Crisi ambientale. Le risorse in Africa, la cacciata degli imperialisti francesi e ruolo della RPC

Rilanciamo, di seguito, l’intervista di Giulia Bertotto al reporter freelance Daniele Bellocchio pubblicata su L’Antidiplomatico il 13.04.24.

L’intervista è interessante perché mette in luce la necessità per i gruppi imperialisti di sfruttare e saccheggiare sempre di più i paesi e i popoli oppressi dalla Comunità Internazionale dei gruppi imperialisti USA, sionisti ed europei.

Bellocchio, in particolare, analizza la situazione della Repubblica Democratica del Congo, paese noto per le sue enormi riserve di cobalto e coltan, minerali strategici per il mercato energetico internazionale, soprattutto per la produzione di batterie per veicoli elettrici, dei cellulari e di altri dispositivi elettronici.

L’articolo presenta una sintesi chiara ed efficace degli effetti nefasti per le masse popolari della cosiddetta “transizione energetica” (di cui il “Green Deal” europeo è l’esempio più significativo), che rappresenta un enorme affare per i gruppi imperialisti nel tentativo di trasformare la devastazione ambientale che essi stessi hanno generato in un nuovo campo di valorizzazione dei loro capitali (leggasi speculazione) per i prossimi decenni e un enorme sciagura sul piano ambientale, sanitario ed economico tanto per le masse popolari dei paesi oppressi, più direttamente sottoposte a violenza per l’estrazione mineraria, quanto per quelle dei paesi imperialisti, sfruttate con intensità e forme diverse (uso diversivo della questione ambientale, aumento dei prezzi dei veicoli e delle forniture energetiche, ecc.).

Segnaliamo allo stesso modo che l’autore confonde i concetti di “embargo” (inappropriato) e “blocco” relativi a Cuba e manca di contestualizzazione: non si comprende cosa ha in comune un paese socialista frutto della prima ondata mondiale della rivoluzione proletaria come Cuba con uno neocoloniale come Haiti, impoverito a causa della devastazione su più fronti (economico, sociale, ambientale) arrecata dai gruppi imperialisti USA e francesi nel corso dell’ultimo secolo.

L’enorme saccheggio compiuto in Africa rappresenta un’arma a doppio taglio per la borghesia imperialista. Nell’ultimo periodo, infatti, la lotta contro lo sfruttamento neo-coloniale del continente africano, perpetrato soprattutto dagli imperialisti francesi, si sta facendo sempre più intensa. Basti pensare ai recenti colpi di stato verificatisi in vari paesi del Sahel (Mali e soprattutto Niger) o alla crescente ribellione antifrancese nella Repubblica Democratica del Congo, che hanno costretto Marcon ad affrettarsi nel dichiarare la fine della “Françafrique” (l’insieme dei retaggi del colonialismo francese in determinate zone dell’Africa) pur mantenendo i propri contingenti militari e soprattutto gli affari dei propri capitalisti in gran parte delle ex colonie.

Sempre più paesi africani, inoltre, si stanno staccando dalla Comunità Internazionale dei gruppi imperialisti, per legarsi ai cosiddetti BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica, ecc.) e in particolare alla Cina che con la direzione di Xi Jinping sta approfondendo notevolmente le relazioni con l’Africa in termini di scambi economici e formazione politica dei quadri, supportando l’emancipazione di tanti paesi dal giogo dell’imperialismo.

In conclusione, il mondo dei padroni è in fiamme e sempre più i padroni sono costretti a ricorrere alla diversione ( ad esempio cercando di presentare le lotte ambientaliste come staccate dalla lotta di classe e interesse comune tra sfruttati e sfruttatori) per nascondere i crimini e i saccheggi perpetrati ai danni dei popoli oppressi. Solo la mobilitazione e l’organizzazione delle masse popolari, che avanzano in tutto il mondo, possono imporre le misure necessarie a superare la crisi ambientale e a rompere la catena dell’imperialismo.

