Il testamento di Yahya Sinwar

Non aspettatevi giustizia, siate giustizia

Pubblichiamo il testamento di Yahya Sinwar, martire della lotta di resistenza del popolo palestinese contro l’occupazione sionista e dirigente dell’organizzazione politica Hamas.

Le parole di Sinwar sono tutt’altro che il comizio di un “fondamentalista islamico”, appellativo con cui i media di regime cercano di denigrare lui e la sua organizzazione Hamas. Sono le parole di un partigiano. L’unione senza condizioni tra le sue scelte di vita e la liberazione del suo popolo, la spinta a unire ogni palestinese in questa lotta, al di là delle organizzazioni politiche di riferimento e le parole d’ordine “non aspettatevi giustizia, siate giustizia” sono un grande contributo e lascito di Sinwar al suo popolo insieme alla sua opera.

Le sue parole sono inoltre un messaggio di riscossa e di lotta per le masse popolari di tutto il mondo. Nel pieno della terza guerra mondiale che avanza e dello sterminio quotidiano che la borghesia conduce in mille forme in ogni singolo paese contro le masse popolari, per le classi oppresse e le loro organizzazioni sociali, popolari, sindacali e politiche è sempre più decisivo e importante mettere al centro quello che le unisce anziché quello che le divide. Serve unità e solidarietà di classe, serve un dibattito franco, aperto e constante sulle giuste idee e iniziative sempre più convinte e radicali ad esse conseguenti. Serve dare uno sbocco politico all’enorme malcontento, rabbia e mobilitazione che cresce in ogni angolo del pianeta.

Per noi comunisti, attivisti, compagni, lavoratori e studenti avanzati che vivono in Italia, tutto questo significa alzare il livello, marciare uniti per rendere il paese ingovernabile al governo Meloni fino a cacciarlo. Significa liberare il paese da occupanti abusivi della Nato, della Ue, del Vaticano, della Confindustria e delle organizzazioni criminali. Significa imporre un governo che sia espressione di questi interessi e si ponga questi obiettivi. Significa non aspettare o limitarsi a chiedere giustizia ma essere giustizia.

***

Il testamento di Yahya Sinwar

Sono Yahya,

il figlio di un rifugiato che ha trasformato l’esilio in una patria temporanea e ha fatto del sogno una battaglia eterna. Mentre scrivo queste parole, ricordo ogni momento della mia vita: dalla mia infanzia nei vicoli, ai lunghi anni di prigionia, a ogni goccia di sangue versata sul suolo di questa terra.

Sono nato nel campo di Khan Yunis nel 1962, in un periodo in cui la Palestina era solo un ricordo lacerato e mappe dimenticate sui tavoli dei politici.

Sono l’uomo che ha intrecciato la sua vita tra fuoco e cenere, e ha capito presto che vivere sotto occupazione significa non avere altro che una prigione permanente.

Sapevo fin da giovane che la vita in questa terra non è come qualsiasi altra, e che chi nasce qui deve portare nel cuore un’arma indistruttibile, e capire che la strada verso la libertà è lunga.

Le mie volontà per voi iniziano qui, da quel bambino che ha lanciato la prima pietra contro l’occupante e che ha imparato che le pietre sono le prime parole con cui possiamo farci sentire da un mondo che osserva silenzioso le nostre ferite.

Ho imparato nelle strade di Gaza che una persona non si misura per gli anni della sua vita, ma per ciò che dà alla sua patria. E così è stata la mia vita: prigioni e battaglie, dolore e speranza. Sono entrato in prigione per la prima volta nel 1988 e sono stato condannato all’ergastolo, ma non conoscevo la via della paura.

In quelle celle oscure, vedevo in ogni muro una finestra verso l’orizzonte lontano e in ogni sbarra una luce che illuminava il cammino verso la libertà. In prigione, ho imparato che la pazienza non è solo una virtù, ma un’arma… un’arma amara, come qualcuno che beve il mare goccia dopo goccia.

Il mio consiglio per voi: non temete le prigioni, poiché sono solo una parte del nostro lungo cammino verso la libertà. La prigione mi ha insegnato che la libertà non è solo un diritto rubato, ma un’idea nata dal dolore e affinata dalla pazienza.

Quando sono stato rilasciato con l’accordo “Wafa al-Ahrar” nel 2011, non sono uscito come ero prima, ne sono uscito più forte e la mia fede è aumentata nel fatto che quello che stiamo facendo non è solo una lotta passeggera, ma piuttosto il nostro destino che portiamo fino all’ultima goccia del nostro sangue.

