Pensando ad Anna. Intervista al regista Tomaso Aramini

Lo scorso novembre, al Festival dei Popoli, è stato presentato Pensando ad Anna, un film basato sulla storia di Pasquale Abatangelo, militante comunista e rivoluzionario. Abbiamo trattato in passato del libro scritto da Pasquale, da cui il film trae origine (Correvo pensando ad Anna), che è stato anche oggetto di molte iniziative di presentazione nel periodo in cui uscì e riaccese il dibattito rispetto al bilancio del movimento rivoluzionario degli anni Settanta.
Riprendiamo quel filo di discussione poiché l’uscita del film certamente alimenterà il dibattito, a partire dalle polemiche che ne hanno accompagnato la presentazione. Abbiamo intervistato il regista, Tomaso Aramini.
Riportiamo qui l’intervista integrale.

Tomaso, iniziamo in un modo forse anomalo, ma… quanti anni hai?
Elettivamente sono un ragazzo del ’68… più prosaicamente sono nei miei tumultuosi trent’anni.

Non c’è l’ombra di alcun reducismo nostalgico nel tuo lavoro – accusa spesso rivolta a chi ha trattato nel cinema o nella letteratura il tema del movimento rivoluzionario degli anni Settanta senza prenderne platealmente le distanze o senza emettere sentenze di condanna – dunque da dove nasce la tua idea per questo film?
Ci sono diverse ragioni. La prima: lo sguardo. Mi interessava raccontare gli anni Settanta da una prospettiva confinata, quella del carcere. Spesso questo periodo storico è stato narrato dalle piazze, ma la storia di Pasquale mi ha offerto l’opportunità di raccontarlo dalla cella, esplorando due particolarità: il ruolo politico del sottoproletariato e dei delinquenti politicizzati; il nesso originale tra studenti e delinquenti politicizzati, formatosi nei grandi giudiziari alla fine degli anni Sessanta e conclusosi con la stagione delle carceri speciali.
La seconda ragione è drammaturgica, intesa in questo specifico lavoro come quell’indagine dialettica che si manifesta nell’unità tra esistenza e militanza. La storia di Pasquale, legata profondamente al carcere e alle lotte carcerarie dell’epoca, offre una condensazione chiara e immediata di linee conflittuali e contraddizioni presenti nei complessi antagonismi di classe del corpo sociale italiano (e, in senso estensivo, occidentale). Questo in un’epoca di trasformazione radicale del modo di produzione industriale e, di conseguenza, dei rapporti sociali, umani e di genere.
Nel carcere tutto mi è apparso più lineare e immediato: il pensiero, la lotta, lo scontro, i sentimenti, potendo permettermi di avvicinarmi a una progettualità più totale sull’epoca.
Potrei sintetizzare così, in modo semplice: l’antagonismo Istituzioni/Movimento, la tensione tra Pci e Movimento (tattica e strategia), la contraddizione tra democrazia liberale e diritti umani, tra masse operaie e avanguardie comuniste, l’amore affettivo e la fede politica.
La terza ragione è legata alla dimensione privata. La storia di Pasquale – e Anna – presenta un aspetto picaresco, di grande vitalità; non è ordinaria; non ha limiti né vincoli, afferra, divora; se vogliamo questo aspetto più popolare, in altri contesti, in altre epoche, sarebbe valso un’opzione da qualche broadcaster per una serie tv.
A me ha colpito perché mi ha sempre ricordato un “precetto” di Lukács: la vita come danza dell’anima nei continui cambiamenti. Lasciarmela esplorare così nel profondo, nel suo nesso politico e non, è stato un atto di estremo coraggio da parte di Pasquale.

