Per quanto il modo di produzione capitalista si sia trasformato nel corso della sua storia, il fulcro attorno a cui tutto ruota rimane l’estorsione di plusvalore dal lavoro degli operai da parte dei capitalisti.
È una tesi “fuori moda”, ne siamo consapevoli. Schiere di economisti e analisti affermano che il modo di produzione capitalista “classico” (estorsione di plusvalore dalla produzione di merci) è stato sostituito dalla speculazione finanziaria oppure che la classe operaia ha perso il suo ruolo nel modo di produzione capitalista in ragione del fatto che “le macchine hanno sostituito (stanno sostituendo) gli operai”.
Ci sono anche schiere di sociologi che affermano “la classe operaia non esiste più” perché il numero delle tute blu è diminuito drasticamente nel corso degli anni, senza considerare che la classe operaia non è affatto costituita solo dalla tute blu, ma da tutti coloro dai quali i capitalisti estorcono plusvalore (anche un ricercatore ad Harvard, una commessa del Conad, un infermiere della sanità privata e un facchino della logistica producono plusvalore, cioè – stante i rapporti di produzione capitalisti – appartengono alla classe operaia).
Non entriamo qui nelle argomentazioni tecniche che smontano in modo appropriato queste teorie, ci limitiamo a un esempio concreto. Per impedire ai capitalisti di estendere al massimo possibile l’orario di lavoro di una singola giornata (a volte c’è da combattere anche per andare in bagno durante il turno) e l’età pensionabile (con la scusa che si è allungata l’aspettativa di vita) sono necessarie vere e proprie battaglie. Chi lavora lo sa bene.
Nella società capitalista, questa è una prima conclusione: la centralità della classe operaia non è messa in discussione né dallo sviluppo del capitalismo finanziario né dall’automazione.
È vero però che nel corso degli ultimi cento anni, ma anche solo trenta, gli operai e i lavoratori più in generale sono cambiati. Sono più colti, come risultato delle conquiste di civiltà e benessere strappate con le lotte dei decenni passati; coltivano interessi vari, come risultato delle esigenze di mercato e del consumismo: serve un esercito di consumatori più sofisticati. L’impatto del loro lavoro sulla produttività è maggiore.
Si è raggiunto un livello tale per cui, per questioni legate direttamente alla produzione industriale di beni e servizi, per motivi legati alle esigenze di combinare la produzione industriale con le altre attività umane e per l’esigenza di tenere attiva la produzione a fronte dello smantellamento dell’apparato produttivo, la classe operaia e più in generale i lavoratori sono spinti a porsi questioni complesse che attengono al funzionamento delle aziende e, di conseguenza, al funzionamento del paese.
Portiamo qui solo due esempi di quello che intendiamo.
Per fare fronte alla chiusura dello stabilimento (deciso da un fondo di investimento!), gli operai della ex Gkn hanno elaborato un piano industriale per il rilancio della produzione, hanno iniziato la raccolta fondi per realizzare quel piano, hanno collaborato all’elaborazione di un disegno di legge contro le delocalizzazioni e a una legge regionale per il finanziamento di consorzi industriali sostenibili.
Sempre per fare fronte alla crisi e allo smantellamento, gli operai della IIA di Bologna (ex Menarinibus) si sono posti la questione di un piano nazionale per il trasporto pubblico che combini l’esigenza di sviluppare il trasporto pubblico locale con la funzionalità del servizio e la salvaguardia dell’ambiente, per la difesa dei posti di lavoro e la creazione di nuovi.
Di esempi simili ce ne sono a centinaia, meno conosciuti ma ugualmente coerenti con le esigenze dei tempi.
Non abbiamo alcuna paura di essere smentiti, pertanto, quando affermiamo che i lavoratori organizzati possono fare a meno dei capitalisti, possono gestire le aziende e il paese con risultati migliori, per i loro interessi e per gli interessi di tutte le masse popolari, rispetto ai risultati – disastrosi – della direzione dei capitalisti.
