Il 30 novembre si svolgerà a Roma un’unica manifestazione in solidarietà al popolo palestinese. È un risultato estremamente importante conquistato dopo che sono stati respinti i tentativi di dividere fra “buoni e cattivi” il fronte dei promotori della mobilitazione e sono state disinnescate le manovre che avrebbero depotenziato TUTTO il movimento popolare. Le questioni politiche che stanno alla base delle spaccature per cui si è posto il rischio che si svolgessero due cortei nazionali a Roma, nel medesimo giorno, rimangono in piedi e l’unico modo per affrontarle in modo positivo, in modo cioè che diventino un’opportunità di sviluppo e di crescita, è trattarle apertamente nella loro dimensione politica.
Il P.Carc sarà presente in Piazza Vittorio alle ore 14 con lo stesso striscione portato in piazza il 5 ottobre: “viva tutta la resistenza – Palestina libera”.
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Come pure hanno fatto anche altri organismi, organizzazioni e movimenti, nelle scorse settimane abbiamo contribuito a trattare le contraddizioni che avevano portato all’indizione di due manifestazioni nazionali a Roma in solidarietà con il popolo palestinese: una indetta e promossa da Udap e Gpi e l’altra indetta dalla Rete dei Comunisti e dalla Comunità Palestinese in Italia del Lazio che, tramite l’assemblea del 9 novembre a Roma, ha raccolto una folta schiera di adesioni nell’ambito dell’associazionismo della sinistra borghese (qui c’è un parziale elenco degli aderenti).
Abbiamo lavorato per scongiurare la convocazione di due manifestazioni e ciò ci ha messo nella condizione di toccare con mano gli ostacoli che venivano posti a questa soluzione, al netto dei comunicati pubblici e delle dichiarazioni di circostanza, da una parte dei “contendenti” (per citare un esempio, ci è stato impedito di intervenire all’assemblea del 9 novembre, a cui avevamo aderito).
Non è con spirito rivendicativo, tuttavia, che trattiamo l’argomento. Anzi! Lo trattiamo perché il movimento in solidarietà con il popolo palestinese ha un ruolo oggettivo nella lotta di classe del nostro paese ed è effettivamente arrivato a un punto di svolta. È necessario affrontare le questioni politiche che lo caratterizzano in modo che diventi più compiutamente, efficacemente e coscientemente uno strumento della lotta che accomuna, pur in forme diverse, il popolo palestinese nella sua lotta per la liberazione dai sionisti e per l’autodeterminazione e le masse popolari italiane nella lotta contro la Comunità Internazionale degli imperialisti Usa, sionisti ed europei e i vertici della Repubblica Pontificia che ne sono diretta espressione in Italia.
La Terza guerra mondiale è in corso e questo richiede un salto nell’analisi e nell’azione da parte delle organizzazione del movimento comunista e di tutte le forze antimperialiste.
Un necessario passo indietro. Nel corso del tempo, l’esaurimento della prima ondata mondiale della rivoluzione proletaria e la debolezza del movimento comunista hanno favorito il processo per cui la sinistra borghese avesse mano libera nel sostituire la solidarietà di classe e l’internazionalismo proletario con l’interclassismo, l’approccio umanitario e il pacifismo senza principi.
È stato un fenomeno generale che ha ovviamente riguardato anche la solidarietà al popolo palestinese. Non solo. L’opportunismo politico della sinistra borghese ha creato il terreno favorevole per cui, anche nel campo dei sinceri solidali alla causa del popolo palestinese, trovassero cittadinanza posizioni oggettivamente nocive: la generica solidarietà con la Palestina, ma non con le forze della resistenza armata palestinese e, più di tutte, la truffa “due popoli – due stati”, coronata dagli Accordi di Oslo nel 1993 e anticamera della costruzione di muri, dell’allargamento delle colonie sioniste in Cisgiordania, della riduzione di Gaza a una prigione a cielo aperto e del genocidio in corso oggi.
