Pubblichiamo l’intervista a Olivier Leberquier della Fralib, fabbrica francese di tisane e the che nel 2014 è stata letteralmente strappata dagli operai alla multinazionale USA Unilever, che voleva delocalizzare la produzione in Polonia, dopo 1336 giorni di lotta.
La vicenda è esemplare, oltre che per la caparbietà, l’organizzazione e la costanza nella lotta degli operai, per gli appigli e gli insegnamenti che fornisce. A partire dall’avere il più possibile il polso dell’andamento dell’azienda, nell’intervista emergono diversi spunti per alimentare ed elevare il tiro delle mobilitazioni in corso nel nostro paese di tanti lavoratori che cercano di impedire la chiusura delle aziende da parte di fondi di investimento, multinazionali e “capitani coraggiosi” di casa nostra che sempre più dirottano risorse sui dividendi per gli azionisti, lla speculazione finanziaria, le delocalizzazioni in paesi con costi di produzione inferiori e leggi meno restrittive su diritti e ambiente.
Le vicende della ex GKN di Campi Bisenzio, degli stabilimenti Beko/ex Whirlpool di Napoli e Siena sono alcuni esempi illuminanti di queste battaglie per il lavoro utile e dignitoso, per arrestare lo smantellamento di interi settori produttivi come stanno cercando di fare gli Agnelli/Elkann con le fabbriche ex FIAT oggi Stellantis; l’esperienza della Fralib conferma insegnamenti, metodi e strumenti comuni, ne rafforza le rispettive lotte, offre altri appigli.
Buona lettura!
Domanda (D.): Nel momento in cui avete ricevuto la notizia della chiusura della fabbrica, quali ragioni hanno portato i padroni per questa mossa? E’ stato un fulmine a ciel sereno, senza che voi poteste immaginarvelo, o c’erano già stati dei segnali che la fabbrica era in pericolo o dei segnali rispetto alle intenzioni padronali e cosa avete fatto, con che azioni avete reagito?
Olivier Leberquier (O.L.): Allora, le decisioni della multinazionale Unilever in relazione alla chiusura sono unicamente motivate da ragioni di profitto, per fare ancora più profitto. Cosa è successo? La mia risposta sarà forse un po’ lunga, ma è importante per far capire meglio come si è arrivati a quella situazione di conflitto. In una situazione di lotta di classe è la nostra classe che ha vinto, contro la multinazionale Unilever, sfortunatamente non è sempre il caso ed è bene
comprendere la quantità di profitti in gioco e come abbiamo organizzato la lotta, per capire come ce l’abbiamo fatta!
Preciso, come faccio sempre quando mi si chiede di rendere testimonianza come adesso: oggi non si vuole dare lezione a nessuno. La lotta è complessa, c’è una quantità di fatti implicati, e quindi può essere più semplice in un posto piuttosto che in un altro. Quindi: niente lezioni, soltanto rispondere e esporre cos’è successo da noi e se può essere utile ad altri per delle lotte in futuro: beh, tanto meglio.
Quando, nel settembre 2010, Unilever presenta il progetto di chiusura, siamo rimasti stupefatti, non si pensava che si arrivasse alla chiusura, ma che ci fosse ancora una volta una ristrutturazione per diminuire il numero di persone. Alcuni di noi sapevano che stava succedendo qualcosa, ma non a quel livello.
Personalmente non sono stato totalmente sorpreso, io sono entrato nel gruppo Unilever all’inizio degli anni Ottanta e abbastanza rapidamente, ho avuto i primi mandati di strutture di rappresentanza sindacale e ho visto in Francia delle ristrutturazioni permanenti di posti di lavoro… quando sono entrato in fabbrica c’erano 15000 salariati in Francia e nel frattempo fra il 1980 e il 2010 le multinazionali hanno acquistato diversi gruppi in Francia. Il gruppo dunque avrebbe dovuto avere più dipendenti, però nel 2010 non siamo più che 2300 in Francia, perché mentre acquistavano gruppi hanno licenziato, hanno ristrutturato, hanno chiuso dei luoghi di produzione. Continuamente, senza interruzioni, ci sono state ristrutturazioni.
