Pubblichiamo un documento che è una sintesi di discussioni e interviste che abbiamo fatto con diversi lavoratori dell’Industria Italiana Autobus (IIA), ex BredaMenarinibus di Bologna sulla storia dell’azienda, la sua crisi attuale e le sue radici, l’evoluzione delle relazioni sindacali, la prospettiva che serve imbracciare. Sono parole esemplificative e che offrono numerosi spunti di riflessione su come funziona e come si è evoluto il sistema di potere locale, che ha al suo centro politico il PD e i suoi addentellati nel sindacato. Sono parole che parlano del passaggio del capitalismo dalla fase “dal volto umano” (dal secondo dopoguerra fino alla seconda metà degli anni ’70) alla fase di crisi acuta e terminale determinata dalla crisi per sovraccumulazione assoluta di capitale. Parole che aprono al ragionamento per cui la questione della tutela del lavoro e dell’ambiente in ultima analisi si riduce alla questione del governo che serve al Paese e al territorio di come imporlo.
Ci limitiamo qui a dire che lo smantellamento della IIA, infatti, dipende dal fatto che i governi delle Larghe Intese che si sono alternati negli ultimi quarant’anni, sia nazionali che locali, hanno progressivamente permesso agli sciacalli, e in particolare agli sciacalli della finanza, di fare quello che vogliono con l’apparato produttivo del nostro Paese (pensiamo oggi ai casi della Marelli e della Perla).
Leonardo, il cui ruolo è oggi al centro della crisi IIA, è in verità un’azienda controllata in maggioranza da soggetti privati e, in particolare, da grandi fondi di investimento speculativi inglesi e americani. La guerra è un affare su cui speculare per ricavare quei margini che non sono più garantiti dalla produzione di beni e servizi, autobus in questo caso. Dal 2016 a oggi circa il 63% dei finanziamenti di Intesa San Paolo al settore aerospaziale e della difesa (2,135 miliardi di dollari) sono andati proprio a beneficio di Leonardo. I soldi dunque ci sono ma produrre autobus non garantisce adeguati profitti e i capitalisti sono liberi di chiuderla. Non è, dunque, una questione economica: è una questione di volontà politica.
Non bisogna, quindi, riporre alcuna speranza e aspettativa nei confronti non solo degli Schisano, ma anche del gruppo Seri o dei Gruppioni della SIRA Industrie, nei ministri del governo Meloni o nei politici del PD locale e nazionale, in quanto sono soggetti come questi (“piccoli, grandi e grandissimi delinquenti”, li chiamo i lavoratori) che da anni agiscono di concerto, con un gioco delle parti, verso un unico obiettivo: far fare all’azienda la fine della rana bollita, smantellarla a piccoli passi e speculare su ogni passo (giustamente gli operai denunciano che SERI e simili sono interessate solo ai finanziamenti pubblici in arrivo e non hanno nessuna effettiva intenzione di rilanciare la produzione), anestetizzando e disgregando il corpo dei lavoratori, mettendo in competizione chi lavora al sud con chi lavora al nord, gli operai con gli impiegati. Loro sperano così facendo di arrivare al punto in cui sarà troppo tardi per organizzare una risposta efficace. Sono tutti dei predoni e degli svendipatria, servi del profitto e nemici del bene pubblico.
Dalla storia della IIA e della produzione italiana di autobus viene anche, però, un esempio di organizzazione operaia, da conoscere, da rilanciare. La fusione della ex BredaMenarinibus con lo stabilimento di Flumeri fu, infatti, il frutto della lotta dei lavoratori della Iveco Irisbus per salvare il loro stabilimento. La battaglia per la riapertura dell’Irisbus cominciò nel luglio 2011 quando Marchionne (FIAT) chiuse lo stabilimento dove allora lavoravano quasi 700 lavoratori e si concluse positivamente a riprova del fatto che è possibile salvare le aziende se c’è un gruppo di lavoratori che è determinato a vincere. La Carovana del (n)PCI partecipò direttamente a quella lotta: segnaliamo qui gli articoli Una svolta nella battaglia degli operai dell’IRISBUS e dei loro alleati per la riapertura della fabbrica e Vincere la battaglia per la riapertura dell’Irisbus! per chi voglia approfondire i fatti e gli insegnamenti che ne ricavammo.
