Il marxismo spiega che i processi si sviluppano attraverso accumuli quantitativi che determinano salti qualitativi. Questo vale anche per il processo di aggravamento della tendenza alla guerra (vedi articolo a pag. 5).
Tramite il moltiplicarsi delle provocazioni, delle operazioni di guerra economica e di guerra ibrida e l’estendersi dei conflitti per interposta persona, la Comunità Internazionale degli imperialisti Usa, sionisti e Ue sta portando il mondo nella terza guerra mondiale.
Le scorse settimane sono state particolarmente dense di eventi – non fatterelli, ma avvenimenti di vasta portata – che vanno in questa direzione.
Ucraina
Il 10 maggio l’esercito della Federazione Russa ha aperto un nuovo fronte vicino a Kharkiv, penetrando in territorio ucraino per più di duecento km2 in pochi giorni.
Nel momento in cui scriviamo, l’offensiva russa si sta dispiegando e la Nato sta per accordare all’esercito ucraino l’utilizzo di armi a lunga gittata, appositamente fornite, per attaccare il territorio russo.
In risposta alle sanzioni economiche e alla minaccia di usare le aziende russe sequestrate all’estero per finanziare l’Ucraina, la Federazione Russa ha allargato il fronte delle nazionalizzazioni di aziende occidentali impiantate nel suo territorio. Dal 2022 le richieste di nazionalizzazione pervenute ai tribunali russi sono oltre 40 e riguardano più di 180 aziende private.
A fine aprile Mosca ha preso il controllo degli impianti dell’Ariston e della Bosch, trasferite per decreto sotto il controllo della società statale russa Gazprom Domestic Systems. Il 16 maggio il tribunale di San Pietroburgo ha decretato il sequestro di 463 milioni di euro all’italiana Unicredit e altre somme alla Deutsche Bank e alla Commerzbank, per oltre 700 milioni di euro.
Palestina
Il 7 maggio l’esercito sionista ha compiuto l’ultimo passo dell’invasione totale della Striscia di Gaza, cominciando le operazioni militari nell’area di Rafah. Un’operazione che i sionisti definiscono “limitata” per non provocare troppo imbarazzo a Biden che, su spinta delle mobilitazioni delle masse popolari Usa in solidarietà al popolo palestinese, è stato costretto a esprimere, almeno formalmente, parole di condanna per la loro condotta.
Ma l’“operazione limitata” si è rivelata per quello che realmente è: una strage di civili tramite il bombardamento dell’enorme campo profughi che è diventata Rafah e il tentativo di fuga di oltre 800 mila palestinesi. Della minaccia di Biden di non fornire più armi a Israele se l’esercito fosse entrato a Rafah nessuno ha saputo più nulla.
Intanto si aggravano le contraddizioni sia nello Stato illegittimo di Israele che in seno alla Comunità Internazionale.
Il 18 maggio i ministri sionisti Gallant e Gantz (membri del gabinetto di guerra) hanno accusato Netanyahu di non avere un piano per il futuro e Gantz ha minacciato di dimettersi dal governo. Nelle strade di Tel Aviv e altre città, le continue manifestazioni contro il governo, accusato di non fare niente per la liberazione degli ostaggi, salgono di intensità: i duri scontri e gli arresti sono sempre più frequenti.
Il 21 maggio il procuratore della Corte penale internazionale (Cpi) ha richiesto il mandato d’arresto internazionale per Netanyahu e per il ministro della difesa Gallant, oltre che per i capi di Hamas, per crimini di guerra e contro l’umanità.
Questa decisione ha suscitato le proteste dei sionisti e di Biden, che hanno definito la Cpi “vergognosa”. Ma mettendo sullo stesso piano chi conduce un genocidio e chi dirige la resistenza, la Cpi ha dimostrato, ancora una volta, l’inconsistenza della sua azione.
Il 22 maggio Spagna, Irlanda e Norvegia hanno annunciato di voler riconoscere lo Stato di Palestina e per tutta risposta il governo di Israele ha richiamato gli ambasciatori da questi paesi.
Infine, il 24 maggio, la Corte di Giustizia Internazionale, nell’ambito della procedura per genocidio intentata dal governo del Sud Africa, ha emesso una sentenza che impone a Israele di fermare le operazioni militari a Rafah. Ovviamente finirà come per le altre decine di sentenze, trasgredite e dileggiate, riposte nell’armadio della vergogna che già trabocca dei crimini contro l’umanità perpetrati dai sionisti.