***

Daniele Bellocchio a l’AD: “Racconto le guerre dimenticate dell’Africa e le miniere di cobalto” (L’AntiDiplomatico, 13.04.2024)

di Giulia Bertotto per l’AntiDiplomatico

Il giornalista freelance Daniele Bellocchio si occupa da più di dieci anni di svolgere reportage dal Congo, nel quale è stato otto volte per documentare gli stupri di guerra, le azioni del gruppo ribelle M23, le infiltrazioni jihadiste e la crisi migratoria. Qualche sera fa è intervenuto nel programma Piazza Pulita su La7, intervistato da Max Andreetta. Bellocchio ha spiegato che la maggior parte dei veicoli elettrici in circolazione è alimentata dal “cobalto, elemento che permette di avere maggiore autonomia di guida, traguardo che vogliono raggiungere tutti i produttori di auto elettriche” e ha proseguito dicendo che il 60% delle riserve mondiali di questo minerale si trova in Congo. Queste miniere sono un inferno buio e angusto: i minatori, spesso anche donne e bambini, con picconi e pale scavano per decine di ore al giorno senza tregua, senza tutele e diritti, pagati massimo 5 dollari al giorno, e non è raro che si possa perdere la vita a causa dei crolli improvvisi. Abbiamo intervistato Daniele Bellocchio per scoprire le cause più profonde di questa catena produttiva dell’orrore.

Bellocchio, lei è sceso con i minatori nelle viscere oscure del cobalto. Ci può descrivere come è stata questa esperienza, sia sul piano professionale che umano?

Era il febbraio del 2022, il percorso burocratico per arrivare alla miniera è lungo e arduo, si devono ottenere una serie di permessi e anche dal punto di vista logistico non è facile; si cammina per ore sulle montagne e si attraversa una fittissima giungla. Sono stato lì sotto circa cinque ore, la claustrofobia è forte. Ma soprattutto quello che provavo era un senso di forte contraddizione interiore: la videocamera con cui riprendevo per denunciare la schiavitù dei minatori-perché di questo si tratta- aveva bisogno dei componenti per cui il popolo congolese si trova in qualche modo costretto a stare lì. Ho avuto la comprensione nitida e assoluta di come tutto il nostro sistema si regga sull’ingiustizia, un’ingiustizia ontologica. Anche se si è una persona coscienziosa che vuole dedicarsi a queste ingiustizie si è comunque parte di quel circuito di angherie e sopraffazione che si vuole far conoscere all’opinione pubblica.

C’è un forte contrasto tra la foresta, umida e lussureggiante, con tutte le sue creature e le sue insidie e i nostri dispositivi tecnologici, luminosi ma in un certo senso sterili, pieni di chip asettici. Sul territorio, chi paga quel dollaro ai minatori?

Il processo estrattivo vede due modalità: una è quella delle miniere industriali, l’altra quella delle miniere artigianali. Le prime si compongono di processi meccanici, maggiori garanzie per i lavoratori e un processo più controllato. Da esse viene il 70% del fabbisogno di cobalto. Il restante 30% deriva da quelle artigianali, che sono i siti di cui stiamo parlando. Si tratta di una percentuale enorme di cui il mercato ha necessità. Dopo che i minatori hanno estratto il cobalto lo danno ai negozianti i quali comprano o a percentuale o ad un prezzo fisso il minerale e poi lo portano ai depositi, centri di stoccaggio dove anche le miniere industriali fanno arrivare il loro cobalto. Questo significa che il cobalto industriale e quello artigianale si mescolano (per poi essere portato in Cina), e noi non possiamo sapere se nel nostro device, in ogni singolo apparecchio tecnologico, c’è cobalto derivato dal lavoro (con i suoi diversi gradi di abuso) o dalla schiavitù. Deve esserci la volontà da parte delle multinazionali di tracciare queste filiere e sceglierne la provenienza. I consumatori devono pretenderlo.

La Repubblica Democratica del Congo è il paese francofono più popoloso del mondo, ospita una delle più grandi foreste equatoriali della terra e la sua economia è basata principalmente sul settore primario, cioè agricoltura ed estrazione mineraria, che cosa altro può dirci di questo paese?

Il Congo è uno degli stati più pericolosi e letali al mondo dopo la Seconda guerra mondiale per via di quello che è stato definito “scandalo geologico”, in quanto è il paese più ricco del mondo di materie prime di cui l’Occidente sviluppato ha bisogno e che la Repubblica ha sempre fornito: schiavi, gomma, coltan per la telefonia, diamanti, e oggi il cobalto1.

