale prevede che l’azienda impiegherà circa un migliaio di dipendenti e ravviverà il tessuto industriale galiziano. L’obiettivo è diventare il primo venditore di auto elettriche in Spagna, dove già l’azienda, da gennaio 2024, vende all’incirca 3 mila veicoli al mese. Produrre in Spagna, ritenuto mercato promettente sul lungo termine in quanto la produzione e vendita di auto elettriche è già in atto, permetterà all’azienda di azzerare i costi di spedizione ed essere ancora più competitiva grazie alla riduzione dei costi di produzione. Accanto agli stabilimenti di SAIC Motor e Chery, bisogna considerare che altre aziende cinesi quali BYD (privata), Great Wall (dal 1998 privata), NIO (privata) e Xpeng (privata) sono attive al momento solo nella vendita.

– Ungheria: nel 2022 l’azienda privata CATL (il più grande produttore mondiale di batterie al litio per veicoli elettrici) ha impiantato uno stabilimento alimentato a energia solare nella piana di Debrecen, investendo 7.3 miliardi di $.

Il governo di Viktor Orbán ha permesso quest’investimento sia per ragioni ambientali (impatto energetico pressoché nullo e produzione di energia per la zona), sia per ragioni occupazionali e di sviluppo economico locale.

Anche la BYD, prima al mondo per produzione di auto elettriche (dato 2024, che nel primo trimestre 2025 resta invariato), ha costruito uno stabilimento a Szeged, spinta da una solida infrastruttura industriale già presente in Ungheria, eredità dell’epoca socialista. BYD avvierà la produzione entro fine 2025.

– Slovenia: nel 2012 il gruppo statale China Hi-Tech Group Corporation ha rilevato lo storico gruppo jugoslavo TAM (fondato nel 1947 a Maribor), specializzato nella produzione di veicoli (un tempo camion, oggi autobus che circolano in città e negli aeroporti e pullman privati). Nel 2021 il gruppo privato Heidi Energy Technology, attivo dal 2011, si è associato all’azienda locale Tab per sviluppare a un livello superiore la produzione di batterie al litio. Manodopera a (relativo) basso costo ma soprattutto impianti industrialmente avviati (frutto dell’eredità jugoslava) sono i principali fattori attrattivi per le aziende cinesi in questo paese dove puntano, unitamente alla Serbia, a creare poli industriali, logistici e di conoscenze per l’area balcanica.

– Italia: da marzo a luglio 2024 il gruppo automobilistico privato Chery è stato in trattative – senza successo – con il governo italiano (tramite il Ministero delle Imprese e del Made in Italy) per impiantare un proprio stabilimento in Italia per la produzione di auto elettriche.

In passato, aziende cinesi statali e private sono state respinte, a partire dai ventilati investimenti in IVECO (per la produzione di autobus e camion) e in alcune produzioni di componentistica e di sementi, mentre altre sono state scoraggiate in anticipo dai governi italiani. Nel caso della Pirelli il governo Meloni è giunto a togliere i diritti di decisione all’azienda statale SinoChem che detiene il controllo azionario (37%) del gruppo, applicando il golden power nel 2023.

Settore materie prime/energetico

– Afghanistan: nel luglio 2024 le autorità talebane insieme a personalità della diplomazia e uomini d’affari della RPC hanno inaugurato i lavori per lo sfruttamento del secondo deposito di rame al mondo, attuando un progetto dal valore di 3 miliardi di dollari approvato nel 2008 dalle autorità afghane protette dagli USA. Lo scopo di quest’investimento per le aziende e autorità della RPC è l’acquisizione di un materiale strategico per la produzione di componenti elettronici destinati a veicoli elettrici, impianti di energia rinnovabile, ecc. In futuro, le aziende della RPC potrebbero investire ulteriormente nell’attività estrattiva nel paese – in particolare nel litio, nell’oro e nel ferro – e nell’energia solare, la cui produzione è rivolta principalmente a favorire una maggiore autonomia energetica dell’Afghanistan.

La RPC ha tutto l’interesse a che l’Afghanistan, paese membro della Nuova Via della Seta, sia sicuro per il libero transito di merci e persone.