Mentre sul piano politico la truffa “due popoli – due stati” veniva sventolata dalla Comunità Internazionale degli imperialisti e dalla sinistra borghese come “unica soluzione positiva” per il popolo palestinese, una fitta rete di Ong e associazioni ha sviluppato progetti umanitari e di cooperazione, ha istituito agenzie (per insegnare ai palestinesi a sopravvivere all’occupazione) e collaborato in mille forme con le “autorità palestinesi” costituite dalla dirigenza collaborazionista con gli occupanti sionisti, l’Anp.
Il processo, qui descritto per sommi capi, è stato accompagnato dalla criminalizzazione delle forze della resistenza che nel frattempo avevano cambiato di segno: data la debolezza del movimento comunista le principali formazioni della resistenza erano passate sotto la direzione delle forze religiose, prima fra tutte, ma non unica, Hamas.
Neppure la vittoria di Hamas alle ultime elezioni che è stato possibile svolgere in Palestina (2006) ha scalfito la narrazione tossica della sinistra borghese italiana che per interesse o per insipienza politica ha continuato a intrattenere relazioni e rapporti con i collaborazionisti dei sionisti anziché sostenere la resistenza palestinese.
Il 7 ottobre del 2023 il mondo della sinistra borghese ha fatto cortocircuito.
Il contrattacco della resistenza palestinese non ha dimostrato solo che la lotta per la liberazione e per l’autodeterminazione stava compiendo un salto nonostante la superiorità militare dei sionisti, ma ha posto agli occhi delle masse popolari del mondo intero, platealmente, le questioni politiche che la sinistra borghese aveva cercato di insabbiare o eludere per decenni: i popoli in lotta non chiedono ai loro oppressori il permesso di liberarsi; non cercano il consenso di chi collabora con i loro oppressori; non avendo alcuna scorciatoia da percorrere, si sollevano e combattono. Questo è l’insegnamento più importante che in oltre 70 anni di eroica resistenza il popolo palestinese consegna ai popoli del mondo.
Ecco alcune manifestazioni del cortocircuito di cui sopra:
– “due popoli – due stati”, che per anni è stato l’imbroglio dietro cui la sinistra borghese ha cercato di nascondere il proprio opportunismo, è diventata la parola d’ordine del governo Meloni, di Crosetto, di Tajani, di Salvini, ecc.
– Gli appelli all’Onu sono tornati a essere nuovamente, ancora una volta come altre decine di volte in precedenza, carta straccia.
– Di fronte alla fase dispiegata del genocidio del popolo palestinese gli appelli alla pace (senza principi) si sono mostrati per ciò che sono, sottomissione agli imperialisti e ai sionisti, e per ciò che valgono, niente.
– In tutto il mondo, e anche in Italia, con il cuore che batte nella Palestina occupata, le masse popolari e i popoli oppressi hanno trovato nuova spinta per mobilitarsi e sollevarsi.
In Italia questa spinta ha trovato terreno fertile in un contesto in cui le grandi centrali della mobilitazione popolare (sindacati di regime, grandi associazioni nazionali, ecc.) si distinguono per l’azione di conciliazione con la classe dominante, per il pompieraggio delle mobilitazioni, per la propaganda dell’“equidistanza” (né con i sionisti né con Hamas), per la criminalizzazione delle lotte e del movimento di solidarietà con la Palestina (divisione tra i buoni e i cattivi). D’altro canto, i partiti e le organizzazioni politiche anti Larghe Intese e i sindacati di base faticano a “rompere gli indugi” e ad assumere un ruolo propulsivo, avviluppati fra sfiducia, attendismo, spirito di concorrenza.
La mobilitazione in solidarietà al popolo palestinese ha creato le condizioni affinché sorgesse una nuova leva di avanguardie di lotta che hanno rianimato l’attività di organizzazioni politiche e sindacali di base, che hanno rianimato il movimento degli studenti (vedi intifada studentesca) e che stanno contribuendo alla creazione di nuovi centri promotori della mobilitazione popolare. Udap e Gpi sono fra questi.