Che tipo di accoglienza ha avuto il film? Ci sono state anche alcune polemiche…
Il film è stato presentato pubblicamente finora solo al Festival dei Popoli. Sold out e cinque minuti di applausi. Al di là della soddisfazione personale, dimostrano che questo film ha un pubblico potenziale. Sono seguite recensioni positive, cosa non scontata per un film in questi tempi difficili.
Sulle polemiche… Succede che il mattino del 4 novembre Il Tempo esce con un articolo in prima pagina attaccando la presenza di Pasquale al festival, sostenendo che fosse stata pagata con fondi pubblici. Ovviamente hanno preso un bel granchio, perché Pasquale è venuto a sue spese come parte della delegazione del film, comunicato da me con largo anticipo alla direzione del festival dopo loro esplicita domanda.
Dopodiché, durante la giornata e la serata, si è scatenata la canea da parte di chi confonde lo Stato di diritto (già abbastanza ferito ultimamente, spero non mortalmente) con uno Stato etico, mettendo in discussione se un libero cittadino da venticinque anni con pena lungamente scontata abbia diritto di parola o meno. Tutto abbastanza prevedibile.
Forse, però, tutta questa grancassa mediatica ci ha aiutato a portare curiosi in sala. Ed è stato nel rispetto di queste persone —che avevano il diritto di vedere il film — che abbiamo deciso (le produzioni e la distribuzione), insieme a Pasquale, di evitare interviste al Tg1 e ai giornali prima della proiezione, per non acuire le tensioni. Mi sono limitato a una dichiarazione di risposta sintetica ma ferma, che potete trovare in rete, e Pasquale ha fatto una dichiarazione a fine serata che condivido: “Un piccolo contributo per far conoscere alle nuove generazioni quanto successo negli anni Settanta”.
Nei giorni successivi abbiamo infine pubblicato nelle nostre pagine social un comunicato congiunto delle produzioni e della distribuzione che stigmatizzava l’attacco pretestuoso al film e puntava l’attenzione su un aspetto non secondario della vicenda ovverosia come questo attacco fosse l’ennesimo puntello a un’offensiva contro il mondo della cultura e i suoi esponenti, a chi vuole proporre progetti al pubblico per riflettere, per coscientizzare. Sono opere che questo governo, anche con l’attacco senza quartiere al mondo del cinema indipendente, ai suoi lavoratori, alle micro e piccole case di produzione, vorrebbe che non trovassero più la luce.

Che tipo di distribuzione avrà il film? Sarà possibile vederlo nei cinema o ci sono problemi?
Sarà una distribuzione inedita, adatta alla fase, su tre linee parallele. Centri sociali, circoli culturali e ricreativi, ovunque ce lo chiederanno.
A questa si aggiungeranno più che potremo i cinema tradizionali, per arrivare a più spettatori possibili. E infine una piattaforma Svod [servizio on demand, ndr] per chi è impossibilitato a vedere il film fisicamente.
È chiaro che per quanto riguarda le proiezioni al cinema, le polemiche al Festival dei Popoli non giocano in questo momento a nostro favore. Ci può essere paura, cautela da parte degli esercenti così come da parte di altri festival in un contesto in cui si vive di fatto sotto ricatto di una possibile tagliola del sostegno pubblico. Si chiama censura preventiva, è forte esiste ed è sempre più manifesta.
Ma se non faremo cadere nel silenzio il film grazie al supporto e al sostegno nelle proiezioni di base, al passaparola, alle recensioni e ai commenti della base, i rapporti di forza cambieranno e si prenderà più coraggio anche in contesti più istituzionali/di massa.