Io stesso, con alcuni compagni di qui, avevamo già vissuto la chiusura di un sito, perchè Fralib, cioè Française de Alimentation e de Boisson, comprendeva all’inizio tre luoghi di produzione: quello di Marseille, quello di Le Havre e un sito a Poitiers, oltre alla sede sociale in Région Parisienne, in tutto 650 salariati. E nel 1998 hanno annunciato la chiusura di Le Havre, da dove vengo (non ho l’accento musicale dei miei giovani compagni provenzali); hanno chiuso il sito con la eliminazione di 152 posti di lavoro, ma a quei tempi proponevano la creazione di 158 posti nel sito di Marsiglia. Per questo, a livello sociale non abbiamo potuto fermarli. Io sarei restato a Le Havre a lavorare, o almeno avere l’alternativa di scendere a Marsiglia o di restare a Le Havre.
Facevano questa proposta sottolineando che era una fabbrica a livello europeo per i the profumati, infusioni bio e infusioni profumate. Dunque proponevano di creare più posti di quelli che sopprimevano, ecco come presentavano la faccenda, salvo che Le Havre è nel nord della Francia, ci sono mille chilometri fra Le Havre e Marsiglia: è più vicino andare in Italia che a Le Havre, per noi. Abbiamo lottato – ero già delegato sindacale della CGT e membro del consiglio di amministrazione – almeno per avere la scelta tra restare a Le Havre o scendere a Marsiglia. Purtroppo la lotta del 1998 non l’abbiamo vinta, quindi in molti, 54 famiglie, siamo scesi alla fabbrica di Marsiglia, che è quello che ci proponevano. In Francia, anche se spesso si è presentati come il Paese dei Diritti dell’Uomo, saremo anche questo paese, ma quando si lotta in un conflitto sindacale, in un combattimento radicale, ci si mette in una brutta situazione e poi per lavorare diventa complicato. Quindi il solo modo che avevamo di conservare il lavoro era quello di scendere a Marsiglia, sennò molti di noi, avevamo fra i 30 e i 40 anni all’epoca, saremmo stati marchiati a fuoco. E in più allora c’erano molti posti a Le Havre che chiudevano, come nei cantieri navali. Quindi esistevano molte difficoltà a trovare lavoro, quindi si è scelto il male minore. Già anche a Marsiglia c’era stata una chiusura con delocalizzazione, anche se non troppo lontano. La fabbrica storica era nel centro città, e nel 1989 l’avevano chiusa per spostarla a 35 chilometri, là dove siamo adesso, a Gémenos, per beneficiare di vantaggi fiscali ma anche allo stesso tempo con soppressione di posti di lavoro. Noi di Le Havre avevamo vissuto la chiusura degli stabilimenti, sapevamo di cosa si trattava, e anche altri salariati che erano venuti a Marsiglia, almeno 140 / 150, avevano già vissuto la chiusura di un luogo di produzione, con le sue conseguenze sociali. Questo spiega la forte mobilitazione nel 2010 per lottare contro la chiusura e il trovare una soluzione alternativa.
La seconda spiegazione, che è la mia personale che illustra come si è potuto unire tanti salariati che si sono mobilitati per battersi per preservare il loro posto di lavoro, è che c’era un alto tasso di sindacalizzazione nell’azienda; era molto alto rispetto alla media nazionale, perché su 182 salariati nella fabbrica a settembre 2010, 96 erano iscritti alla CGT. Di fatto, più della metà, e questo dava una notevole forza al Sindacato. Alle elezioni dei rappresentanti del personale si passava all’ 85 – 90 % dei voti.
