Il punto sulla situazione politica

Guardare avanti

Sebbene le elezioni europee (e quelle amministrative in molte città) si svolgeranno l’8 e il 9 giugno, i mesi scorsi sono stati caratterizzati da una campagna elettorale costante, che è progressivamente salita di tono. A chiacchiere. O meglio, il Pd e il M5s non hanno perso occasione per polemizzare con il governo Meloni, con i suoi ministri e con i suoi esponenti, ma solo su questioni generali slegate dalla realtà concreta e dalle cose importanti. La Cgil (e la Uil) hanno organizzato un fitto percorso di manifestazioni, ma con nessuna – o per lo meno poca – convinzione di coinvolgere realmente gli iscritti.

Insomma, salgono di tono le chiacchiere e le dichiarazione, ma è solo uno dei tentativi per distogliere l’attenzione pubblica dal corso disastroso verso cui procede il paese. Corso di cui sono responsabili tanto i partiti di governo che quelli di opposizione (che reggono il sacco al governo).

In compenso, i risultati delle elezioni regionali in Sardegna, Abruzzo e Basilicata hanno fornito una fotografia abbastanza realistica dei movimenti dell’elettorato e dell’andazzo nel teatrino della politica borghese.

Quando i partiti che sostengono il governo Meloni si avviluppano nelle beghe interne e si scontrano fra loro, il Pd e il M5s riescono a spuntarla. Come è successo in Sardegna: altissima astensione, ma Alessandra Todde ha vinto, seppure per un pugno di voti.

Quando i partiti che sostengono il governo Meloni riescono temporaneamente a superare lo spirito di concorrenza e a rimandare i regolamenti di conti, sia pure con una altissima astensione il loro candidato vince. Come in Abruzzo e Basilicata.

Senza scendere nel dettaglio del computo dei voti, la tendenza dice che le “opposizioni” al governo Meloni riescono a vincere solo per gli errori degli altri. E che il distacco fra le larghe masse e il sistema politico delle Larghe Intese cresce.

Ma non è tutto. Nelle scorse settimane è successo pure che le armi “non convenzionali” che il Pd usa contro il governo Meloni – inchieste, scandali, plateali manifestazioni di incapacità e malaffare – si sono rivoltate contro lo stesso Pd.

È quanto successo in Puglia: un’iniziativa effettivamente sopra le righe del governo (il commissariamento del Comune di Bari) ha dato la stura a una inchiesta giudiziaria e a una serie di inchieste giornalistiche che hanno scoperchiato “il sistema Pd” nella regione. Dimostrando, laddove ce ne sia bisogno, che quando si tratta di partiti delle Larghe Intese è superfluo “andare per il sottile”: il più pulito ha la rogna.

D’altra parte ai partiti di governo non va meglio. Non tanto per il reale peso delle polemiche mediatiche cavalcate dal Pd e neppure per le inchieste che riguardano alcuni ministri (giusto per chiarezza: Daniela Santanché non si è ancora dimessa e non è affatto detto che lo farà!). Sullo sfondo delle beghe da cortile, delle baruffe fra alleati in concorrenza, dei ricatti e delle “noie” mediatiche, la questione che agita Fdi, Lega e Fi è come far ingoiare alle masse popolari le misure necessarie a mantenere l’Italia al servizio della Nato (guerra, economia di guerra, le ingenti spese per le armi e le missioni all’estero) e della Ue (rispetto del Patto di stabilità, Mes, Pnrr, liberalizzazioni) permettendo allo stesso tempo ai grandi gruppi industriali di fare i loro comodi nello smantellamento dell’apparato produttivo italiano (Stellantis, Acciaierie Italia, Tim, solo per citare alcuni casi).

Il governo Meloni è seduto su un barile di polvere nera. La spirale di guerra, gli effetti della crisi, la complicità con il genocidio in Palestina hanno acceso la miccia. Il Pd, il suo “campo largo” e i suoi cespugli non riescono affatto a garantire che la miccia si spenga. Il materiale infiammabile è molto e cresce. I vertici della Repubblica Pontificia hanno bisogno di pompieri esperti, ma quelli che hanno formato, pagato e addestrato hanno perso ascendente e prestigio agli occhi delle masse popolari.

Ovvio, ci sarà un “dopo elezioni”. Per chi si aspetta rocamboleschi e repentini cambiamenti dopo le elezioni dell’8 e 9 giugno sembrerà che non è cambiato niente. Ma il governo Meloni sarà più debole e malandato. Il Pd e il suo campo largo saranno più deboli e malandati. Le Larghe Intese saranno più deboli e malandate.

Mentre è possibile che in quel contesto il governo Meloni cada “da solo” (sfiduciato da una manovra di palazzo), il sistema delle Larghe Intese non lo farà. Le Larghe Intese campano di alternanza fra un polo e l’altro (destra reazionaria e destra “moderata”) e all’occorrenza si radunano sotto il comando di un “salvatore della Repubblica” (come furono Monti prima e Draghi poi). Per mandarle a gambe all’aria bisogna proprio spingere – anche dall’alto, ma soprattutto dal basso – e imporre un governo che sia espressione delle organizzazioni operaie e popolari, dei movimenti e reti sociali, della sinistra sindacale e dei sindacati di base, delle amministrazioni locali più vicine alle masse popolari.

Quindi, guardiamo a questo mese di campagna elettorale che ci separa dall’8 e 9 giugno come il contesto in cui mobilitarci e irrompere per preparare il terreno per ciò che verrà dopo.

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