Giorni fa abbiamo pubblicato l’articolo dal titolo Satnam Singh, in cui abbiamo ricostruito l’omicidio sul lavoro del bracciante indiano in provincia di Latina. Oggi pubblichiamo due lettere che ci sono giunte rispetto a seguito di questa tragedia. La prima è scritta da Michela B. una lavoratrice dell’Inail che si dice attonita dall’accaduto e si chiede cosa lavoratori come lei possono fare per evitare queste morti, la seconda da Lino Parra operaio RFI in pensione e membro del P.CARC che denuncia le politiche criminali del governo Meloni rispetto alla sicurezza sul lavoro e indica nell’organizzazione e riscossa dei lavoratori e dei sindacalisti più combattivi la principale soluzione al problema.
Cogliamo l’occasione per rilanciare la mobilitazione indetta per il 6 luglio a Latina contro il caporalato e le morti sul lavoro. Queste mobilitazioni alimenteranno il processo di sindacalizzazione del bracciantato e questo è un fatto indubbiamente positivo. Questa deve essere la base per costruire la rete degli organismi operai dei braccianti da opporre alla rete criminale gestita dal grande padronato agrario, coi suoi caporali e i suoi appoggi istituzionali.
Diversamente pensare di poter migliorare le condizioni di vita dei braccianti rivolgendo appelli al teatrino delle larghe intese che oggi promette più interventi degli ispettorati del lavoro dopo aver ridotto all’impotenza questi organismi, oramai privi di uomini e mezzi, è gettare fumo negli occhi. Buona lettura!
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Da giorni non riesco a non pensare a SATNAM SINGH, 31 anni lo schiavo indiano, abbandonato a morire con il braccio amputato, buttato in una cassetta della frutta e le gambe spezzate . Satnam Singh era in Italia da tre anni e con la moglie Alisha lavorava in nero per 4-5 euro all’ora. Viveva in una baracca fatiscente e non aveva niente altro che quelle braccia per lavorare, il coraggio e la forza di resistere, l’umiltà che lo faceva restare in silenzio e la paura di finire peggio. È strano ma… ci può essere anche peggio, evidentemente, e pare strano dirlo a noi che siamo qui, già scossi e orripilati da questa storia che ci ha gettato in faccia la tragedia.
Uno stupore doloroso e commosso che dimenticheremo domani, perché ci saranno altre morti sul lavoro (ieri, Pier Paolo Bodini, 18 anni, schiacciato da un componente di una macchina agricola…) o forse semplicemente perché ci stiamo abituando, perché le tragedie accadono agli altri e dopo quel brivido di indignazione e cordoglio, anche sincero, torniamo alle nostre cose, alle nostre beghe quotidiane (che aumentano in questi “tempi dorati”… secondo alcuni) e poi perché noi non ci possiamo fare niente, non possiamo fare altro che questo. L’indignazione.
Ma è proprio vero? Io credo invece che i lavoratori in nero, sfruttati, schiavizzati, molestati ed uccisi NON debbano essere considerati un’emergenza, in Italia ci sono e lo sanno tutti. Sanno dove sono, chi sono e dove vivono.
Sanno chi sono i padroni, chi li sfrutta, chi molesta le donne per un posto di lavoro. Ci sono decine di inchieste giornalistiche. Le Prefetture cosa fanno? Lo Stato cosa fa? E siccome lo stato siamo noi, io non la voglio questa responsabilità disumana ed incivile che nasce prima di tutto dall’egoismo e dalla necessità di difendersi pensando che la vita degli altri non mi riguarda, che mi devo fare i cazzi miei, che già ho i miei problemi…figuriamoci.
Non possiamo salvare il mondo, non avremmo potuto salvare Satnam Singh, – ripeto il nome perché me lo voglio ricordare, almeno un pochino – ma possiamo cercare di cambiare il modo di guardare e di pensare al vicino di casa, al collega di lavoro, al compagno di studi, chiedere “come stai?” e donare 5 minuti di attenzione reale al nostro interlocutore. Tornare ad essere più umani. Che rivoluzione sarebbe!