La terza spiegazione è che il nostro ruolo, come rappresentanza sindacale nell’azienda Fralib, che apparteneva alla multinazionale Unilever, è stato di capirne bene il funzionamento economico, facendone regolarmente partecipi i
lavoratori. Di seguito riporto due o tre cifre per capire meglio. Nel 2009 abbiamo fatto una ricerca sui salari, con l’aiuto dei nostri esperti in economia. In Francia c’è lo Smic, cioè il salario minimo autorizzato, e ci siamo accorti, con la griglia dei salari di Fralib di 20 anni, che quando un salariato che entrava in azienda nel 1989, al gradino più basso, come ‘operatore’ era pagato il 64% in più dello Smic per cominciare. Nel 2009 era stipendiato con solo il 3% in più dello Smic. Salendo nella scala delle condizioni economiche, lo scarto era ancora più notevole.
A questo si è aggiunto uno studio per misurare il costo dei salari. Per i capitalisti non siamo degli uomini e delle donne, ma dei costi, e quindi ti dicono che il problema economico è un problema di costi, quindi abbiamo cercato quale è quello che chiamano “il costo”, il costo dei salari. Una scatola di the media era venduta nel 2009 a 1,80- 2,60 euro, abbiamo guardato quanto pesavano i salari sulla scatola e all’epoca il peso del salario, comprese le contribuzioni salariali e padronali, la totalità del salario, era di 14 centesimi ogni scatola, una scatola che si vendeva fino a 2 euro e 60. Si vede bene che un problema economico c’era, non era il peso dei salari ma piuttosto il costo degli azionisti, le remunerazioni dei loro dividendi che gonfiavano sempre di più: questo era il grosso peso sull’economia dell’azienda.
Per dimostrarlo, avevamo fatto un’ultima dimostrazione economica in merito a quello che si chiama il “punto di equilibrio” dell’azienda su un anno: il punto in cui il totale delle entrate finanziarie permette di pagare tutti i costi dell’azienda. Come prodotti lavorati all’epoca, fra il 2005 e il 2010, si arrivava a 3000 tonnellate, si è visto che a partire da 1000 tonnellate la totalità dei costi dell’azienda era coperta. Cioè: i costi di affitto dei locali, i costi delle macchine, la loro manutenzione, i costi relativi ai salari, l’acquisto delle materie prime, la totalità dei costi. Quindi i lavoratori di Fralib lavoravano quattro mesi per coprire i costi e otto mesi per arricchire gli azionisti.
D.: tutti questi dati, anche quelli relativi ai profitti dell’azienda, anche quelli normalmente non pubblici, come li avete ottenuti?
O.B.: In Francia una parte dei fondi dell’azienda vengono utilizzati per scopi sociali, questi vengono gestiti dai rappresentanti dei lavoratori (per esempio per delle regalie ai bambini, per spese appunto di tipo sociale). I nostri esperti hanno il diritto di conoscere i dati della società anche per stabilire le quote da destinare alla gestione sociale. Questo ci ha permesso di avere accesso ai dati di tutta l’attività della società stessa. E i nostri esperti, tra l’altro pagati con dei fondi della società stessa, sono riusciti a diventare responsabili anche per altre filiali del gruppo e in questo modo abbiamo potuto confrontare i dati di tutto il gruppo. È importante conoscere i dati per potere svolgere un lavoro scientifico nei confronti del gruppo stesso punto, certo non bisogna limitare il proprio orizzonte alla gestione dei regali di Natale o degli addobbi dell’albero..
Non critico altri eletti rappresentanti dal personale, da noi in Francia quando si è eletti, ci si può occupare di diverse cose oltre alla qualità del lavoro di tutti i giorni; per noi era importante capire il funzionamento economico della fabbrica e questo ci ha permesso di avanzare delle rivendicazioni perchè si sapeva che l’azienda poteva rispondere nel merito. Se l’azienda fosse stata in grandi difficoltà, non si sarebbero avanzate lo stesso livello di rivendicazioni.