Nel complesso, da ottobre 2023, il movimento in solidarietà con il popolo palestinese è stato uno dei principali fronti di lotta contro i vertici della Repubblica Pontificia, complici dei sionisti nel genocidio, e contro il governo Meloni.
Un fronte che si è combinato con le lotte operaie, con quelle studentesche, con il più generale movimento contro la guerra e contro la Nato, con quelle contro il ddl 1660, un movimento che ha contribuito a mettere a nudo il ruolo dell’Italia come serva della Comunità Internazionale degli imperialisti e che ha contributo a svelare il ruolo dei sionisti – degli agenti dell’entità sionista – in Italia.
Si è trattato, dunque, di un piccolo, ma necessario e salutare “terremoto”. Con alcuni picchi.
Il 27 gennaio 2024 il governo ha provato a vietare i cortei per la Palestina, in particolare a Roma e a Milano, ma i divieti sono stati rispettati solo in parte e, in particolare a Milano, il movimento per la Palestina libera ha dimostrato di non essere disponibile a subire arbitri e intimidazioni prefettizie e poliziesche.
A febbraio si è svolto uno sciopero generale dei sindacati di base che hanno risposto all’appello delle organizzazioni sindacali palestinesi e il giorno dopo, il 24 febbraio, una grande manifestazione nazionale di solidarietà con il popolo palestinese.
Il 25 aprile a Milano, il movimento per la solidarietà alla Palestina, in una combinazione di varie iniziative, ha occupato piazza del Duomo strappandola ai sionisti e ai loro alleati (Pd e istituzioni delle Larghe Intese). Per impedire che una situazione simile si presentasse anche a Roma, la comunità sionista romana ha dovuto mostrarsi per quello che è con un’azione squadrista di ampia portata.
A maggio il tentato omicidio di Gabriele Rubini ha reso ancora più evidente l’urgenza di liberarsi dalle zavorre ideologiche della sinistra borghese, dalle beghe e dai distinguo e di alimentare il fronte della solidarietà. Intanto nelle università dilagava l’intifada studentesca.
Ma è lo scorso 5 ottobre che c’è stato un vero e proprio salto. Di fronte ai divieti di manifestare imposti dal governo, Udap e Gpi hanno tenuto ferma la volontà di scendere in piazza. Attorno a loro si è coagulato un vasto fronte che ha sfidato il governo Meloni, ha violato i divieti e, cercando di forzare i cordoni di polizia, ha posto le condizioni per cui OGNI ALTRO DIVIETO paventato per le iniziative dei giorni e delle settimane successive fosse carta straccia.
Se il 5 ottobre il corteo non fosse stato fatto, se non fossero stati violati i divieti, se non ci fosse stato il tentativo di sfondare i cordoni contenitivi della polizia, il movimento popolare nel suo complesso – non solo il movimento in solidarietà con il popolo palestinese – sarebbe oggi in condizioni di maggiore debolezza a vantaggio della classe dominante, del ministero dell’interno, delle questure e delle prefetture.
Alla luce di questo, ci sono sul piatto gli elementi sufficienti per comprendere gli schieramenti attorno alla frattura sul corteo del 30 novembre a Roma e il significato della manovra che è stata tentata.
Se parliamo degli schieramenti, è sufficiente dire che fra coloro che hanno cercato di boicottare il corteo del 5 ottobre collaborando direttamente con il governo e alimentando la criminalizzazione di chi sarebbe sceso in piazza c’è la Comunità Palestinese in Italia del Lazio. Cioè l’organizzazione italiana che fa capo all’Anp in Palestina. Essa è anche fra i promotori dell’assemblea del 9 novembre e del corteo convocato in alternativa a quello già convocato da Udap e Gpi.
Fra coloro che si sono prontamente dissociati dagli “scontri” del 5 ottobre c’è l’area Contropiano/Rete dei Comunisti. È fra i promotori dell’assemblea del 9 novembre e del corteo convocato in alternativa a quello già convocato da Udap e Gpi.