Perché i lavoratori sanno far funzionare le aziende in cui lavorano;
perché i lavoratori possono far funzionare le aziende in modo coerente con le esigenze della società (produrre ciò che serve, nella quantità che serve, senza l’assillo dell’aumento costante della produttività);
perché i lavoratori hanno interesse a far funzionare le aziende in modo compatibile con la salvaguardia dell’ambiente (non vivono alle isole Cayman, vivono nelle zone in cui lavorano);
perché i lavoratori hanno l’interesse a lavorare in sicurezza, non a crepare sotto una pressa o ad ammalarsi per la produttività.
L’unico ostacolo a che i lavoratori organizzati dispieghino il loro ruolo dirigente nella società è la proprietà privata dei mezzi di produzione. Ogni azienda capitalista, benché abbia oggettivamente una funzione pubblica e sociale, oggi viene considerata e gestita alla stregua di una qualunque altra proprietà privata: i capitalisti la usano ESCLUSIVAMENTE a loro vantaggio, per il loro profitto, sia essa una fabbrica, un ospedale, un supermercato, un centro di ricerca, ecc.
Possiamo allargare il ragionamento. Dire che le aziende funzionano meglio se gestite dai lavoratori organizzati anziché dai capitalisti, equivale a dire che la società funziona meglio senza che le pretese dei capitalisti (prima fra tutte quella di trarre profitto da ogni aspetto della vita sociale) la trasformino nel “far west” in cui viviamo.
I capitalisti hanno bisogno dei lavoratori per produrre tutti i beni e i servizi che gestiscono come merci. Senza capitalisti, i beni e i servizi utili sarebbero comunque prodotti, senza però essere ridotti a merce e gestiti per il profitto.
Senza la “collaborazione” dei lavoratori (estorta con il ricatto del salario), i capitalisti non possono produrre niente e la classe dominante non può far funzionare niente della sua società. Anche per produrre armi, per progettarle e trasportarle da una parte all’altra del mondo, ad esempio, i capitalisti hanno bisogno dei lavoratori. La classe dominante ne ha bisogno per far funzionare le sue istituzioni, i suoi uffici, le sue agenzie…
Senza l’oppressione dei capitalisti e della classe dominante, invece, i lavoratori organizzati possono far funzionare tutta la società, lo Stato e il paese in modo coerente con i loro interessi.
Nell’Editoriale parliamo della necessità di un nuovo ordine che spazza via il marasma provocato dalla crisi generale del capitalismo. Diciamo anche che le mobilitazioni di cui già oggi sono protagonisti i lavoratori e le masse popolari pongono spontaneamente la questione della sostituzione del capitalismo con un modo di produzione e una società coerente con i loro interessi. Certo, questo è un discorso generale. Ma vive già in mille esempi. Esempi che, fra l’altro, dimostrano anche che, in ragione del ruolo che la classe operaia svolge nella società capitalista, essa è oggettivamente e “naturalmente” l’avanguardia della lotta di tutte le masse popolari.
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Il 20 maggio “seppur in forma simbolica attraverso le loro rappresentanze, l’abbraccio e l’incontro tra lavoratori e lavoratrici del pubblico e del privato. Con noi le Rsu della Regione Toscana e dell’Arpat, oltre che Fp Cgil, Cobas, Uil Fp e le altre organizzazioni sindacali di categoria.
Abbiamo chiesto alla Regione Toscana di prendere in considerazione uno strumento di politica industriale pubblica. Ci hanno risposto positivamente le Rsu di Arpat e Regione Toscana. Come a ribadire che la Regione Toscana sono prima di tutto i suoi lavoratori e lavoratrici. Che avrebbero potuto nascondersi, legittimamente, dietro al fatto che “non sta a loro”, che “loro” come tutte e tutti noi “hanno già i propri problemi a cui pensare”.