D.: esisteva all’interno della vostra fabbrica un nucleo di lavoratori coscienti per potere organizzare queste forme di resistenza? Per esempio, a Firenze quando i padroni decisero di chiudere la fabbrica GKN esisteva già un gruppo di lavoratori, che ha saputo organizzare rapidamente delle forme di resistenza interna e poi anche collegandole con lotte esterne.
O.L. Molti lavoratori avevano già fatto l’esperienza di chiusura di fabbriche e delle implicazioni sociali collegate. Dunque, sapevano che il sistema migliore per conservare il posto di lavoro era quello di difendersi dall’interno della fabbrica, tenendo presente anche che in quel momento faceva grandi profitti. Quando ci hanno annunciato la chiusura il 26 settembre 2010, non ci siamo svegliati alla mattina dopo con la consapevolezza di dover costruire una cooperativa. Però avevamo la consapevolezza che era necessario preservare la fabbrica e i posti di lavoro ricorrendo a tutte le forme di lotta possibili e immaginabili per poter continuare a lavorare. Abbiamo subito studiato dei progetti per potere garantire il futuro. Dopo tre mesi e mezzo non escludevamo la possibilità di trovare un investitore che poteva permettere di continuare a fare funzionare la nostra azienda. A gennaio abbiamo presentato un progetto molto sobrio, molto pacato di quattro pagine. Le prime due pagine spiegavano che non era il caso di chiudere l’azienda visto che ancora funzionava bene e sulle due pagine successive abbiamo articolato delle nostre visioni per il futuro.
Ci siamo rivolti anche agli enti locali come al comune e alla regione. La regione accettò di creare un fondo per pagare degli esperti per potere trovare una soluzione. Questi esperti erano i nostri esperti, che già conoscevano molto bene la situazione dell’azienda visto che si erano occupati in passato della gestione dei fondi sociali. A luglio presentammo un documento più corposo costruito, come il primo documento, con una prima parte che parlava della situazione sana dei conti della società, e una seconda parte con la presentazione dei vie percorribili.
La prima era quella di acquisto da parte di un’altra società, non abbiamo mai scartato questa opzione per mantenere i posti di lavoro. La seconda soluzione era quella di costituzione di una società cooperativa di interesse collettivo.
La cooperativa avrebbe dovuto essere allargata ad altre collettività e cooperative o anche ai consumatori. Attraverso forme collegiali si sarebbero potute definire le prospettive e anche trovare i finanziamenti necessari. Ritenevamo possibile il rilancio della filiera delle piante medicinali e aromatiche in Francia. Volevamo utilizzare materie prime naturali e nobili e evitare l’aggiunta di materie chimiche. Il Consiglio regionale della Francia Sud disponeva delle prerogative di gestione dell’Agricoltura regionale in Provenza e dunque poteva disporre di risorse da mettere a disposizione.
La terza opzione era la cooperativa semplice, che poi è quella che abbiamo scelto, una quarta forma che avremmo preferito, ma che avrebbe comportato una lunga e complessa battaglia per cambiare le leggi in Francia, era un tipo di gestione dell’azienda sotto il controllo dei lavoratori. Ma avremmo dovuto trovare dei politici disposti a presentare un progetto di nuove leggi al parlamento francese e che, tenendo presente anche come si è sviluppata negli anni successivi la situazione politica francese, probabilmente non sarebbe passata. È sufficiente pensare a come attualmente il voto della maggioranza dei Francesi non viene rispettato.
D.: conosciamo queste situazioni, anche in Italia i governi non rispettano più il dettato costituzionale.
O.L. Ci siamo resi conto che la lotta per ottenere delle nuove leggi non era alla nostra portata. Ci siamo dunque limitati a difendere i posti di lavoro di 180 e passa lavoratori. Certo, non è detto che in futuro non si facciano delle battaglie per ottenere un maggior peso dei lavoratori della società. Abbiamo optato allora per una forma di società più vicina a quello che sarebbe stato l’ideale. La lotta non è stata facile ed è durata quattro anni.