La lotta della Irisbus, così come oggi quella della GKN di Campi Bisenzio, offre infatti insegnamenti a chiunque voglia mettersi sulla strada dell’organizzazione e della mobilitazione non solo per salvare posti di lavoro e difendere il Paese dallo smantellamento produttivo, ma anche per passare all’attacco e costruire quella “rete” dal basso che è necessaria per costruire la nuova liberazione nazionale di cui il nostro Paese ha bisogno.
– Non limitarsi a un’azione meramente sindacale, schiacciata sui tavoli di trattativa e sulla fiducia che il sindaco del PD di turno trovi il “cavaliere bianco” disposto a salvare l’azienda. Questa è la via della morte lenta. Anche un piccolo gruppo di lavoratori che prende l’iniziativa in forma autonoma può facilmente spronare il sindacato a rompere con l’andazzo del “profilo basso” che negli anni ha disperso il patrimonio di partecipazione e protagonismo operaio che c’era in azienda.
– Legarsi alle forze sane del territorio: dai lavoratori del Trasporto Pubblico Locale (TPL) in lotta contro lo smantellamento del servizio, alle altre fabbriche minacciate di chiusura, dagli studenti che lottano contro la guerra e gli accordi di Leonardo con l’Università di Bologna, alle decine di comitati ambientalisti (a partire dal Comitato Besta, in questa intervista abbiamo chiesto loro cosa pensano della situazione in IIA e altre simili aziende), intellettuali ed esponenti progressisti della società civile disponibili ad attivarsi su questi temi.
– Fare della lotta per la riapertura della fabbrica una questione politica. “Il trasporto pubblico è un bene pubblico e pubblica deve essere la battaglia”, dicono gli operai nell’intervista. Nello stabilimento vengono costruiti autobus, quindi una produzione la cui utilità nessuno può contestare, tenendo conto dello stato disastroso in cui versa il parco autobus nazionale e della crisi voluta e in atto del TPL. Salvare la IIA significa, quindi, costruire un fronte di lotta per imporre un’Amministrazione comunale che violi i Patti di Stabilità, rompa con la sottomissione alle consorterie di interessi e di potere e imponga le misure necessarie al territorio.
Prendere l’iniziativa! Rafforzare il legame tra la vertenza e il territorio! Fare della vertenza una questione politica e di ordine pubblico!
Buona lettura
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Parliamo della storia della Breda Menarini Bus.
Menarini è stata una gloriosa fabbrica, nata dalla omonima famiglia bolognese, prima come carrozzeria poi come produttrice in toto di autobus urbani e granturismo. Alla fine degli anni ottanta l’azienda venne ceduta dai Menarini alla Breda Costruzioni Ferroviarie di Pistoia. Menarini preferì la Breda alla Fiat temendo, a ragion veduta, che quest’ultima acquisisse il marchio svuotando la Menarini da dentro.
Breda Costruzioni Ferroviarie, del resto, era all’interno di un carrozzone statale, l’Ente partecipazioni e finanziamento industrie manifatturiere (EFIM), che da lì a qualche anno sarebbe stato smantellato, per cui la Breda confluì con Ansaldo [da ’93 parte di Finmeccanica, NdR]. L’EFIM fu smantellato ma le modalità di gestione rimasero da lì in poi quelle delle peggiori aziende parastatali.
Arriviamo così al primo gennaio 2015 e alla nascita di IIA, Industria Italiana Autobus. IIA mise insieme noi e quanto rimaneva di Irisbus in Italia nello stabilimento di Flumeri (lo stabilimento di Flumeri era stato svuotato 7-8 anni prima con l’uscita di Irisbus dall’Italia, dopo il trasferimento di tutte le attività in Francia [per approfondimento vedi qui NdR]).
All’epoca noi eravamo azienda a tutti gli effetti di Finmeccanica, quella che adesso si chiama Leonardo, e venimmo ceduti proprio come ramo d’azienda perché eravamo gli unici che facevano autobus all’interno del gruppo Finmeccanica.
Di che dimensione è oggi l’azienda?
Siamo un’azienda articolata in due stabilimenti, Bologna e Flumeri. Bologna impiega circa 160 lavoratori e Flumeri 4-500, più un indotto fatto di aziende più o meno grandi, partite IVA, che ci vendono le loro prestazioni.
