Siamo ancora in una società patriarcale?

Dopo la partecipazione al corteo milanese dell’8 marzo promosso da Non una di meno (NUDM) e con la costruzione del cineforum dello scorso 23 marzo sul tema dell’oppressione che le donne delle masse popolari subiscono, nella sezione Milano Nord Est si è sviluppato un dibattito che ha portato le compagne e i compagni a riflettere su cosa sia il patriarcato e se oggi siamo ancora in una società patriarcale.

Riportiamo le riflessioni sul tema di una nostra compagna.

***

L’oppressione della donna nasce con la nascita della proprietà privata e col fatto che la donna, oltre a non possedere i mezzi di produzione, era principalmente lo strumento attraverso cui fare andare avanti la stirpe. Con l’avvento del capitalismo e con l’entrata nella sua fase acuta e terminale, la situazione si è aggravata fino alle estreme conseguenze che vediamo oggi.

Le donne delle masse popolari sono più ricattabili sul lavoro e anche in famiglia rispetto agli uomini della stessa classe.

Sul lavoro hanno mediamente uno stipendio più basso rispetto ai lavoratori uomini a parità di qualifiche e competenze (circa il 23% in meno), quasi sempre vengono demansionate al rientro a lavoro dopo la maternità. Non capita mai ai giovani uomini di sentirsi chiedere a un colloquio di lavoro se hanno una compagna o se hanno intenzione di fare dei figli. Nonostante sia una domanda illegale per molti padroni la risposta è un criterio di selezione, perché una giovane mamma è meno produttiva e fa perdere profitti rispetto a un giovane papà.

Il mondo del lavoro è patriarcale dunque perché uomini e donne della stessa classe non hanno gli stessi diritti.

In una famiglia “tradizionale” è tendenzialmente la donna a occuparsi della cura della casa e dei figli, tanto che a volte è costretta a licenziarsi dal lavoro per potersene occupare perdendo qualsiasi tipo di autonomia dal compagno/marito.

Se in una famiglia c’è la necessità di badare a un parente ammalato, per senso comune, è quasi sempre la moglie o la figlia, la donna di casa ad occuparsene. La famiglia in questa società è patriarcale perché è la donna che più dell’uomo paga la mancanza di servizi che oggi sono un privilegio per ricchi (per esempio asili e caso di riposo).

La crisi del capitalismo in sostanza mette in crisi anche il concetto borghese di famiglia, che per dirla alla Engels, è sempre stata a tutti gli effetti un’unità produttiva e ha avuto un ruolo oppressivo per le donne. Serviva a produrre e mantenere la manodopera, cioè allevare figli che poi sarebbero diventati futuri lavoratori e garantire la stabilità sociale. Serviva a garantire lavoro domestico non pagato (soprattutto femminile) e ad inculcare nei cuori e nelle menti dei proletari il rispetto per le gerarchie (genitori/figli, uomo/donna) così da educare all’obbedienza alla borghesia.

Oggi questo tipo di famiglia è storicamente superato perché nella società c’è più manodopera rispetto a quella effettivamente impiegata e fare figli è più una zavorra che un investimento. I giovani infatti sono esuberi, precarietà e disoccupazione sono la norma e il fatto che non riescano a emanciparsi nella società borghese costringe le famiglie a farsene carico. Oggi inoltre servono almeno due stipendi per arrivare a fine mese che a volte non bastano neanche, quindi le donne oltre a occuparsi di casa, figli, anziani e ammalati devono lavorare anche in produzione.

Gli stessi femminicidi sono un prodotto del capitalismo e della proprietà privata, in particolare della perdita da parte degli uomini delle masse popolari del potere di controllare le donne, ad esempio attraverso la dipendenza economica, perché lo smantellamento dei diritti e delle conquiste rende anche loro più sfruttati e ormai incapaci di provvedere alle condizioni materiali necessarie a mantenere la famiglia.

La crisi del capitalismo e dell’annesso patriarcato dunque destabilizza gli uomini delle masse popolari che di fatto perdono il ruolo sociale che hanno avuto per secoli arrivando a prendersela con le donne su cui non riescono più ad avere alcun controllo, fino ad arrivare a uccidere le proprie mogli o figlie. Giulia Cecchettin, Giulia Tramontano, Saman Abbas e Sara Campanella sono tra i casi più mediatici degli ultimi anni, ma le loro storie sono esemplificative di questo ragionamento.