– Kazakistan: le aziende statali e private cinesi hanno investito negli ultimi trent’anni 27.6 miliardi di $ nei seguenti settori: metallurgico (acciaio, rame), petrolchimico (petrolio, gas, polietilene), ingegneria meccanica, energia idroelettrica e nucleare, industria leggera, agricoltura e logistica. Si tratta di 55 progetti industriali congiunti (joint venture) dove lo Stato kazako investe generalmente tramite industrie di cui detiene l’intero capitale o la maggioranza.

– Bolivia: nel gennaio 2023 l’azienda privata CATL ha raggiunto un accordo con il governo boliviano per lo sfruttamento di un settore della riserva di litio del Salar de Uyuni (la più grande al mondo), mentre nel giugno dello stesso anno l’azienda privata CITIC Guoan Group (fino al 2014 di proprietà di CITIC Group, fondo d’investimento statale) raggiunge un accordo di circa 857 milioni di $ per la costruzione di un impianto per la produzione di batterie e uno per il montaggio delle vetture. Il governo boliviano, proprietario dell’azienda statale YLB (Yacimientos de Litio Boliviano), richiede a ogni azienda straniera che investe nel litio di fornire supporto a YLB per l’industrializzazione della filiera, quindi dall’estrazione fino alla realizzazione del prodotto finito (carbonato di litio).

– Argentina: nel 2022 l’azienda statale Zijin Mining Group ha investito 380 milioni di $ nell’industria del litio, in particolare nel progetto “Tres Quebradas”, nella provincia di Catamarca. Ha costruito impianti di lavorazione del litio ed è interessata anche a oro, rame e zinco, sull’estrazione e lavorazione dei quali in futuro potrebbe accordarsi con il governo argentino.

– Repubblica Democratica del Congo: aziende cinesi hanno aperto nuove e/o rilevato vecchie miniere di cobalto, di cui il paese africano è ricchissimo (prima riserva del pianeta, che consta di 6 milioni di tonnellate certificate nel 2023), allo scopo di rifornirsi di questo minerale per i prodotti ad alta tecnologia (cellulari, computer, batterie per auto elettriche e pannelli solari, ecc.) realizzati in territorio cinese.

Le aziende cinesi, generalmente statali, si occupano anche di costruire nuove infrastrutture (strade, porti, ponti, aeroporti, ospedali, scuole, biblioteche, centrali elettriche) o ricostruire quelle danneggiate da conflitti, fenomeni climatici estremi e così via. Le aziende cinesi ottengono incentivi economici dal governo locale, il quale impone come vincoli principali il reclutamento di lavoratori congolesi e la trasmissione di conoscenze tecniche alla manodopera locale per la manutenzione delle infrastrutture.

– Serbia: nel 2016 l’azienda statale Hesteel Group ha rilevato lo stabilimento di Smederevo – che occupa 5 mila lavoratori ed è attivo nella produzione di acciaio – per 420 milioni di $ (acquisto vero e proprio + investimenti). L’obiettivo dell’azienda è produrre acciaio da vendere a costi più bassi ai clienti europei, battendo la concorrenza dei gruppi monopolisti indiani (JSW Steel, ArcelorMittal) e italiani (Arvedi, Danieli).

– Spagna: nel 2024 l’azienda privata Zhenshi Holding Group – specializzata in vetroresine e altri materiali compositi e presente in 5 paesi tra cui gli USA – ha rilevato un impianto della Airbus (consorzio di capitali UE attivo nel settore aerospaziale) a Cádiz, dove produce fibra di carbonio per le turbine eoliche.

3. Alcune conclusioni

Anche considerando gli altri settori produttivi (informatica, agroindustria, abbigliamento, ecc.) non citati nel precedente paragrafo, emerge che le aziende statali e private della RPC rilevano vecchi siti produttivi o ne costruiscono di nuovi in base alle condizioni oggettive che trovano sul posto principalmente per produrre merci (beni e servizi). Esse valorizzano i singoli territori in cui si impiantano, mantengono la stabilità occupazionale (salvo rari casi di chiusura o smantellamento dopo alcuni anni di presenza sul territorio e aperta ostilità da parte delle autorità pubbliche dei singoli paesi), favoriscono l’interconnessione commerciale con la RPC (questo vale sia per i paesi della Nuova Via della Seta, sia per quelli ad essa estranei) e, quindi, l’integrazione delle aree oggetto degli investimenti nella visione della “comunità umana dal futuro condiviso”, che le autorità della RPC perseguono.