La terza guerra mondiale si allarga
Il 15 maggio un uomo di 71 anni spara al premier slovacco “filorusso” Robert Fico, che viene ferito gravemente.
Fico è una figura scomoda per gli imperialisti Usa e Ue: da quando è stato eletto ha sospeso gli aiuti militari all’Ucraina e si oppone all’ingresso di Kiev nella Nato e alle sanzioni contro la Federazione Russa. L’uomo che gli ha sparato, un sostenitore della Nato attivo nelle manifestazioni di piazza, ha esplicitamente dichiarato di aver agito proprio per motivi politici. Ovviamente non ha agito da solo e questo risulta anche dalle prime confuse e difficoltose indagini.
Il 19 maggio le autorità iraniane comunicano al mondo di aver perso i contatti con l’elicottero sul quale stavano rientrando dall’Azerbaigianil primo ministro Raisi e il ministro degli esteri Hossein Amir-Abdollahian. Il 20 maggio viene individuato il luogo dello schianto e vengono ritrovati i resti carbonizzati. È passato circa un mese dallo scambio di colpi con Israele, per il quale i sionisti avevano promesso vendetta.
Sebbene anche le autorità della Repubblica islamica dell’Iran imputino l’incidente a motivi meteorologici, ben due primi ministri considerati ostili dalla Comunità Internazionale sono stati messi fuori gioco, in circostanze quanto meno sospette, in meno di una settimana. E non è finita qui.
Il 24 maggio il primo ministro georgiano, Irak’li K’obakhidze, ha denunciato di aver ricevuto pesanti minacce dal Commissario europeo Olivér Várhelyi: “Ha visto cos’è accaduto a Fico? Lei dovrebbe stare molto attento”. Parole confermate dallo stesso Várhelyi, che però cerca di giustificarsi dicendo di essere stato frainteso.
Il motivo delle minacce? Il governo georgiano intende approvare una legge contro l’influenza straniera nel paese: media e Ong che ricevono il 20% o più dei loro fondi dall’estero si dovranno registrare in un elenco di “agenti stranieri”. Una legge simile esiste anche negli Usa ed è in discussione la sua approvazione nella Ue, ma rappresenta un’inaccettabile espressione di sovranità nazionale in un paese che gli imperialisti considerano “cosa loro” da quando, nel 2003, vi hanno promosso una rivoluzione colorata (la rivoluzione delle rose) da cui è nato un regime filo atlantista.
Le manovre per impedirla non si limitano alle parole di Várhelyi: da settimane gli imperialisti promuovono la mobilitazione delle masse popolari, criminalizzano il governo di Tblisi sui media, minacciano il paese di sanzioni e ritorsioni se la legge verrà approvata.
Il 20 maggio l’esercito della Repubblica Democratica del Congo dà notizia di aver sventato un tentativo di colpo di Stato organizzato da cittadini statunitensi e canadesi, ex soldati delle forze speciali, e cittadini congolesi, sia residenti nel paese che negli Usa. L’evento fa seguito all’avvicinamento del paese – ricchissimo di risorse, ma tra i più poveri al mondo – alla Repubblica Popolare Cinese e alla Federazione Russa.
Dopo essere stati cacciati da diverse ex colonie nell’Africa subsahariana nei mesi scorsi, ora gli imperialisti francesi devono fronteggiare una rivolta in Nuova Caledonia. La scintilla è stata la discussione sull’approvazione di una legge elettorale che darebbe il voto a migliaia di francesi residenti nell’arcipelago, consegnando di fatto a loro il potere decisionale a scapito della popolazione indigena Kanak, che invece chiede l’indipendenza.
La Nuova Caledonia è uno dei maggiori produttori mondiali di nichel, fondamentale nella produzione di acciaio inossidabile e componente essenziale per i progetti di “transizione ecologica”.
Gli imperialisti francesi non intendono in nessun modo mollare la presa su un territorio tanto prezioso. Gli scontri sono cominciati il 16 maggio, con barricate e blocchi stradali. Il 20 maggio l’Alto Commissario francese della Nuova Caledonia ha annunciato lo stato d’emergenza e che avrebbe ristabilito l’ordine a ogni costo, mentre migliaia di militari venivano fatti affluire dalla Francia.
Il 21 maggio centinaia di turisti sono stati fatti evacuare dal paese, mentre il numero dei morti saliva a sei, tra cui due gendarmi. Ma quanto sia grave la situazione lo si capisce dal fatto che la sera stessa Macron in persona sbarcava nell’arcipelago per cercare di riprendere il controllo della situazione.