Alla fine abbiamo conservato 76 posti di lavoro, dunque poco meno della metà dei lavoratori a rischio. Però c’è un elemento molto positivo. I lavoratori hanno imparato a capire il funzionamento di un’azienda. Ci siamo anche avvicinati ad altre esperienze di società cooperative come per esempio la Lip, che produce orologi e aveva portato avanti una lunga e difficile lotta negli anni Settanta, o altre esperienze cooperative che tuttora riescono a formarsi, tra queste la Seralec che è riuscita a sopravvivere, tra l’altro producendo dei sistemi di isolamento in ceramica, e penso che sia più difficile vendere questi sistemi che mettere sul mercato dei prodotti come quelli che produciamo noi. L’esperienza di questi lavoratori è stata molto utile. I loro problemi erano gli stessi che abbiamo dovuto affrontare noi, ecco perché vado spesso e molto volentieri a parlare della nostra esperienza presso altre aziende in difficoltà.
D.: illustraci il ruolo del vostro o di altri sindacati e la partecipazione degli enti pubblici e delle banche.
O.L. Per quanto riguarda l’aspetto sindacale, tutte le decisioni sono state prese in base alla volontà dei lavoratori.
Come CGT abbiamo fatto riferimento a vari livelli della nostra organizzazione sindacale, sia al livello locale che anche ai livelli superiori, e anche ai nostri esperti giuridici, di contabilità e di gestione. Talvolta ci sono anche state delle linee diverse che si sono confrontate, ma dopo lunghe discussioni prevaleva sempre la volontà della base ed era quella che veniva presa come linea di condotta con l’appoggio delle strutture centrali. Abbiamo sempre coinvolto anche i rappresentanti politici che si facevano vedere nella nostra fabbrica, questa presenza ovviamente faceva anche parlare i giornali della nostra lotta.
Negli anni la direzione aziendale proponeva dei premi per uscire dalla fabbrica. Noi ci siamo sempre opposti a questa opzione. Abbiamo tentato di bloccare queste proposte attraverso iniziative legali, però passarono diversi mesi prima di avere un risultato dal punto di vista giuridico. Nel frattempo la direzione convocava i lavoratori dicendo loro che i rappresentanti sindacali erano dei pazzi e se avessero scelto di non andare in causa avrebbero avuto un incentivo per accettare il licenziamento. La direzione proponeva un’indennità di licenziamento di 60.000 euro. Nel 2012 circa la metà dei dipendenti lasciò l’azienda. Abbiamo vinto la causa e questi licenziamenti volontari furono considerati non legali e la ditta dovette riprendersi i lavoratori. A questo punto mise 90.000 euro sul piatto per ottenere un licenziamento volontario. Nonostante questo, 76 lavoratori rifiutarono di licenziarsi e continuavano ad insistere sul fatto che andavano salvati i posti di lavoro. Siamo riusciti ad ottenere 3 milioni di finanziamento per iniziare il lavoro della cooperativa. Inoltre, si è anche discusso del pregiudizio creato dal punto di vista monetario per coloro che erano rimasti nell’azienda. La lotta ha pagato. Non solo siamo riusciti a avviare la nostra cooperativa con dei finanziamenti esterni, ma la multinazionale ha dovuto pagare la stessa cifra della buona uscita ai lavoratori rimasti.
Per quanto riguarda il nostro rapporto con il mondo della campagna, possiamo dire che tutti gli ingredienti per i nostri prodotti sono stati prodotti da aziende agricole del nostro territorio, mentre i prodotti che continuano a essere messi sul mercato dalla azienda madre Unilever provengono tutti dall’estero attraverso giri folli per ottenere riduzioni fiscali, facendo passare la merce da Anversa alla Germania poi dalla Germania in Polonia per poi finire sul mercato locale francese. Noi ci procuriamo il tiglio, il timo e tutte le nostre materie prime per i nostri prodotti da aziende agricole a una distanza massima di 130 km. Anche i contenitori vengono prodotti da aziende del territorio, che riduce ovviamente la creazione di CO2.
