Elezioni Usa cosa NON cambia

Nel momento in cui scriviamo le elezioni negli Stati Uniti non si sono ancora svolte. Saranno certamente un evento importante, uno spartiacque nella guerra per bande nella classe dominante Usa. Ma possiamo dire già ora che non cambieranno la traiettoria fondamentale su cui è da tempo avviato il principale dei paesi imperialisti. Una traiettoria di crisi: politica, sociale, economica e del suo sistema di dominio mondiale.

Sono, anzi, vari infatti i fattori che annunciano un salto di qualità in questo processo.

Il principale fattore in campo politico è l’estrema polarizzazione, con la presenza nel paese di decine di milizie armate, un clima da guerra civile strisciante e la diffusissima percezione che presto si arriverà a un vero e proprio conflitto armato (oltre il 50% degli elettori repubblicani e il 40% di quelli democratici è convinto che nel prossimo decennio ci sarà negli Usa una guerra civile). La campagna elettorale non ha fatto che esacerbare questa situazione, con ben tre attentati falliti nei confronti di Trump. Quale che sia l’esito delle elezioni, è evidente che la discesa su questo piano inclinato non potrà che accelerare.

La crisi politica è poi alimentata dalla crisi sociale, che delinea un paese allo sbando, con centinaia di migliaia di senzatetto e tossicodipendenti, oltre due milioni di carcerati, decine di milioni di poveri, abuso e dipendenza di massa da psicofarmaci, problemi di depressione e obesità per percentuali crescenti della popolazione.

Ma è alimentata anche dall’impetuoso sviluppo della lotta di classe, con un susseguirsi nell’ultimo periodo di grandi mobilitazioni, come quella in solidarietà al popolo palestinese, e di scioperi storici, da ultimo quello dei portuali che hanno incrociato le braccia bloccando tutti i porti della costa orientale del paese e ottenendo alla fine un aumento salariale del 62%.

infine, è alimentata da una situazione economica sempre più insostenibile, con il Pil che continua sì a crescere, ma in virtù di una vertiginosa impennata del debito pubblico che ha superato i 33.000 miliardi di dollari e con la spesa per gli interessi passivi che ha superato quella (esorbitante) militare.

A questo punto basta farsi qualche domanda: quanto debito possono accumulare ancora gli imperialisti Usa prima che il sistema salti? Quanto può aggravarsi la crisi sociale prima che il paese sprofondi nel caos? E quanti attentati falliti (o prima o poi riusciti?), quante insurrezioni come quella di Capitol Hil, quante milizie armate ci possono essere prima che la guerra civile da strisciante divenga aperta?

Come si capisce, è una situazione destinata a esplodere e a portare la crisi a un livello superiore.

Questa situazione di crisi interna si traduce all’esterno nella crisi del sistema di dominio mondiale imposto da imperialisti Usa (che a sua volta alimenta ulteriormente la crisi interna).

Questa, da una parte, si sviluppa attraverso la crescita di un fronte di paesi che più o meno apertamente si oppongono al dominio degli imperialisti Usa, i Brics, e che sempre più vede la partecipazione, a diversi livelli, anche di paesi in teoria alleati degli Stati Uniti, come l’India, gli Emirati Arabi Uniti e la Turchia. Dall’altra, con le crescenti tensioni all’interno della stessa Comunità Internazionale dei gruppi imperialisti Usa, europei e sionisti, alimentate in questa fase in particolare dalla sconfitta verso cui marciano nella guerra per procura contro la Federazione Russa in Ucraina e dagli sviluppi del macello che i sionisti stanno facendo in Medio Oriente con l’invasione del Libano.

Rispetto al primo ambito, il conflitto in Ucraina, le difficoltà degli imperialisti sono sempre più evidenti. La sorte subita dal “Piano per la vittoria” presentato da Zelensky a fine ottobre, ritenuto inapplicabile e velleitario dal cancelliere tedesco, dal nuovo segretario generale della Nato Rutte, dall’amministrazione Usa, e nei fatti cestinato, è abbastanza esplicativo della situazione e delle difficoltà per gli imperialisti a trovare una linea comune, se non per una oramai improbabile vittoria, almeno per tirarsi fuori dal pantano ucraino senza perdere la faccia.

Sul fronte mediorientale le difficoltà dei sionisti sul campo di battaglia – incapacità a piegare la resistenza palestinese e quella di Hezbollah, che ha bloccato l’esercito israeliano nel sud del Libano – si intrecciano con il crescente isolamento di Israele, in particolare in seguito agli attacchi del’Idf contro le postazioni della missione dell’Onu Unifil, che vede impegnate le forze armate di sedici paesi della Ue, tra cui l’Italia. Gli attacchi hanno attirato verso i sionisti le critiche dei principali paesi europei, con Spagna e Francia che hanno richiesto la sospensione dell’invio di armi a Israele come mezzo per fermare il conflitto. La Francia, che ha importanti interessi in Libano (era una sua colonia), dove vivono inoltre migliaia di cittadini francesi, ha inviato addirittura un sottomarino nucleare per monitorare la situazione.

Certo, restano dichiarazioni e manovre dimostrative. Entrambi questi paesi, in realtà, continuano ad armare Israele: la Francia fornendo componenti, la Spagna attraverso le sue banche, come ha rivelato l’inchiesta del Centre Delàs di studi per la pace. Rappresentano però allo stesso tempo il segnale di una crescente crisi del sistema di relazioni internazionali degli imperialisti, destinata per forza di cose a esplodere e a fare un salto di qualità. Anche in questo caso infatti dobbiamo chiederci: quante situazioni come gli attacchi alle truppe della missione Unifil, come il sabotaggio del gasdotto Nord Stream e altre operazioni simili che ledono direttamente e apertamente gli interessi di questo o quel gruppo degli imperialisti europei possono ancora accadere prima che le contraddizioni esplodano?

La situazione fin qui descritta porta verso un unico sbocco: lo sviluppo della guerra, attraverso cui gli imperialisti Usa cercano di fare fronte alla crisi, scaricando i propri problemi sul resto del mondo, e di tenere assieme i pezzi del loro sistema di dominio mondiale, piegando chi si ribella.

L’attacco condotto nella notte del 26 ottobre dai sionisti contro l’Iran con una serie di raid aerei va in questa direzione. Rappresenta una grave escalation del conflitto in Medio Oriente (nonostante gli assurdi tentativi della propaganda di regime di presentarla come il suo opposto) che non sarebbe mai potuta avvenire senza l’avallo e il supporto degli imperialisti Usa. Mentre l’amministrazione Biden cerca di mostrarsi contro l’escalation proclamando di aver imposto a Israele di non prendere di mira siti nucleari o pozzi petroliferi, nei fatti lavora ad allargare il conflitto. A dieci giorni dalle elezioni negli Stati Uniti, è la riprova che questa è la strada verso cui marciano gli imperialisti Usa, a prescindere dai risultati elettorali. E ancora una volta tocca chiederci: quante provocazioni, bombardamenti, massacri potranno esserci prima che la guerra si allarghi ulteriormente?

Ma a questo punto è normale che sorga un’altra domanda: quanto ancora dovremo subire questo disastroso corso delle cose? Questa è evidentemente la domanda più importante e la risposta dipende da noi comunisti, dalla nostra opera, dalla nostra capacità di promuovere la rinascita di un movimento comunista capace di guidare le masse popolari a farla finita con l’imperialismo con la rivoluzione socialista.

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