Le aziende della RPC, soprattutto quelle che operano all’estero e/o che esportano all’estero, ricevono agevolazioni fiscali e sovvenzioni da parte delle autorità pubbliche cinesi per

1. produrre di più e meglio (in condizioni ambientali, occupazionali, di ricerca e sviluppo migliori);

2. occupare fette di mercato crescenti in settori industriali ad alto sviluppo tecnologico, sottraendo spazio ai gruppi monopolisti dei paesi imperialisti europei e nordamericani;

3. sostenere l’industrializzazione di materie prime estratte in paesi dove lo sviluppo delle forze produttive è ancora inadeguato rispetto al soddisfacimento di esigenze di consumo interno.

A causa delle agevolazioni e sovvenzioni di cui sopra, le autorità politiche dei gruppi imperialisti UE e USA hanno accusato la RPC di “eccesso di capacità produttiva” e di “concorrenza sleale” rispetto alle aziende UE e USA, in particolare nella produzione di acciaio, auto e batterie elettriche, settori in cui la RPC primeggia a livello internazionale e su cui le aziende capitaliste dei paesi UE e degli USA arrancano.

Simone B.

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Come la Russia affronta le sanzioni

Tratto da La Voce 77

David Teurtrie, ricercatore associato presso l’Istituto Nazionale di Lingue e Civiltà Orientali (INALCO) di Parigi. Le Monde Diplomatique, edizione italiana, giugno 2024.

Imponendole misure coercitive di una portata senza precedenti, i paesi occidentali intendevano far indietreggiare Mosca in Ucraina. Non hanno però tenuto conto della solidità dell’economia russa, le cui entrate petrolifere sono tornate ai livelli prebellici. La politica di sostituzione delle importazioni, il commercio con i paesi emergenti e lo sviluppo di un sistema finanziario autonomo hanno fatto il resto.

“Provocheremo il crollo dell’economia russa” aveva dichiarato Bruno Le Maire [ministro francese dell’economia, ndr] ai primi di marzo del 2022. Dodici pacchetti di sanzioni più tardi, la Russia registra per il secondo anno consecutivo una crescita economica superiore a quella dell’Unione Europea e degli Stati Uniti: dopo un aumento del prodotto interno lordo (Pil) del 3,6% nel 2023, il Fondo monetario internazionale (Fmi) ha nuovamente rivisto le sue previsioni per il 2024 al rialzo, indicando una crescita dell’economia russa del 3,2%. Certo, la militarizzazione dell’economia, così come la carenza di manodopera e le difficoltà di accesso alle tecnologie occidentali, potrebbero avere un effetto negativo nel medio termine. Ma l’andamento dell’economia russa, come riconosciuto dalla stragrande maggioranza degli analisti e confermato dalle istituzioni internazionali, ha costituito una grande sorpresa per l’Occidente. In effetti, l’affermazione di Le Maire faceva eco a esternazioni simili del presidente statunitense Joseph Biden e della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. Le loro posizioni riflettevano un’opinione condivisa tra le élite occidentali secondo cui l’esercito russo sarebbe stato presto sconfitto, dal momento che si sarebbe ritrovato sprovvisto di armi per mancanza di componenti elettronici e a corto di finanziamenti per mancanza di petrodollari.

A due anni di distanza, siamo molto lontani da una simile conclusione del conflitto. Stando così le cose, come interpretare l’enorme divario tra i deludenti risultati della politica delle sanzioni e le aspettative iniziali? Il primo errore è stato quello di aver tenuto in scarsissimo conto l’economia russa. Quanto dichiarato da Clément Beaune, allora segretario di Stato incaricato degli affari europei, nel febbraio del 2022 riassume bene questo sentimento: “la Russia ha il Pil della Spagna”. Questa affermazione era allo stesso tempo approssimativa e riduttiva. Secondo la Banca mondiale, nel 2022 il Pil nominale di questo paese era all’ottavo posto mondiale (quello della Spagna si fermava al quindicesimo), mentre calcolato a parità di potere d’acquisto (Pil Ppa) saliva al quinto, appena davanti a quello della Germania. Inoltre, la dimensione di un’economia riflette solo in modo imperfetto la potenza di un paese. Nonostante alcune debolezze incontestabili, come la dipendenza dalle entrate derivanti dal petrolio e dal gas, Mosca occupa una posizione di primo piano in molti settori strategici. Tra i tre principali paesi produttori ed esportatori di idrocarburi, metalli non ferrosi e cereali, la Russia è anche il primo esportatore di centrali nucleari e una delle tre principali potenze spaziali. Nel 2023 ha effettuato diciannove lanci spaziali rispetto ai soli tre lanci dell’intera Europa. La sua produzione di elettricità, un indicatore importante comunemente utilizzato per misurare la potenza industriale, colloca il paese al quarto posto nel mondo, dietro alla Cina, agli Stati Uniti e all’India. Tenendo presenti questi pochi dati, si è meno sorpresi nel constatare che la Russia attualmente produce più proiettili di tutti i paesi occidentali messi insieme.