Satnam Singh lo abbiamo ucciso noi, molto prima che la macchina avvolgiplastica gli spezzasse le gambe e gli tranciasse di netto un braccio. La verità è che mi brucia perché mi sento responsabile anche per il mio egoismo di sopravvivenza, adattato ai ritmi ed al momento. E mi brucia anche di più perché lavoro all’INAIL … e noi, all’INAIL, ci occupiamo anche di prevenzione e spero che ciò avverrà anche di più in futuro.
Le conferenze, gli eventi, i documenti informativi, i bandi per i finanziamenti sono importanti ma cosa fare per arrivare prima e non dopo, per salvare le vite dei lavoratori? Forse conoscere, approfondire, analizzare ancor più nel dettaglio le situazioni delle imprese e dei lavoratori? Supportare in maniera più mirata? Si può fare. Ma SI VUOLE FARE?? Lo Stato Italiano lo vuole fare?? Non siamo “Italiani Brava Gente”, forse non lo siamo mai stati ma se cominciassimo ad alzare gli occhi dalla punta delle nostre scarpe scopriremmo, magari con stupore e piacere, che nell’altro c’è occasione di scambio e crescita ed amicizia, che non siamo gli unici degni di vita dignitosa su questo pianeta malato e che insieme e per mano si va un pochino più avanti. TUTTI.
Satnam Singh, non ci sono parole utili e giuste per l’offesa mortale inflitta a te ed alla tua amata Alisha, mi lasci la responsabilità di guardare oltre il mio comodo egoismo, e la vergogna di ciò che ti è accaduto. Spero di condividerla con molti.
Michela B.
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Servirebbe scrivere, parlare dei continui morti sul lavoro come una cronaca continua come sembrasse un lamento, come una cronologia che non termina? Io credo non serva più, non possiamo continuare a piangere i nostri morti e credo sia arrivato il tempo per affrontare la cosa in maniera diversa da come facciamo, da come ci hanno costretto a fare e da come fino ad oggi, governo, sindacati e padroni hanno fatto. Questi ultimi hanno cercato di farci credere che il loro intervento fatto di falsi piagnistei, sfilate delle solidarietà ci avrebbe convinti che è possibile tornare in una situazione normale, di controllo delle stragi, a suon di frasi di circostanza tipo “non si può continuare a morire così”.
Ma la realtà è ben diversa e non sono certamente io a doverla ricordare a tutti. Cercano di “abituarci” a vivere le continue stragi come un percorso normale, interno alle loro statistiche per portarci alla rassegnazione, al senso di impotenza come i nostri morti fossero un evento naturale, danno di un temporale o una tragica fatalità. Ma non è così! I nostri operai e operaie vengono assassinati sui posti di lavoro, negli ospedali a causa di malattie professionali non curate perché smantellano la sanità e la prevenzione per cause chiare, precise: i padroni devono arricchirsi sempre di più. Se così non fosse, qualcuno sa spiegare a noi tutti perché la griglia di sicurezza nel macchinario che ha assassinato Luana d’Orazio non era operativa? Potrei fare altri esempi ma non credo siano necessari. Necessario è avere chiaro che se si continua a morire è solo responsabilità del governo e dei suoi padroni: i padroni, i capitalisti. E non servono le chiacchiere, le leggi, i tavoli di confronto, gli ispettori, tanto questi devono solo ingrassarsi come i maiali.
Pensate che mentre il governo Meloni fa finta di piangere sui morti, il ministro del lavoro e delle politiche sociali Calderone, in accordo con l’INAIL ha abbassato il risarcimento infortuni da 6000 a 4000 euro e da 22400 a 14500 euro e siccome ad ogni assassinato sul posto di lavoro fanno la corsa a parlare di prevenzione, formazione e altro, ha abbassato le ore di formazione aziendale da 16 a 10 ore annue. Per quanto riguarda le ispezioni nei cantieri ha sostituito il direttore ispezione lavori Bruno Giordano (ex direttore ispettorato nazionale del lavoro 2021/2022) perché in disaccordo con la sua politica e con il rinnovo del “bollino di qualità”, e ha promosso un protocollo di firma tra ispettori e consulenti del lavoro e della sicurezza. In pratica ad alcune “grosse” aziende viene rilasciato il bollino di qualità (un lasciapassare da controlli e ispezioni) rilasciato da consulenti del lavoro e immaginate chi è il presidente dell’ordine dei consulenti del lavoro? Il marito della Calderone!