Come Breda Menarini siamo stati una fabbrica che ha dato da lavorare a tanti piccoli artigiani e probabilmente per tanti di loro eravamo anche il cliente più importante: infatti, con le varie crisi attraversate nel corso degli anni, abbiamo, immaginiamo, sterminato diverse decine di queste piccole attività. Con il dominio Finmeccanica, avevamo dirigenti che dicevano che chi lavorava per noi doveva sentirsi onorato e che i pagamenti sarebbero arrivati “prima o poi”. Il problema è che il “poi” metteva in difficoltà tanta povera gente e quindi quel “poi” arrivava magari anche troppo tardi. Ti faccio pressioni per lavorare velocemente, ti chiedo prestazioni al di là di quello che magari potrei chiederti, poi grazie e arrivederci.
Come è cambiata nel tempo l’organizzazione operaia in fabbrica?
Quando siamo entrati in fabbrica l’organizzazione sindacale era molto importante, c’era un Consiglio di Fabbrica figlio di quello che aveva fatto le lotte negli anni precedenti ottenendo i “contratti Menarini”, contratti con avanzamenti importanti, anche rispetto alle altre aziende del bolognese.
Negli anni successivi, con le varie crisi in cui si è ritrovata l’azienda, i discorsi sindacali sono sempre più stati orientati verso la necessità di costruire un polo nazionale del TPL, cavalcando un’idea che andava avanti dall’inizio degli anni ‘90. In realtà, però, passata la crisi del momento anche al sindacato passava l’urgenza di spingere perché si arrivasse a mettere in piedi in Italia una struttura che si occupasse di mobilità pubblica, unendo l’autobus alle metropolitane ai tram al trasporto ferroviario, guidati da un pensiero politico ben preciso di come il Paese si doveva sviluppare da quel punto di vista, compresa l’infrastruttura. Tutti i proclami sono serviti nei fatti solo a riempirsi la bocca: di cose concrete non ce ne sono state. Tranne una.
E più che dal sindacato fu portata avanti da un’esperienza politica in fabbrica. Nacque infatti in fabbrica un circolo del PDS, molto attivo e partecipato anche da una parte dei membri della RSU. Quel circolo portò avanti l’idea di un lavoratore illuminato, che con l’appoggio dei lavoratori aveva costituito un gruppo e preparato un’assemblea pubblica per lanciare un progetto molto importante di mobilità a tutto tondo che integrava i mezzi con le specificità del tessuto urbano così particolare delle città italiane, partendo da un veicolo che all’epoca nessuno aveva, per il quale era stato coinvolto il vecchio direttore tecnico di Menarini. Si trattava di un mezzo con motori elettrici montati direttamente sulle ruote e che poteva in quel momento essere rivoluzionario. E proprio quando gli aspetti tecnico produttivi sembravano risolti tutto si bloccò per il veto del governo bolognese, nella persona di Antonio Laforgia [dal 1991 al 1993 Segretario comunale del Partito Democratico della Sinistra a Bologna, dal 1993 al 1996 nominato Segretario regionale sempre del PDS, Presidente della Regione Emilia-Romagna dal 1996, NdR]. Preferirono sponsorizzare un accordo con la Fiat che scommettere sul sapere dei lavoratori.
Chiusa quella esperienza, andò a perdersi anche la voglia di quel gruppo di lavoratori. Il circolo politico dopo qualche anno si sciolse e rimase la RSU. RSU che ha avuta una stagione di rilancio con i primi tentativi di concertazione con l’azienda sugli obiettivi, che poi è stata stroncata dal sindacato esterno in maniera piuttosto brutale.
Dagli uffici del sindacato, dell’organizzazione?
Sì, nel momento in cui la RSU aveva cominciato a prendere un potere che internamente scavalcava gli uffici esterni (nel senso che andava direttamente a contrattare e si rapportava direttamente con la dirigenza dell’azienda) sono cominciati i malumori con Bruno Papignani [dipendente della Menarini, tesserato FIOM dal ‘74, nel ’77 diventato delegato, per poi ricoprirne il ruolo di Segretario generale prima di Bologna, poi dell’Emilia Romagna, NdR] che non poteva sopportare di essere tagliato fuori da questa situazione. Papignani fu fino alla fine un dipendente Menarini in distacco sindacale. Distacco sindacale che negli anni è diventato totale distacco.
Se le tue ambizioni personali di potere sono così forti, il contatto con i tuoi tesserati lo perdi immediatamente.