Le élite russe sono largamente percepite come incompetenti a causa di un sistema politico fondato sulla corruzione e sul nepotismo. Ovviamente queste impressioni non sono infondate, ma non riassumono la realtà del paese. Negli ultimi dieci anni, il presidente Vladimir Putin ha portato avanti un vasto rinnovamento delle élite politiche e amministrative sia a livello esecutivo regionale che all’interno del governo federale. Si tratta di tecnocrati che hanno dato prova del proprio valore nel settore privato o nelle loro amministrazioni di origine. Ad attuare tale politica di rinnovamento dei quadri è stato Sergej Kirienko. Proveniente dal campo liberale, questi ha trasformato Rosatom in un colosso globale del nucleare prima di diventare, nel 2016, vice-capo di gabinetto della potente amministrazione presidenziale. In un articolo pubblicato su Foreign Affairs, Alexandra Prokopenko, ricercatrice presso la Carnegie Foundation, in generale molto critica nei confronti della situazione in Russia, afferma che “l’economia russa è gestita da tecnocrati competenti e Putin ascolta la loro opinione” [Alexandra Prokopenko, Putin’s unsustainable spending spree, 8 gennaio 2024, http://www.foreignaffairs.com].

Frenare la fuga di capitali. Dal 2014 e dall’annessione della Crimea, il Cremlino ha attuato una politica di resilienza economica per far fronte alla pressione economica occidentale. La politica di “sostituzione delle importazioni” ha permesso al paese di raggiungere in pochi anni l’autosufficienza alimentare e si è dimostrata efficace anche in campo finanziario: nel 2015 le autorità hanno lanciato il Sistema nazionale di pagamento delle carte (Snpc), che garantisce il funzionamento di tutte le carte emesse dalle banche russe sul territorio nazionale. Allo stesso modo, la Banca centrale russa ha creato il Sistema di trasmissione dei messaggi finanziari (Spfs), che vuole essere l’equivalente nazionale del sistema di pagamento Swift. Queste misure hanno dimostrato la propria efficacia nel marzo del 2022, quando le sanzioni hanno costretto Visa e Mastercard a “bloccare” tutte le carte emesse in Russia. Il sistema nazionale è subentrato immediatamente, consentendo alle carte occidentali emesse dalle banche locali di continuare a operare senza interruzioni nel paese. Allo stesso modo, le dieci principali banche russe escluse dallo Swift hanno continuato le loro operazioni attraverso l’Spfs. Queste sanzioni massicce non hanno dunque costituito “l’arma nucleare finanziaria” descritta da Le Maire nel febbraio del 2022: dopo aver assorbito lo shock delle sanzioni nel 2022, nel 2023 il settore bancario russo ha generato profitti record per un ammontare di 33 miliardi di euro. E nonostante il congelamento di 300 miliardi di dollari di riserve finanziarie da parte dell’Occidente, la Banca centrale controlla ancora l’equivalente di 300 miliardi di dollari (in oro e yuan), cifra che corrisponde al totale delle riserve della Bundesbank. Di fronte alle massicce sanzioni economiche, le autorità russe sono riuscite ad attuare una gestione della crisi caratterizzata, da un lato, dal controllo parziale dei flussi di capitale al fine di sostenere il corso del rublo; dall’altro, dalla parziale liberalizzazione del commercio estero per rilanciare gli scambi e dalla legalizzazione delle “importazioni parallele” di tecnologie occidentali. Queste misure sono state accompagnate da un vasto riorientamento dei flussi logistici verso i “paesi amici”. Nel settore delle esportazioni petrolifere, le cui entrate sono cruciali per l’economia e il bilancio federale, le autorità sono riuscite a ridurre al minimo l’impatto delle sanzioni. L’embargo sul petrolio russo e il tetto massimo di 60 dollari al barile avrebbero dovuto infliggere un duro colpo alle entrate dello Stato. Se inizialmente un impatto reale può esserci stato, nel settembre del 2023 il prezzo del petrolio russo ha però superato di gran lunga il tetto occidentale, attestandosi a più di 80 dollari al barile. Ai primi di dicembre del 2023, l’agenzia Bloomberg ha osservato che con 11 miliardi di dollari al mese, i proventi petroliferi di Mosca erano tornati ai livelli prebellici [How Russia pounched an $11 billion hole in the West’s oil sanctions, 6 dicembre 2023, https://www.bloomberg.com].