Questo saccheggio senza tregua ha il prezzo del sangue della sua gente. Dagli anni ’90 ad oggi si stima che ci siano stati più di sei milioni di morti causati da conflitti ad alta e bassa intensità. Un genocidio vero e proprio. Si tratta di un paese emblematico e di una zona strategica per comprendere il continente africano, naturalmente anche per la sua collocazione fisica centralissima.

Quali religioni si praticano?

La più diffusa è la religione cristiana, e si annoverano cattolici, evangelisti, protestanti, magari sincretizzati con culti e riti di animismo locale e c’è anche una comunità minoritaria musulmana.

Sono almeno due i delitti commessi nella filiera del cobalto. Innanzitutto lo sfruttamento disumano diretto di queste persone e delle loro famiglie e inoltre la catastrofe ambientale. Si aggiunge la truffa ecologica, la beffa green a danno del consumatore della parte fortunata del globo. Lei ha spiegato che il prodotto finito che arriva da noi è sostenibile ma il processo di raccolta e lavorazione che lo conduce al mercato europeo è fatto di sversamenti tossici, inquinamento delle acque, bestiame ammalato. Insomma come sempre anche il green è spesso una questione di disuguaglianze. Non c’è equilibrio ambientale senza giustizia sociale. La domanda è: è green, ma green per chi?

Aggiungo che anche tutta la fase del trasporto del cobalto, caricato su navi cargo, spesso lavorato in Cina, è causa di pesanti danni ambientali. Il processo di lavorazione prevede poi l’utilizzo di combustibili.

Dopo la mia partecipazione a “Piazza Pulita” si è scatenata una polarizzazione tra sostenitori dell’auto elettrica e non, ma il punto non è questo. Abbiamo il dovere di gravare il meno possibile sulla natura e sugli ecosistemi ma dobbiamo farlo senza ipocrisie, e non sulla pelle di chi viene martoriato nelle miniere. Ogni popolo ha la piena facoltà di autodeterminarsi ma ancora oggi nonostante secoli di colonialismo si attribuisce all’Africa ogni suo problema con una sorta di fatalismo, come se avesse un destino segnato e non ci fossero anche responsabilità da parte dell’Europa. I vertici nazionali e soprattutto le multinazionali devono assumersi la responsabilità di queste materie che ottengono a bassissimo costo, ma al prezzo di migliaia di vite umane.

Pare che Chico Mendes abbia detto che “senza lotta di classe l’ambientalismo è semplicemente giardinaggio”.

Credo che questa massima sia davvero efficace. Altrimenti ci si riduce a decorare e abbellire il cortile delle nazioni più ricche mentre si desertifica di opportunità e si riempie di spazzatura il giardino dei vicini. Non è un sistema che può andare ancora avanti lasciandoci indenni. Le migrazioni di massa e il clima di guerra che leggiamo sui giornali e ascoltiamo in radio e tv sono la conseguenza pericolosa e spaventosa di queste dinamiche di sopraffazione.

Non possiamo parlare di sfruttamento coloniale e delle forme raffinate che ha raggiunto oggi questo fenomeno senza dire qualcosa anche sul genocidio in corso a Gaza. Innanzitutto dovrebbe esserci un cessate il fuoco. Per poi capire se la soluzione “due popoli due stati” è ancora percorribile.

Occorre un immediato cessate il fuoco per poi studiare delle soluzioni di convivenza realistiche e oneste per entrambi i popoli. Solitamente non parlo della causa palestinese: in primis perché non è mai stato un tema al quale mi sono dedicato in maniera approfondita, sul piano giornalistico. Mi occupo di altre realtà e di altri luoghi del mondo in cui si consumano pulizie etniche e massacri e credo si debba dare la giusta e dovuta attenzione a tutte le atrocità e guerre, anche a quelle impropriamente definite dimenticate. Ad esempio il conflitto in Nagorno Karabakh, l’intera Africa che è travolta da colpi di stato come in Sudan, Mali, Niger, Burkina Faso o è in mano “governi canaglia” piazzati lì per fare i nostri interessi. A Cuba c’è ancora l’embargo e l’isola rischia di implodere come Haiti per ragioni di ortodossia politica. Il sistema mediatico in un mondo così veloce come questo dovrebbe assumersi la responsabilità di voler indagare maggiormente certe realtà. In un sistema così interconnesso gli esteri non si possono considerare secondari e il reportage e l’approfondimento sono estremamente e quanto mai preziosi, e per questo vanno supportati e promossi.

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