Fra i promotori dell’assemblea del 9 novembre e del corteo convocato in alternativa a quello già convocato da Udap e Gpi c’è anche una parte della fitta rete di organismi che sono stati promotori (e in certi casi lo sono ancora) dell’imbroglio “due popoli – due stati” che non si rassegnano a perdere ruolo, peso e influenza benché siano stati travolti dalla storia.
Se parliamo del significato politico della manovra per svolgere la manifestazione alternativa a quella già indetta da Gpi e Udap, esso è stato prima di tutto un tentativo di “Larghissime Intese” per impedire che la mobilitazione del 5 ottobre faccia effettivamente scuola e per rimettere il movimento di solidarietà con il popolo palestinese nel solco delle compatibilità, della conciliazione, del “buon senso”, del pacifismo senza principi. Per ottenere questo risultato era necessario tentare di disgregare il fronte delle forze palestinesi e indebolire il ruolo assunto da Gpi e Udap in favore di un fritto misto di forze politiche, associazioni e organismi che partono dall’estrema sinistra borghese e finiscono all’ombra dei cespugli del Pd.
Nonostante manovre torbide e sgambetti, il 30 novembre ci sarà un’unica manifestazione nazionale a Roma, benché manovre torbide e sgambetti abbiano “lasciato in dote” la convocazione di una manifestazione, importante, anche a Milano indetta dall’Associazione palestinesi d’Italia (API).
Il P.Carc aderisce, partecipa e chiama i suoi membri, collaboratori e simpatizzanti a partecipare alla manifestazione di Roma, ma sarà presente con una delegazione anche alla manifestazione di Milano: rigettiamo ogni tentativo di alimentare divisioni artificiose e contrapposizioni deleterie in un momento in cui è invece importante la massima convergenza della mobilitazione.
Il movimento di solidarietà al popolo palestinese è a un punto di svolta, abbiamo detto. È di fronte alla necessità di compiere un salto, è più corretto dire. La lotta per la sua direzione è parte del salto che deve compiere.
Alcune fra le questioni principali.
1. Per tutta una fase, il movimento in solidarietà al popolo palestinese si è contraddistinto per una sorta di delega in bianco dei partiti e delle organizzazioni politiche italiane alle organizzazioni palestinesi in Italia: la formula ricorrente era “ci mettiamo in ascolto della comunità palestinese”, cioè “decidano loro e noi ci adeguiamo”.
Man mano che la direzione delle organizzazioni palestinesi si è consolidata, si è sviluppata, ha iniziato a porre questioni politiche più generali e di rottura con l’immobilismo della sinistra borghese, essa ha effettivamente assunto un ruolo politico dirigente perché ha dato sbocco alla spinta alla mobilitazione e ha saputo combinarla adeguatamente alle esigenze della lotta di classe in Italia in questa fase.
Lasciamo ad altri la disputa nociva se devono prevalere “gli italiani” o “i palestinesi” nella direzione della mobilitazione, alimentiamo la spinta per cui a dirigere il movimento – e più in generale la lotta di classe – sia chi incarna e promuove la linea avanzata: la linea della lotta anziché quella della conciliazione, la linea della solidarietà di classe anziché quella della dissociazione, la linea dell’unità delle forze anziché quella della concorrenza, la linea delle mille iniziative di base che rendono ingestibile il paese ai governi della borghesia anziché quella dei permessi in questura e degli accordi col prefetto. La linea del sostegno senza se e senza ma alla resistenza anziché quella dell’equidistanza.
2. In ragione del ruolo dell’Italia, la più efficace forma di solidarietà con la causa dell’autodeterminazione del popolo palestinese è rovesciare il governo italiano che collabora con i sionisti, che li protegge e che li sostiene. Chiunque cerca di eludere la questione sta solo mestando nel torbido.
Quali che siano le intenzioni dei promotori, ogni mobilitazione che non pone apertamente l’obiettivo di cacciare il governo Meloni, di rovesciare il governo della guerra e di impedire che si formi un altro governo delle Larghe Intese (ad esempio formato dal Pd e dai i suoi cespugli della sinistra borghese), è una mobilitazione che disarma il campo delle masse popolari, anziché alimentarlo e rafforzarlo.