Per conseguire questo risultato, la Russia ha acquisito una flotta di petroliere di seconda mano, ha reindirizzato le proprie esportazioni verso i Brics+ [Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica, più Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia e Iran] e ha raggiunto un accordo con l’Arabia Saudita per ridurre l’offerta sul mercato mondiale. Al di là della sottovalutazione dell’economia e dello Stato russi, la politica delle sanzioni è inciampata sui suoi stessi presupposti liberisti, ovvero l’idea secondo cui il libero scambio e la deregolamentazione sono gli unici mezzi per garantire la crescita economica.

Come spiegare allora che un paese in gran parte tagliato fuori dal sistema finanziario internazionale, il cui commercio con l’Occidente ha subito un forte calo, possa registrare una crescita? Da una parte, in Russia è in atto una forma di keynesismo militare, con il Cremlino che ha proceduto a un forte aumento delle spese di bilancio per alimentare lo sforzo bellico, in particolare in due direzioni: in primo luogo, il forte aumento delle ordinazioni al complesso militare-industriale dà impulso a molti settori dell’economia. Le massicce assunzioni e gli aumenti salariali nell’industria vanno a beneficio dei lavoratori e degli ingegneri, due categorie che sono state tra i grandi perdenti della terziarizzazione dell’economia russa iniziata negli anni ‘90. In secondo luogo, le centinaia di migliaia di soldati impiegati in Ucraina godono di salari, bonus e altri vantaggi pari a tre volte lo stipendio medio e le forze armate russe reclutano soprattutto tra gli strati sociali più svantaggiati, cioè in un insieme di popolazioni e di territori che solitamente beneficiano poco della creazione di ricchezza. Questo afflusso di liquidità verso ambienti e territori caratterizzati in genere da forme di sopravvivenza semi-autarchica stimola i consumi delle famiglie e l’edilizia. Nel 2023, in un contesto di piena occupazione, i redditi reali sono aumentati del 4,8%, cosa che ha permesso al tasso di povertà di scendere a uno dei livelli più bassi osservati dalla caduta dell’Urss.

Al di là del braccio di ferro. D’altro canto, le sanzioni agiscono come una forma di protezionismo imposto dall’esterno, mentre il ritiro di molti operatori economici occidentali ha creato nuove opportunità per quelli locali. Inoltre, vantando un surplus strutturale nella bilancia dei pagamenti, Mosca non ha tanto l’esigenza di attrarre capitali stranieri quanto quella di limitare il deflusso di capitali generato in particolare dall’esportazione di materie prime. Le sanzioni economiche tagliano fuori la Russia dal settore finanziario occidentale e fanno temere agli oligarchi russi per i loro beni all’estero, ma tendono anche a rallentare la fuga di capitali, che vengono in parte reinvestiti nel paese, contribuendo al suo dinamismo. Questa nuova situazione potrebbe spiegare perché negli ultimi due anni il numero dei miliardari in Russia è aumentato in modo significativo e perché le loro fortune sono più che raddoppiate, passando da 217 a 537 miliardi di dollari [The countries with the most billionaires 2024, 2 aprile 2024, https://forbes.com].