Ma del resto, i giovani operai (aveva solo 18 anni l’operaio morto nel Lodigiano) delle masse popolari questo devono essere: carne da cannone al fronte oppure carne da macello in un cantiere, in un capannone, in un magazzino o nel reparto di una fabbrica. E per chi si oppone c’è sempre una Palazzina LAF, un obbligo di fedeltà aziendale, un licenziamento o, come nel mio caso, un processo per aver chiesto di indagare su chi aveva assassinato Luana d’Orazio.
Dopo l’assassinio del lavoratore agricolo il responsabile della CISL pur di non apparire “fuori dallo sdegno istituzionale” ha avuto la forza di dire che quel lavoratore abbandonato dal suo sfruttatore senza un braccio in mezzo alla strada è stato assassinato e che non si è trattato di un incidente sul lavoro. Bene, bravo, finalmente ci sei arrivato! Ma io chiedo: ma togliere la saracinesca di un macchinario tessile, togliere il freno di una cabinovia, far lavorare operai con qualifiche diverse da quelle che occorrono come nel cantiere Esselunga, non avere le attrezzature di prevenzione alla Thyssen o le maschere antigas per gli operai di Casteldaccia, sono forse diverse dall’abbandonare un operaio pagato 5 euro all’ora senza un braccio da solo in mezzo alla strada?
Sfruttare attraverso l’alternanza scuola lavoro giovani studenti a costo zero, senza preparazione e poi essere stritolati sotto lastre di acciaio come Lorenzo Parelli ha mica qualche cosa di diverso?
Pochissimo tempo prima del crollo nel cantiere Esselunga di Firenze c’erano stati controlli della commissione che ha riscontrato che tutto era regolare ma solo dopo pochi giorni, subito dopo il crollo, molti operai utilizzati scappavano per non essere controllati: erano metalmeccanici ma lavoravano come edili.
Allora, che fare? Organizzarci e mobilitare i lavoratori, rafforzare l’azione di RLS, RSU e RSA azienda per azienda perché attuino direttamente le misure necessarie, per bloccare la produzione quando e dove ci sono criticità, per richiedere e costringere a controlli l’Ispettorato sul Lavoro e delle ASL e denunciare quando non avvengono.
Per farlo dobbiamo cominciare ad organizzarci e coordinarci subito, fabbrica per fabbrica, reparto per reparto!
Le morti sul lavoro non si ridurranno se ci limitiamo a denunciare i problemi di sicurezza dopo che le stragi, i morti, gli infortuni sono avvenuti. Serve unire le denunce e le segnalazioni di problematiche sui posti di lavoro, i malfunzionamenti al blocco dell’attività lavorativa, qualunque essa sia. Non basta più segnalare macchinari, e linee produttive non idonee. Serve fermare il lavoro e rifiutarsi di svolgere la mansione fino ad imporre la risoluzione del problema e prevenire omicidi e infortuni.
Le morti sul lavoro non si fermeranno se la raccolta firme per la legge di iniziativa popolare sul reato di omicidio sul posto di lavoro portato avanti non solo da USB e il referendum della CGIL non saranno trasformate in organizzazione e mobilitazione dei lavoratori per imporne l’approvazione e l’attuazione. Esistono già oggi leggi, normative e giurisprudenza in materia – come il Testo Unico in materia di salute e sicurezza sul lavoro – D.Lgs. 81/08 – ma non vengono applicate perché non è interesse dei padroni farlo.
Non importa a quale sindacato si è iscritti, se si è delegati oppure no, la nostra sicurezza, la dignità, tornare a casa dopo una giornata di lavoro spetta a noi! E non è importante il pretesto da cui si parte. Anche rifiutarsi di lavorare senza le norme di sicurezza è un buon inizio e spetta ai delegati, agli operai più sensibili e più determinati sostenere tutti quelli che per timore di essere licenziati, per minacce o intimidazioni, non hanno la forza, il coraggio di farlo.
Non c’è un altro modo per rivendicare giustizia per Luana D’Orazio, Pierpaolo Bodini (18 anni) morto schiacciato da un macchinario nelle campagne di Lodi, Satnam Singh e per tutti gli uomini, donne e giovani assassinati per ingrassare i padroni e i loro governi.
Lino Parra ex operaio di RFI e membro del Partito dei CARC