Prima di proseguire ti chiediamo una precisazione. Stiamo parlando di un film, ma la forma della tua opera è una combinazione: ci sono parti recitate, parti documentaristiche, parti di elaborazione e dialogo. È corretto dire che ti sei preso la briga di portare sugli schermi un argomento e una storia senza il filtro della fiction?
Il discorso è complesso. Per rispondervi subito dico sì, non c’è il filtro della fiction e quando c’è essa è dichiarata. Ma questa è solo la punta dell’iceberg.
Il film non si misura solamente con una dimensione politica in senso puramente storico e materiale, ma anche nel suo senso estetico. È un film ibrido, vero, ma ibrido particolare.
Sin dai primi incontri con Pasquale mi resi conto come una classica intervista con materiale d’archivio di copertura avrebbe aggiunto poco a quanto già scritto da lui stesso in Correvo pensando ad Anna. Al massimo sarebbe stata una più o meno felice trascrizione visiva. Molto più probabilmente però questo tipo di approccio “statico”, “empirico” avrebbe portato ad alcune fallacie metodologiche: anzitutto trasformare un’esperienza così viva in un reperto, perdendo la sua peculiarità dialettica; il naturalismo della ripresa avrebbe enfatizzato una supposta idea di autenticità del rapporto tra me ricercatore e soggetto Pasquale, omettendo il sempre lungo lavoro di scrittura, mediazione, sintesi (diffidate sempre dei documentari factual, e ancora di più di quelli d’osservazione!); avrebbe infine posto me ricercatore in una posizione di superiorità epistemica, obliterando la necessaria natura processuale dialogica di un rapporto che si costruisce nel tempo.
Per ovviare a queste fallacie sono ricorso alla metodologia dell’etnografia performativa, una branchia radicale e d’opposizione dell’etnografia tradizionale sviluppata negli ambienti accademici anglosassoni a partire dagli anni Sessanta che destabilizza l’idea che il ricercatore possa porsi “al di sopra” del proprio contesto di studio. Al contrario, essa mette in evidenza come la conoscenza emerga attraverso interazioni, negoziazioni e persino conflitti. In altre parole, la conoscenza non è semplicemente raccolta, ma co-costruita, improvvisata e “messa in scena” attraverso processi relazionali. Si capirà che questo metodo fosse il più appropriato, e il più eticamente corretto nei confronti dello spettatore per approcciare la storia di Pasquale, e la grande Storia che essa attraversa. E non ultimo una scelta di politica estetica ben precisa.
Una volta scelto il metodo, discusso con Pasquale, costruito in un lungo lavoro di scrittura e relazione, sono arrivato alle riprese. Qui è subentrato il mio lavoro più propriamente tecnico di regista.
Come traslare e tradurre una metodologia accademica che quando utilizza mezzi di ripresa è solo per meri scopi di raccolta qualitativa nel linguaggio del cinema? Come stabilire una dialettica non solo tra me, il giornalista Fulvio Bufi, Pasquale, ma con lo spettatore? Come porre lo spettatore in uno stato di vigilanza pronto a partecipare come co-costruttore al senso filmico dell’opera?
A questo scopo mi sono ispirato al modernismo, alla lezione teatrale di Brecht e Piscator e, al contempo, guardando ai processi di decostruzione del linguaggio filmico del mio maestro Romano Scavolini.
Già in alcune occasioni, ho richiamato più volte l’idea di un “film costruttivista”, dove gli elementi semantici raccordati dai piani sequenza, non servono solo a creare una fluidità narrativa, ma a mostrare le cuciture stesse del discorso filmico.
L’idea dell’esperimento, dichiarato in apertura del film, è presentare allo spettatore una sintassi filmica che non occulta, bensì espone i livelli di costruzione drammaturgica (interviste, ricostruzioni, archivio, ecc.…) portando lo spettatore dalla riflessione politica al sentimento, dalla didascalia storica alla conflittualità della memoria, e ritorno, senza mai fargli dimenticare che si tratta di un processo partecipato, in fieri.

È corretto affermare che il valore civile del tuo film si riassume nel (ri)portare nel panorama culturale, ma anche politico e sociale, l’argomento del movimento rivoluzionario del nostro paese?
Non voglio attribuirmi risultati più grandi degli scopi prefissati e di ciò che è stato effettivamente raggiunto a oggi. Ho dato – abbiamo dato – un mio contributo al dibattito storico sugli anni Settanta, offuscato dal perenne orizzonte giudiziario, se non da quello complottista, con rigore, con coraggio.
L’ho fatto scegliendo una metodologia di indagine d’opposizione e progressiva che applicata a una figura politica come quella di Pasquale ha dato risultati originali sia sul piano contenutistico che nella sua dimensione estetica.
Quanto possa influenzare il dibattito sull’epoca è presto, molto presto per dirlo. Auspico che possa essere visto il più possibile. In un paese civile non ci dovrebbero essere argomenti proibiti o da temere.