Da ciò discende che ogni organizzazione politica e sindacale, ogni partito politico, ogni movimento sociale si valuta, va valutato, non principalmente dalle parole d’ordine più o meno radicali che usa, sul piano generale o su questioni specifiche, ma da quanto e come alimenta, favorisce, sviluppa la lotta per rovesciare il governo Meloni.
3. C’è uno stretto legame fra la mobilitazione in solidarietà con il popolo palestinese (ma il discorso si può allargare al più generale movimento contro la guerra) e l’organizzazione e la mobilitazione dei lavoratori nella lotta contro lo smantellamento dell’apparato produttivo, contro la finanziaria di guerra, contro le misure reazionarie del governo Meloni, ecc. Il legame è, “semplicemente” che un fronte può e deve alimentare gli altri, un ambito può e deve contaminare gli altri nel contesto di una mobilitazione che sale di intensità e di tono e trova la strada di uno sbocco politico unitario.
Le manovre che sono andate in scena attorno alla manifestazione del 30 novembre si presentano e ripresentano in ogni ambito in cui le esigenze di un salto in avanti della lotta di classe vengono affrontate in modo arretrato e anziché il salto possibile si manifestano arretratezze, inadeguatezze, opportunismo, settarismo, sfiducia, sudditanza alla classe dominante.
È il caso, ad esempio, della decisione del gruppo dirigente di Usb di tenere in piedi uno sciopero “di bandiera” il 13 dicembre anziché rafforzare la giornata di sciopero generale del 29 novembre.
Scioperare il 29 novembre è una “prova del nove” rispetto alle reali capacità di mobilitare i lavoratori sul terreno dello scontro aperto con il governo e di contendere la loro direzione ai vertici dei sindacati di regime; sarebbe una scelta di responsabilità e pone certamente la necessità di dare un seguito adeguato alla mobilitazione…
È, ancora, il caso di chi sciopererà il 29 novembre (Cub, Si cobas, Adl cobas, ecc.), ma si concentra in piazze diverse e alternative a quelle della Cgil e della Uil. La motivazione addotta è che “non bisogna legittimare i vertici dei sindacati di regime”, ma quello che salta agli occhi è la mancanza di assunzione di responsabilità di parlare alle migliaia di lavoratori che saranno nelle piazze delle Cgil e della Uil e che non sono affatto “collaborazionisti” con padroni e governo, che sono stufi di fare manifestazioni rituali con i bonzi sindacali e che se ne fanno poco e niente della linea settaria che li esclude dalla potenziale mobilitazione per la tessera sindacale che hanno in tasca.
Oppure è il caso della mobilitazione contro il ddl 1660: prendersi la responsabilità di alimentare realmente un fronte unitario che deve necessariamente fare i conti con differenze, divergenze, spinte all’egemonia fra diverse organizzazioni ed aree politiche (spinte che esistono e chi le nega si rende solo ridicolo) oppure procedere per tentativi di crearsi la propria “rete” nel tentativo di allargare il proprio orticello.
Serve un salto. La lotta di classe già spontaneamente spinge alla convergenza delle mobilitazioni. L’esigenza di uno sbocco politico alternativo e antagonista a quello della borghesia trasuda da ogni angolo.
Quello che decide tutto non sono, per adesso, “i grandi numeri delle manifestazioni” in nome dei quali (nell’illusione di ottenere i quali) curare ognuno i propri interessi particolari.
Quello che dirige tutto è la lotta per affermare la linea avanzata, positiva, d’avanguardia che sviluppa il protagonismo delle masse popolari contro ogni tipo di sottomissione alla classe dominante, che crea le condizioni affinché le masse popolari organizzate impongano il proprio governo di emergenza, quello che noi chiamiamo Governo di Blocco Popolare.
È una questione di classe, di lotta di classe, non di appartenenza politica, sindacale, di gruppetto…