Abbiamo avuto anche delle belle esperienze. Per 4 o 5 anni, se non qualcosa di più, il funzionario esterno che ci seguiva direttamente fu Landini, questo a fine anni ’90. L’impressione, quando lo conoscemmo, fu molto positiva. Abbiamo avuto una stagione interessante dove si era cominciato a fare quel tipo di attività che dicevamo prima di concertazione con l’azienda, quindi di uscire dalle dinamiche sindacali normali per entrare in una realtà volta a coinvolgere maggiormente i lavoratori (come tra l’altro scritto anche nella nostra Costituzione). Era al tempo una questione dibattuta.
In Germania era un’esperienza che stava andando avanti e che sembrava dare frutti interessanti e, su quell’onda, in diverse aziende si era cominciato a farlo anche qua, quantomeno nel bolognese. Poi appunto quell’esperienza è stata tagliata drasticamente da quello che è poi diventato il segretario Fiom di Bologna, Papignani, in modo per certi aspetti violento: facendo cadere l’RSU, destituendo le persone e rimettendo su un gruppo di persone molto controllabili, che infatti sono riuscite a traghettarsi alla pensione o a una fuoriuscita favorevole, con l’azienda che ovviamente andava sempre peggio.
Un’azienda come la nostra è passata nelle mani di dirigenti provenienti da Finmeccanica o altre entità non meglio specificate, con un giro continuo che non sai mai quanto staranno lì. Se le cose vanno bene si mettono in tasca i soldi, se le cose vanno male i soldi se li sono già messi in tasca!
Non c’è più quel tipo di relazione che potevi avere in precedenza con quello che era il proprietario dell’azienda, chiamalo padrone, con il quale comunque riuscivi ad andare a patti e con cui i lavoratori hanno vissuto una stagione tutto sommato buona da un punto di vista sia delle relazioni sindacali che della vita di fabbrica.
La RSU adesso è composta da 4 o 5 persone, con una scollatura tra gli operai di produzione e la parte impiegatizia.
Coi “contratti Menarini” gli accordi erano che c’era ogni reparto rappresentato, proprio per poter essere il più vicini e presenti possibile con una quantità di delegati tre volte tanto. Questa cosa è durata ancora un po’ nei primi anni dopo Menarini e poi è stata, a partire dagli anni 2000, sempre più tagliata con le contrattazioni interne, riducendo sempre la quota e portandola strettamente alle condizioni che impone la legge della rappresentanza.
Anche fare il giro delle varie bacheche o comunque di passare e dare comunicazioni come si faceva una volta in mensa per esempio, non viene fatto, o viene fatto molto raramente. Un tempo il neoassunto era accolto dal delegato del sindacato che si presentava. Addirittura, molte volte era l’azienda che te lo presentava, perché la RSU era riconosciuta come figura.
Adesso se pensiamo che il segretario nazionale della CGIL Landini è quello che con la FIOM ha venduto la sanità pubblica a Metasalute…
A nostro parere la salute la deve garantire lo Stato e sentirlo adesso chiamare i pensionati in piazza proprio sulla sanità ecco… francamente, abbiamo conosciuto un Landini diverso e ci dispiace ma non riusciamo a tendergli la mano perché siamo ormai veramente da parti opposte.
Come sono le condizioni della crisi aziendale al momento?
La realtà di Bologna sembra cotta-stracotta. All’ultima conferenza comunale che hanno fatto sullo stato della situazione aziendale, l’Amministratore delegato della IIA [Giancarlo Schisano, NdR] ha detto che Bologna non produrrà più veicoli, che lo stabilimento di produzione rimarrà solo Flumeri. Bologna è uno stabilimento dove verrà fatta ricerca e sviluppo o altre attività, ma non la produzione perché è uno stabilimento vecchio, fatiscente, dove il personale di produzione ormai è ridotto di fatto poche decine di persone, che si vanno assottigliando di mese in mese perché siamo anche uno stabilimento con un’età media ormai da pensione.
La società, in questo momento, è per una di quota Invitalia [40%], per una di quota Leonardo [30%], e per una quota dell’azienda di autobus turca di Karsan [30%].
La quota di Leonardo è in vendita in queste ore. Ci sono trattative con privati.