Siamo in una società patriarcale anche perché una donna che subisce violenza deve per forza aver provocato l’uomo, non ha urlato abbastanza o sicuramente aveva una gonna troppo corta..

In Italia poi anche la concezione clericale è molto più forte che in alti paesi perché c’è il Vaticano che ha avuto e continua ad avere un potere enorme nell’oppressione delle donne. La doppia morale, il senso di colpa sono elementi con cui le donne continuano ad essere oppresse. La legge 194 sull’aborto per esempio non viene applicata e una donna che abortisce viene additata come un’assassina alla quale bisogna far cambiare idea mettendo gli antiabortisti nei consultori che, per farla sentire in colpa, le fanno ascoltare il battito del feto. Ma è normale che conta di più la vita di un embrione che di una persona?

Sempre Engels nel suo libro L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato dice che l’oppressione di genere è strettamente legata all’oppressione di classe e che il rapporto tra uomini e donne nella società è simile ai rapporti tra proletariato e borghesia.

In definitiva fintanto che esiste la divisione della società in classi, non potrà esserci emancipazione della donna. Per questo l’emancipazione delle donne o passa attraverso il loro protagonismo nella costruzione della rivoluzione socialista, oppure diventa diversione e intossicazione perché appunto si trasforma in guerra tra poveri, nel puntare il dito contro gli uomini della stessa classe piuttosto che contro i veri nemici: il padrone o le donne che oggi sono al potere nelle varie istituzioni della borghesia (queste non sono uguali alle donne delle masse popolari perché appartengono ad un’altra classe, le accomuna ad esse solo il genere) e contro la società borghese nel suo complesso .

NUDM e gli altri movimenti femministi sono espressione di questo meccanismo. È positiva la loro spinta a occuparsi della questione di genere, ma ciò che deve interessare a noi comunisti è che questi organismi sono composti da lavoratrici, studentesse, insomma da proletarie che ancora non mettono abbastanza al centro la questione di classe e non hanno una prospettiva chiara su dove bisogna andare. Questa confusione porta le donne ad anteporre la battaglia per i diritti civili a quella per i diritti sociali e il risultato è quello di alimentare l’odio contro gli uomini della propria classe, come spesso leggiamo negli slogan che riempiono le manifestazioni “femministe”. Questi però non sono buoni motivi per ignorarli o far finta che non esistano, ma anzi. Intervenire in questi organismi, nelle loro mobilitazioni per noi comunisti è necessario per intercettare le donne più avanzate e portarle a mettere al centro la questione di classe invece che di genere, per portare loro un orientamento che oggi non hanno, ma che la Carovana del (n)PCI invece ha elaborato.

È vero che donne devono lottare insieme agli uomini per emanciparsi dal capitalismo, ma l’emancipazione delle donne delle masse popolari non può prescindere dal loro protagonismo nella lotta di classe. Costruire una nuova società vuol dire infatti anche costruire rapporti personali superiori, liberi da costrizioni economiche e basati sull’uguaglianza, ma sono le donne a doversi assumere il compito di rompere con la doppia oppressione e conquistarsi il ruolo sociale che per secoli non hanno avuto.

Farlo è un processo contraddittorio anche per le compagne del Partito che ancora troppo spesso non osano assumersi la responsabilità di fare un intervento pubblico, tenere un’iniziativa, dirigere un’istanza o un’operazione, proprio per il ruolo sociale che da secoli le donne ricoprono nella società e che le spinge a ritagliarsi principalmente ruoli organizzativi. Anche nella nostra sezione c’è la tendenza a che siano i compagni ad occuparsi della direzione politica di una iniziativa, mentre le compagne organizzano la cena e il banchetto. Oggi è senso comune che sia così, come è normale che al nostro interno, nel Partito, ci siano atteggiamenti maschilisti perché anche i comunisti sono nati e cresciuti nella società borghese che ha inevitabilmente influenzato il loro modo di concepire le donne e il rapporto con loro.

Le cose però iniziano a cambiare solo quando le compagne iniziano a farsi avanti, attraverso la critica e dando battaglia per diventare protagoniste della loro emancipazione nel Partito, ma anche in ogni altro ambito sociale in cui sono inserite.

La conquista dell’emancipazione femminile dunque non è una “gentile concessione” degli uomini. È una lotta che le donne e le compagne devono condurre per trasformare anche gli atteggiamenti maschilisti e sessisti che gli uomini esprimono nei contesti in cui esse lavorano o in cui fanno attività politica, in sostegno e supporto alla loro lotta per emancipazione.

E.B.

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