Tra il 18 e 19 settembre nuovi allagamenti dell’Emilia Romagna hanno causato circa 2000 sfollati e una serie di danni. Ora che l’acqua è defluita gli sfollati restano circa 600, lungo il territorio inondato dal crollo dell’argine del fiume Lamone. Come non bastasse la Protezione civile ha comunicato il rischio di frane ed esondazioni anche in altre zone della regione per l’accumulo di acqua degli ultimi giorni. Ancora in corso sono i lavori di messa in sicurezza degli argini e del territorio.
Molti abitanti avevano appena finito di ristrutturare case e aziende dopo le due alluvioni di un anno e mezzo fa. Per molti di loro si tratta di ripartire da zero per la seconda volta in 18 mesi. I tempi di intervento sono stati più rapidi dello scorso anno grazie alla catena di volontari, solidarietà e autorganizzazione sedimentata nel corso delle precedente emergenza, un esempio su tutti è rappresentato dalle Brigate di Solidarità Attiva (BSA). Grazie ad essa i danni sono stati decisamente contenuti. Grazie ad essa, come emerge anche da alcuni articoli della stampa borghese, “la forza per ripartire non sarebbe la stessa”.
Ma cosa hanno fatto le istituzioni locali e il governo in questi mesi per prevenire queste emergenze? A sentire le parti chiamate in causa non se ne cava un ragno dal buco. Il ministro della Protezione civile Nello Musumeci ha accusato la Regione e gli amministratori locali di non aver fatto abbastanza per evitare nuovi danni dopo le due alluvioni del maggio del 2023. A questa accusa la presidente della Regione Irene Priolo (PD) ha fatto notare che il motivo dei ritardi è l’erogazione dei fondi e all’inadeguatezza della struttura commissariale alla ricostruzione per l’alluvione del 2023 capeggiata dal comandante Figliuolo.
I comuni fanno notare a tutti gli attori in campo che il pesce puzza dalla testa, ovunque la sia annusi. In totale furono segnalati danni per 8,5 miliardi di euro, di cui la metà per ripristinare opere pubbliche come strade, ponti, argini dei fiumi, canali. Finora il governo ha stanziato 3,8 miliardi di cui 2,5 per la messa in sicurezza del territorio e 1,3 miliardi per i rimborsi a famiglie e aziende. Quindi per fare fronte a una parte dei danni dovuti all’emergenza e non agli interventi strutturali altrettanto tanto urgenti e necessari.
Ovviamente se si cercano risposte concrete negli scarichi di responsabilità tra Musumeci, Figliuolo e Priolo (ora commissaria per gestire l’emergenza causata nella regione dall’alluvione dei giorni scorsi) non se ne caverà un ragno dal buco. Non saranno i responsabili del disastro a fornire alcuna soluzione, né una soluzione a questo tipo di emergenze può essere presa fin tanto che il governo del paese e dei territori è in mano a politicanti dei partiti delle larghe intese e tutto il carrozzone di corruzione, speculazione e inefficienza di cui sono portatori.
Così funziona il sistema capitalista. Nel campo della costruzione, manutenzione e gestione delle infrastrutture, delle opere pubbliche e di tanto altro. Ma vale anche per l’inquinamento e per ogni altra attività. Se incassi soldi e fai incassare soldi a chi ti paga, va tutto bene. L’economia funziona, il PIL cresce. Ogni opera per la sicurezza sul lavoro, per la stabilità di case e infrastrutture, per evitare disastri che non è neanche sicuro succederanno, è una spesa certa per il capitalista. Il danno finanziario è certo. Se succede il disastro, vedremo come si ripartiranno i danni finanziari, per le responsabilità penali poi è tutto da vedere.
La grande miriade di piccole opere che servono al territorio è sotto gli occhi di tutti. Ci sono i soldi per farle e ciò sarebbe anche e soprattutto un modo di dare a tutta la popolazione un lavoro utile e dignitoso. La ragione per cui, quindi, siamo in una situazione che passa di catastrofe in catastrofe sempre più grave è tutta politica, cioè dipende dalla volontà di chi governa. Tutto questo implica, per chi già oggi si mobilita per cercare di invertire il corso disastroso delle cose, o per chi ha la volontà e la capacità di farlo, una prima fondamentale presa di coscienza un governo alternativo del territorio e del paese dobbiamo costruirlo noi. Che cosa significa questo? Formare in ogni azienda e in ogni zona del paese comitati, colletti e reti, coordinarli perché convergano in un unico movimento di opposizione e resistenza per la cacciata del governo Meloni.
Le larghe intese fanno acqua da tutte le parti, cacciamole! Serve un governo di emergenza popolare per attuare le misure di salvaguardia dell’ambiente e del territorio, per imporre una politica di prevenzione e manutenzione ordinaria, per mettere in campo tante piccole opere utili e smetterla con le grandi opere inutili e dannose della borghesia!