D.: fate corsi di formazione professionale o organizzativa per i lavoratori? Avete dei rapporti con formazione politiche? Esiste una rete tra esperienze di autogestione sia di cooperative che di aziende nel vostro territorio?
O.L. L’esperienza professionale ce la siamo portata dietro dalla vecchia azienda, da quel punto di vista non ci sono stati problemi. Qualcuno di noi ha cambiato la sua mansione e dunque ha avuto bisogno di qualche elemento di formazione. Una collega sottoutilizzata dal punto di vista della sua professionalità nella azienda precedente, ora occupa il posto che corrisponde alla sua vera preparazione. Nel periodo della presidenza di Hollande alla guida della Francia siamo riusciti ad ottenere mezzo milione di euro per ulteriore formazione e ricerca. Assieme ad un altro collega ho seguito dei corsi di formazione a Montpellier per la gestione aziendale di istituzioni cooperative o di lavoro sociale sul territorio. Abbiamo avuto l’occasione di scambiare esperienza e idee in quel contesto.
Abbiamo partecipato alla Fête de l’Humanité, del quotidiano del partito comunista francese Siamo spesso invitati per illustrare il percorso della nostra lotta e spesso ci vengono chiesti consigli da parte di aziende in agitazione come per esempio una fabbrica di vetro, la Duralex. Nel mese di aprile siamo stati invitati da una stamperia nella zona di Saint-Etienne che rischia la chiusura. A Carcassonne un’azienda, la Fabrique di Sud, ha fatto la nostra stessa esperienza e rimaniamo in stretto contatto con loro. Un’azienda di distribuzione di prodotti di stampa in pieno covid ci ha chiesto di dar loro dei consigli. Esiste dunque una rete tra aziende autogestite o aziende di tipo cooperativo, e mi auguro che questi legami si rafforzino in futuro.
I capitalisti sanno gestire bene i loro interessi. Vediamo che anche presso l’Unione Europea, delle lobby di consorzi capitalisti dell’agroalimentare o altri condizionano la creazione delle leggi che poi andranno a loro favore. Noi dovremmo superare quelle maglie per fare passare delle leggi a nostro favore. Voglio fare un esempio. Quando sono entrato a Unilever gli ingredienti dei prodotti erano tutti naturali. A partire dal 2000 invece sono stati inseriti nella produzione dei componenti chimici, anche se vengono etichettati come simili al naturale. Noi come consiglio di fabbrica ci siamo espressi contro questo tipo di produzione. Le lobby si oppongono ha una chiara etichettatura dei prodotti. Per esempio, se inseriscono dei prodotti chimici nella loro produzione di aromi (per esempio il limone) sull’etichetta, è per il momento sufficiente indicare “aroma limone”, ma si tratta di un prodotto chimico. Spesso le etichette ingannano il consumatore. I consumatori hanno il diritto di sapere cosa stanno comperando. Dovremmo noi fare del lobbying in senso contrario.
D.: Quali sono le vostre prospettive, quali consigli potete dare ai lavoratori?
O.L. Non vogliamo dare lezioni, vogliamo semplicemente condividere le nostre esperienze. Se posso dare un consiglio, direi che è importante conoscere bene i meccanismi e la situazione economica dell’azienda. In caso di difficoltà aziendale conviene sempre iniziare una lotta: magari si rischia di perderla ma almeno si sarà combattuto, altrimenti avremmo già perso. Noi abbiamo lottato e abbiamo vinto! Aggiungo ancora che abbiamo organizzato qui in Francia un incontro internazionale delle aziende autogestite o cooperative all’interno della nostra fabbrica. Erano presenti anche dei lavoratori italiani, della Rimaflow e di altre realtà.