Sullo stabilimento di Flumeri hanno fatto investimenti e raccontano che è stato riammodernato, sono stati sistemati i capannoni, ci sono linee di montaggio pare efficienti, hanno rimesso in piedi un impianto di cataforesi che permette l’immersione completa di una scocca del veicolo, quindi un impianto piuttosto grande. Sono impianti che vanno giorno e notte tutto l’anno per poterli ammortizzare. A Flumeri l’azienda dichiara che con questi impianti può produrre fino a mille veicoli l’anno.
Però c’è un però. Intanto questi mille veicoli sono come potenzialità di produzione, ma non come sicurezza di commessa. Tu puoi avere una potenzialità di quel genere ma lavori in un mercato che è prettamente di gare pubbliche italiane.
Ci sono fasi, anche recenti, dove le gare pubbliche complessive in Italia si riducono a qualche centinaia di veicoli.
Le aziende del TPL aprono le gare solo quando hanno il denaro per comprare i veicoli. Quindi avere una potenzialità da mille non significa che li fai.
Anni fa, si stimava che un’azienda come la nostra per poter avere un conto economico positivo doveva sviluppare una quantità di veicoli annua pari alla quantità di dipendenti che aveva, quindi se impiegavi 400 persone dovevi fare 400 veicoli. Oggi per poterti ripagare siamo arrivati ormai a due veicoli per dipendente. Quindi se siamo, diciamo, 600, per due fa 1200. Se il tuo potenziale è da mille come fai a stare aperto?
Il settore dell’autobus in particolare è un mercato a scarsissimo margine di guadagno, proprio perché noi non siamo un’industria, siamo un grande artigiano. Non che ogni veicolo che esce è un pezzo unico, ma ci sono lavorazioni che devi fare a mano. Alcune parti vengono costruite in catena di montaggio ma poi alla fine l’allestimento del veicolo è fatto tutto manualmente dagli operatori. Alla fine, se non ci sono intoppi nella produzione, hai un margine che viene stimato tra il 5 e il 7%. Allora basta una settimana di ritardo nella consegna di un componente e il margine te lo sei mangiato tutto. Mercedes, Renault, Iveco, tutti questi altri grandi produttori, non fanno solo autobus e riescono a ottimizzare parti che hanno in comune con il mondo dei camion o automotive in generale. Sono in una condizione diversa.
La IIA assembla parti comprate da altri: in questo momento i motori endotermici sono di FPT Industrial (Iveco), il cambio è di ZF Friedrichshafen AG, l’elettronica di controllo del veicolo è di TEQ. Basta perdere uno di questi componenti e dobbiamo riprogettare l’autobus. Se dovessimo sostituire il controllo elettronico in questo momento stiamo fermi anni.
Parliamo del legame fra aziende e territorio, del fatto che voi potenzialmente potreste produrre degli autobus meno inquinanti in questo momento storico dove c’è questa attenzione (finta da parte delle attuali istituzioni) verso l’ambiente. Come leggere questa contraddizione?
La contraddizione è evidente.
Abbiamo un veicolo elettrico che gira già in qualche città (e siamo quasi completamente dedicati in questo momento alla “elettrificazione” delle altre varie tipologie di veicoli).
È un prodotto concepito in uno stabilimento fatiscente dove l’attenzione per le condizioni di lavoro, di vita e di benessere dei lavoratori è ai minimi storici. Bologna ha un grande stabilimento di cui tre quarti praticamente non utilizzato. Le lavorazioni sono state concentrate in alcuni capannoni e altri sono lasciati in malora o comunque in cattivo stato. Non abbiamo, ad esempio, un pannello fotovoltaico anche se avremmo delle superfici idonee per produrre energia. Abbiamo perdite di acqua in ogni bagno.
Se produciamo in questa maniera, dove sta il beneficio per l’ambiente e il territorio?
Ce lo siamo mangiati con la scarsa attenzione ai lavoratori, con la scarsa attenzione ai fornitori e con delle condizioni oggettive di produzione che sono uno spreco continuo.
Quindi la questione è una dinamica strutturale che rispecchia la volontà politica dei governi di mettere mano a fare gli interessi delle masse popolari.
Leonardo vuole a tutti i costi abbandonare il settore civile e dovrebbe essere un vanto per noi non avere un guerrafondaio come datore di lavoro. Leonardo ha utilizzato in varie circostanze l’autobus come foglia di fico nel momento in cui andava a fare contratti per gli armamenti in giro per il mondo (Lituania, Dubai, Emirati…). Dovrebbe essere un vanto sganciarsi da Leonardo e contemporaneamente è il De profundis per questo Paese.