Il mio consiglio è di rimanere fedeli all’arma, alla dignità che non può essere compromessa e al sogno che non muore mai.

Il nemico vuole che abbandoniamo la resistenza, per trasformare la nostra causa in una negoziazione senza fine. Ma vi dico: non negoziate per quello che vi spetta di diritto. Temono la vostra fermezza più delle vostre armi.

La resistenza non è solo un’arma che portiamo con noi; è piuttosto il nostro amore per la Palestina in ogni respiro che prendiamo, è la nostra volontà di rimanere, nonostante l’assedio e l’aggressione.

Il mio consiglio è di rimanere fedeli al sangue dei martiri, a coloro che sono partiti e ci hanno lasciato questo cammino pieno di spine. Sono loro ad averci aperto il cammino verso la libertà con il loro sangue, quindi non sprecate quei sacrifici nei calcoli dei politici e nei giochi della diplomazia.

Siamo qui per completare ciò che i primi hanno iniziato e non ci devieremo da questo cammino qualunque sia il costo. Gaza è stata e rimarrà la capitale della fermezza, e il cuore della Palestina che non smette mai di battere, anche se la terra diventa troppo stretta per noi.

Quando ho assunto la guida di Hamas a Gaza nel 2017, non è stata solo una transizione di potere, ma piuttosto una continuazione di una resistenza iniziata con le pietre e proseguita con le armi. Ogni giorno sentivo il dolore del mio popolo sotto assedio e sapevo che ogni passo verso la libertà aveva un prezzo.

Ma vi dico: il prezzo della resa è molto più grande. Pertanto, aggrappatevi alla terra come una radice si aggrappa al suolo, poiché nessun vento può sradicare un popolo deciso a vivere.

Nella battaglia Al Aqsa Flood, non ero il leader di un gruppo o movimento, ma piuttosto la voce di ogni palestinese che sogna liberazione. Sono stato guidato dalla mia convinzione che la resistenza non sia solo una scelta, ma un dovere.

Volevo che questa battaglia fosse una nuova pagina nel libro della lotta palestinese, dove le fazioni si unissero e tutti si schierassero in un’unica trincea contro un nemico che non ha mai distinto tra un bambino e un anziano o tra una pietra e un albero.

Al Aqsa Flood è stata una battaglia delle anime prima ancora dei corpi e della volontà prima delle armi. Quello che ho lasciato dietro di me non è un’eredità personale, ma un’eredità collettiva per ogni palestinese che ha sognato libertà, per ogni madre che ha portato sulle spalle il figlio martire, per ogni padre che ha pianto amaramente per sua figlia assassinata da un proiettile traditore.

Le mie ultime volontà sono quelle di ricordare sempre che la resistenza non è vana e non è solo un proiettile sparato; è piuttosto una vita vissuta con onore e dignità.

La prigione e l’assedio mi hanno insegnato che la battaglia è lunga e la strada difficile, ma ho anche imparato che i popoli che rifiutano di arrendersi creano i propri miracoli con le loro mani.

Non aspettatevi che il mondo faccia giustizia per voi; ho vissuto e testimoniato come il mondo rimane muto di fronte al nostro dolore.

Non aspettatevi giustizia; siate giustizia. Portate il sogno della Palestina nei vostri cuori e trasformate ogni ferita in un’arma e ogni lacrima in una fonte di speranza.

Questa è la mia volontà: non abbandonate le vostre armi, non gettate pietre, non dimenticate i vostri martiri e non compromettete un sogno che vi spetta di diritto. Siamo qui per restare, nella nostra terra, nei nostri cuori e nel futuro dei nostri figli.

Vi affido alla Palestina, la terra che ho amato fino alla morte e il sogno che ho portato sulle spalle come una montagna indomita.

Se cado, non cadete con me; portate per me uno stendardo mai caduto e fate del mio sangue un ponte per una generazione più forte nata dalle nostre ceneri. Non dimenticate mai che la patria non è una storia da raccontare ma piuttosto una realtà da vivere; da ogni martire mille combattenti della resistenza nascono dal ventre di questa terra.

Se l’inondazione ritorna e io non sarò tra voi, sappiate che sono stata la prima goccia nelle onde della libertà e ho vissuto per vedervi completare il viaggio.

Siate una spina nella loro gola, un’inondazione senza ritirata, e non calmatevi finché il mondo riconoscerà noi come i legittimi proprietari del diritto; noi non siamo numeri nei bollettini delle notizie.

Che Dio ci guidi e protegga tutti.

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