Ogni anno più di 1400 morti sul lavoro. Non sono una fatalità
Organizzarsi dentro le aziende e fuori dalle aziende per
imporre l’approvazione della proposta di legge che istituisce il reato di omicidio sul lavoro promossa da Unione Sindacale di Base, costituire gruppi di lavoratori che si occupano di promuoverla per renderla una campagna di mobilitazione generale;
estendere l’azione dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro e sostituire quei dirigenti della Pubblica Amministrazione responsabili dell’inerzia degli Ispettorati del lavoro con persone competenti e che godono della fiducia dei lavoratori;
estendere e rafforzare l’azione dei Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza, delle Rappresentanze Sindacali Aziendali e delle Rappresentanze Sindacali Unitarie affinché controllino l’operato dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro: non limitarsi a fare le segnalazioni, ma denunciare quando i controlli non avvengono.
Sono tutte misure di buon senso che, una volta costituito, il Governo di Blocco Popolare attuerà sistematicamente, impiegando tutte le risorse necessarie.
La vita dei lavoratori è una questione politica. La vita dei lavoratori conta.
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Organizzarsi per resistere allo smantellamento dall’apparato produttivo
Lo stato d’emergenza devono dichiararlo i lavoratori
Nel mondo dei padroni funziona così: c’è la crisi, la situazione è d’emergenza per i loro profitti, quindi le aziende sono avviate alla morte lenta e chiuse, oppure svendute prima di serrare i battenti.
Proviamo a porla diversamente.
C’è la crisi, servono misure d’emergenza per farvi fronte: servono una legge contro le delocalizzazioni, il divieto per legge di procedere a licenziamenti collettivi, l’elaborazione di un piano industriale adeguato (muovendo università, centri di ricerca, esperti e tecnici), l’esproprio per i padroni che millantano piani industriali che non arrivano.
Se il governo non prende queste misure straordinarie, allora sono gli operai a doverle imporre, creando loro un’altra emergenza, quella di ordine pubblico. Che vuol dire cortei, blocchi, occupazioni, manifestazioni e, in più, tutto quello che la creatività della lotta di classe partorisce. Ma vuol dire anche mobilitare tutto e tutti per mettere, in autonomia, quei pezzi di misure straordinarie necessarie che autorità e istituzioni non possono e vogliono mettere.
Ex Gkn, ex Ilva e indotto, Tim, ex Alitalia, Wartsila, Stellantis… siamo a un punto in cui tutte le questioni particolari e specifiche non hanno più un peso decisivo per il futuro dei lavoratori.
Non conta se l’azienda era pubblica o privata, se era grande, media o piccola, se è nel Nord, nel Centro o nel Sud; non contano le chiacchiere dei politicanti, le promesse dei baroni dei sindacati di regime e neppure le preghiere dei vescovi. Conta solo che per 100, 1.000, 10 mila o 20 mila operai, nel complesso, scatta il licenziamento e la Naspi non basta più a pagare il mutuo. Posti di lavoro persi, pezzi di apparato produttivo smantellati e un paese intero che sprofonda.
Questo mette i lavoratori, e in particolare quelli delle aziende in crisi, tutti sullo stesso identico piano. Tutti hanno gli stessi problemi, gli stessi nemici e le stesse necessità.
Serve che suoni l’ora della riscossa. Lo stato d’emergenza devono dichiararlo i lavoratori, anziché subire quello imposto da padroni e speculatori.
Organizzarsi per imporre un governo di emergenza popolare
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