Tra i nuovi arrivati non ci sono magnati del petrolio e trafficanti di armi, ma imprenditori dell’industria agroalimentare, della distribuzione, del settore immobiliare o di quello dei trasporti, a conferma del fatto che la crescita non si limita affatto al complesso militare-industriale: crescita del 98% nel settore edilizio, trainato dagli aiuti per l’accesso alla proprietà della casa per le famiglie, incremento del 10% nel trasporto aereo e del 9% nel settore alberghiero grazie allo sviluppo del turismo interno, ripartenza dell’industria automobilistica (più 19%), che sta gradualmente superando lo shock generato dalle sanzioni e il ritiro dei produttori occidentali nel 2022. Di fatto, con una spesa militare che ammonta ufficialmente al 7% del Pil, la Russia ha sicuramente prodotto uno sforzo notevole, ma siamo lontani da un’economia di guerra. Lo testimonia il basso deficit di bilancio, attorno al 2% del Pil, con un debito pubblico (17% del Pil) tra i più bassi al mondo.

Considerando che le ricette economiche del governo hanno permesso di sormontare con successo lo shock delle sanzioni, Putin ha deciso di applicarle anche al ministero della difesa, nominando alla sua guida uno dei principali artefici di tale politica, Andrej Belousov, ex ricercatore in campo economico divenuto consigliere del Cremlino per poi essere scelto nel 2020 come vice-primo ministro incaricato dell’economia e delle nuove tecnologie. La sua nomina a sorpresa, in un contesto di arresti di alti ufficiali accusati di corruzione, ha l’obiettivo di aumentare l’efficienza dello sforzo bellico, accelerando l’uso delle nuove tecnologie da parte delle forze armate e fluidificando la circolazione delle innovazioni tra industrie civili e militari.

Questi errori di valutazione, non limitati alla Russia, dimostrano una mancata comprensione delle trasformazioni strutturali delle relazioni internazionali. In effetti, il fallimento delle sanzioni è dovuto tanto a fattori interni alla Russia quanto al rifiuto della stragrande maggioranza dei paesi di sanzionare Mosca. Nonostante questo rapporto di forze sfavorevole, gli Occidentali sembravano contare sulla centralità delle loro economie per imporre il proprio volere. Anche in questo caso, tuttavia, non hanno valutato correttamente l’ascesa economica dell’Asia. Mosca è riuscita quindi a reindirizzare il proprio commercio estero verso i paesi emergenti, in primis verso la Cina ma anche verso il Brasile e soprattutto l’India: in due anni le esportazioni russe verso il mercato indiano sono quintuplicate. Più le sanzioni si accumulano, più gli Occidentali adottano misure problematiche dal punto di vista del diritto internazionale, più indispongono il resto del mondo. Il congelamento dei beni della Banca centrale russa ha già suscitato timori tra i paesi emergenti, ma la loro confisca totale rischia di minare completamente la credibilità dei sistemi finanziari e giuridici occidentali. Da direttrice della società Euroclear, che gestisce la stragrande maggioranza dei fondi russi congelati, Valérie Urbain ha dichiarato che la confisca “avrebbe un impatto molto negativo non solo su Euroclear, ma anche sui mercati finanziari in generale. Se i nostri clienti ritengono che la legge non venga più rispettata e che i loro beni possano essere confiscati, si apre il vaso di Pandora” [intervista a Valérie Urbain, Confisquer les avoirs russes, c’est ouvrir la boîte de Pandore, 7 maggio 2024, https://www.lecho.be]. Questo è il motivo per cui gli europei, molto divisi sull’argomento, hanno deciso per il momento di non toccare i titoli finanziari russi, limitandosi a utilizzare gli interessi da essi generati. Anche l’impiego del dollaro per imporre sanzioni secondarie è visto in modo molto negativo. L’Arabia Saudita e la Cina hanno già ridotto i propri investimenti in buoni del tesoro statunitensi e i paesi emergenti stanno mettendo a punto gli strumenti per effettuare gli scambi nelle rispettive valute. Concentrandosi sul braccio di ferro con Mosca, le élite occidentali non hanno valutato a dovere i danni collaterali delle proprie politiche su scala globale. Se Washington e gli europei hanno sottovalutato le capacità di adattamento e il potenziale industriale della Russia, questi errori di valutazione mettono anche in evidenza una forma di isolamento dell’Occidente su scala globale.