E invece no, le lavoratrici e i lavoratori del settore pubblico prendono in carica la nostra vicenda, in carica Gkn come bene pubblico da preservare, il concetto di territorio come complesso delle persone e delle competenze che lo compongono. Sono classe dirigente dal basso.
Lo fanno per idealità? Sicuramente, anche.
Lo fanno anche perché sanno di farsi un favore, di difendere prima di tutto se stesse e se stessi. La nostra vicenda, quella che intreccia urbanistica, politica industriale, salvaguardia ambientale, chiama pesantemente in causa lo stato della macchina pubblica: uffici sotto personale, competenze non curate e disperse, tagli.
Delle istituzioni che professano impotenza, non hanno bisogno di una macchina pubblica efficiente. E l’efficienza di una macchina pubblica invece la fanno i salari, i diritti, le assunzioni che la sorreggono” – da un Comunicato del Collettivo di Fabbrica della ex Gkn.
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“Le promesse del governo sui centri in Albania, sull’aumento dei rimpatri e sulle cosiddette procedure accelerate per l’esame delle domande d’asilo sono “aria fritta”. A dirlo sono i dipendenti del Ministero dell’Interno, quelli che con le richieste di protezione internazionale hanno a che fare tutti i giorni, perché lavorano nelle Commissioni territoriali che le esaminano, a partire dalle audizioni degli stranieri e fino all’esito finale. “Il lavoro viene svilito e il diritto d’asilo messo a repentaglio, mentre l’accelerazione promessa dal governo non c’è e al contrario la macchina rallenta”, spiega la Funzione Pubblica Cgil annunciando un nuovo sciopero del personale delle Commissioni e Sezioni territoriali e della Commissione nazionale per il riconoscimento della protezione internazionale nella giornata di venerdì 24 maggio.
“Voi accelerate, noi ci fermiamo” – È uno degli slogan pensati per la giornata di protesta. Il riferimento è proprio alle procedure accelerate, quelle destinate anche e soprattutto ai migranti che il governo Meloni intende portare nei centri che gestirà in Albania grazie al protocollo firmato lo scorso anno col governo di Tirana. Centri che dovevano essere pronti a maggio e che, forse, apriranno a novembre” – Da Il Fatto Quotidiano del 21 maggio.
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“Il nostro sindacato (United Auto Workers Local 4811 – UAW), con 48 mila iscritti nel settore della ricerca accademica, ha appena autorizzato uno sciopero contro le pratiche lavorative sleali dell’Università della California nel reprimere le proteste pacifiche, nelle ritorsioni contro i membri che protestavano e nel proibire discorsi pro-Palestina sul posto di lavoro. Ha annunciato ieri i risultati di un referendum in merito: con quasi 20 mila membri votanti, il 79% ha votato a favore dello sciopero.
Dietro a questo risultato c’è il lavoro che abbiamo fatto negli ultimi mesi nei nostri dipartimenti scientifici, come ricercatori che non sono più disposti a sostenere il genocidio con il nostro lavoro.
(…) Solo nel 2021, il Dipartimento della Difesa ha speso 7,4 miliardi di dollari per la ricerca nelle università statunitensi. L’esercito americano mira a diventare un leader mondiale nella scienza e nella tecnologia, in particolare nell’apprendimento automatico e nell’intelligenza artificiale, nell’informatica quantistica, nella robotica e nello sviluppo di armi.
I ricercatori con esperienza in campi all’avanguardia tendono a cercare carriera nelle università e nei laboratori nazionali, dove la ricerca esplorativa è facilitata più che nel settore privato. La manodopera specializzata è anche molto più economica nel mondo accademico e i lavoratori laureati possono essere reclutati in lavori militari dopo la laurea. L’esercito è quindi incentivato a coltivare le competenze e i talenti di cui ha bisogno all’interno delle università” – da “Come i ricercatori della UC hanno iniziato a dire no al lavoro militare” pubblicato il 17 maggio su Labornotes.org