Non avere una politica nazionale del trasporto pubblico è assurdo. Questo al momento lo si delega alle regioni, che lo delegano alle province, che lo delegano ai comuni dove hai ogni piccola azienda municipalizzata che si inventa il suo veicolo. L’autobus che gira a Bologna, a Modena non può girare perché non riesce a collegarsi con la rete di controllo delle flotte, non gira a Milano, non può girare a Roma perché ognuno ha il suo sistema di verifica, di controllo, di bigliettazione. È una roba assurda a livello produttivo.
Ed è solo la maniera per mantenere delle clientele e delle piccole amicizie molto subdole in ambito locale e oltre. Tutta questa frammentazione non fa altro che mantenere in piedi del malaffare.
Siamo stati all’assemblea aperta sulla Menarini organizzata dal sindacato il 5 febbraio scorso in Salaborsa dove hanno partecipato non soltanto il Comune ma l’assessore regionale Colla e tutti i sindacati schierati. Erano arrivate voci che Leonardo stava trattando con un gruppo che acquisisse la sua quota totale [Gruppo Seri, NdR]. Un gruppo ritenuto non particolarmente affidabile perché già in passato in situazioni del genere si era dimostrato tale, nel senso che era arrivato, aveva comprato e poi aveva dismesso.
Abbiamo sentito proclami del Sindaco Lepore che la destinazione d’uso dell’area sulla quale nasce la Menarini è ad uso industriale e che non verrà mai modificata a garanzia dei lavoratori. Lì è scattato un applauso ma forse era da fare… una pernacchia perché, insomma, il vincolo che c’è nel piano comunale è un vincolo che può essere messo o tolto dalla chiunque. Il governo di Bologna è sempre stato di una certa parte (tranne, forse, la parentesi Guazzaloca) e di cambiamenti di destinazione d’uso nel piano regolatore ne abbiamo visti a centinaia, comprese le villette nate nei parchi.
Poi c’è stata la richiesta di tutti i soggetti, politici, amministratori e sindacati, che debba rimanere comunque una componente pubblica di maggioranza nell’assetto societario come garante.
Siccome l’azienda ha scarsi margini di profitto, ha problemi a stare in piedi, a garantire i fornitori, anche il privato che adesso entrerebbe potrebbe avere queste difficoltà e loro vogliono dare la garanzia che alla fine i soldi… ce li metta il pubblico: noi. Questo è quello che dichiarano i nostri amministratori.
Allora bisogna dire esattamente il contrario, ovvero che il socio privato non ci deve stare e che deve essere tutto pubblico, ma non il pubblico che fa la guerra e che fa le armi, ma un pubblico pulito: che ci deve essere un consorzio con le aziende di trasporto pubblico.
Questi nuovi soggetti che adesso vogliono entrare, vengono perché c’è in arrivo una quantità di finanziamenti per la “transizione ecologica”. È una quantità di denaro che non si è mai vista. Quindi arrivano come avvoltoi questi che si fanno improvvisamente imprenditori illuminati soltanto per mettere le mani su questo denaro, che è un denaro facile, del quale non dovranno rispondere e poi lasceranno l’azienda nei prossimi anni esattamente nella situazione in cui l’hanno trovata, anzi peggio, e diranno: “abbiamo fatto tutto quello che potevamo fare ma, purtroppo, non ci siamo riusciti”.
Dovrebbe, invece, nascere un’Azienda Pubblica che mette insieme il produttore, i destinatari del servizio (che sono i cittadini), le aziende che erogano il servizio.
Questo crea un circolo virtuoso che garantisce tutti i soggetti: condizioni decorose e tempi di lavoro adeguati per i lavoratori, aziende del TPL che danno un servizio ai cittadini invece di fare finta di darlo, veicoli che vengono venduti al giusto prezzo, ricavi che vengono reinvestiti nelle attività. Nessuno si mette in tasca niente di più di quello che è il suo legittimo stipendio e i cittadini non pagano il biglietto del trasporto pubblico, perché se lo sono già pagati con le loro tasse.
È questo che il sindacato dovrebbe chiedere, secondo noi.
Invece si continua ad alimentare piccoli, grandi e grandissimi delinquenti.
Questa dovrebbe essere la battaglia operaia e sindacale, quella di avere un servizio pubblico.
È un bene pubblico? Pubblica deve essere la battaglia.