Un’ultima domanda. Ti chiediamo una considerazione che in un certo senso esula dalla contingenza dell’uscita del film, ma probabilmente lo fa solo in apparenza. Negli Usa, Luigi Mangione è stato arrestato con l’accusa di aver sparato al Ceo di una delle più grandi corporazioni della previdenza sanitaria, uccidendolo. Quel fatto ha contribuito a scoperchiare il verminaio delle grandi compagnie assicurative che prosperano aggravando le disgrazie della popolazione e Mangione è diventato letteralmente un eroe per le masse popolari di mezzo mondo.
Non ti chiediamo di commentare quel fatto, ma in qualche modo c’è un nesso fra il voler interrogarsi sul senso della violenza politica attraverso un film che ripercorre un pezzo della storia del nostro paese e quello che è successo e sta succedendo oggi negli Usa. Non è e non può essere un legame cosciente, sembra però che dato il punto a cui è arrivata la crisi generale torni a riproporsi diffusamente l’esigenza di un rivoluzionamento che non si fa in guanti bianchi e non è un pranzo di gala…
Facciamo una premessa. Mangione è al momento un sospettato di omicidio, a cui deve essere garantito un giusto processo. L’ipotesi di abrogare ad personam la sospensione della pena di morte nello Stato di New York [La pena di morte nello Stato di New York è stata sospesa dal 2004, ndr] è preoccupante ed è un indice significativo.
Per quanto riguarda il detto di Mao: è una considerazione molto complessa rispetto alla quale spetta al Movimento negli Stati Uniti, e alle sue forme d’organizzazione maturare una riflessione, non a me dalla mia scrivania. Da attento osservatore della politica grassroots [movimento spontaneo dal basso, ndr] statunitense, vi posso dire che seguo la vicenda con attenzione e che se dovessi, per ipotesi, costruire un film sulla vicenda, c’è molto materiale da indagare. Ci sono molteplici piani di conflitto, molteplici contraddizioni con caratteristiche particolari e allo stesso tempo universali: il gesto manifesta sintomi sistemici di cui forse la stessa popolazione statunitense ignorava la consistenza e sul quale ora sta prendendo posizione.
Attenzione però: non è la prima volta che capita negli Usa… ricordo John Dillinger durante la grande depressione: il rapinatore Robin Hood che guadagnò un forte consenso popolare bruciando i registri contabili delle banche… Al termine degli anni Trenta non ci fu la rivoluzione, ma la Seconda guerra mondiale e il maccartismo.

Abbiamo finito le domande. Vuoi concludere tu?
Invito a seguire sulle nostre pagine social il calendario delle proiezioni. A presenziare il più possibile, e qualora il film fosse di vostro gradimento a utilizzare l’arma del passaparola, a postare recensioni.
Stiamo discutendo se lanciare un crowdfunding online per sostenere il nostro sforzo. Vi terremo aggiornati.
Questo film potrà vivere solo con un consenso dal basso, con uno spettatore che rifiuta il cinema come spettacolo per addormentare le coscienze. Tocca a voi tutti.

Iscriviti alla newsletter

Abilita JavaScript nel browser per completare questo modulo.

I più letti

Articoli simili
Correlati

Oltre il tifo per Luigi Mangione

Brian Thompson, il Ceo della più grande compagnia di...

Africa, il movimento comunista e antimperialista alla riscossa

I neri hanno dormito troppo a lungo, ma attenti!Chi...

Sul boicottaggio della Leonardo e le mobilitazioni in corso

Promuovere e organizzare la nuova resistenza

Conoscere il nemico per imparare a combatterlo

Alcuni esempi di inchieste e denunce sul ruolo di Nato e sionisti in Italia