Come agisce la polizia politica per intimidire i giovani. E come le si rivoltano contro le intimidazioni

“Puoi essere anarchica, ma tienilo per te e non fare attività politica”

Nelle scorse settimane abbiamo intervistato Flavia (nome di fantasia), una studentessa minorenne di una cittadina di provincia del Veneto. Abbiamo deciso con lei di rendere pubblica la sua esperienza perché fa emergere molto chiaramente come le forze della repressione intervengono per dissuadere i giovani dalla lotta di classe, dall’impegno per costruire un futuro diverso per la propria classe e per il proprio paese. Per intimidire i giovani fanno leva non solo sull’inesperienza, ma mettono in mezzo le famiglie e non si si fanno scrupoli a ricorrere a veri e propri abusi di potere, contando sul fatto che rimarranno impunite. Flavia però non è rimasta in silenzio. E la sua denuncia pubblica è importante sia perché permette di vedere praticamente e concretamente alcuni meccanismi della repressione, sia perché – soprattutto – è un messaggio di riscossa a tanti giovani come lei: organizzarsi è possibile, l’organizzazione e la solidarietà di classe spuntano le armi della repressione e indeboliscono il nemico.

***

Vuoi parlaci di come sono iniziate le attenzioni della polizia e perché?

Faccio una premessa. Io sono anarchica e questo non l’ho mai nascosto. Quando Alfredo Cospito ha iniziato lo sciopero della fame contro il 41 bis e ha iniziato a svilupparsi la mobilitazione, ho deciso di attivarmi anche io nel mio contesto di provincia. Volevo mandare un messaggio di solidarietà umana e politica al compagno e vicinanza alla battaglia contro la repressione. Mi sono organizzata quindi per stampare e affiggere dei manifesti abbastanza visibili con le parole “41 bis= tortura – Alfredo libero” e “Stato assassino – solidarietà ad Alfredo Cospito” e ho utilizzato i social network per amplificare le notizie che parlavano di tutto ciò che riguardava le iniziative di solidarietà e lotta sul tema.

Circa due mesi dopo, mio padre è stato convocato in commissariato. Nessun poliziotto ha parlato con me, visto che avevo 16 anni, ma con mio padre. È stato convocato in orario di lavoro e questo gli ha provocato un certo spavento. In commissariato hanno apparecchiato una bella sceneggiata con tanto di fascicoloni pieni di scartoffie sulla scrivania, clima solenne, frasi di circostanza e un atteggiamento di “profonda apprensione” e gli hanno detto che stavo entrando in un’organizzazione terroristica senza averne la consapevolezza. Il che è un insulto nei miei confronti perché sembra che io non sia capace di intendere e di volere alla mia età e quindi anche di esprimere un pensiero politico critico.

Insomma, hanno fatto leva, con tanto di paternalismo, sulla preoccupazione di mio padre.

Hanno proseguito la sceneggiata facendo un riassunto di quello che stavo facendo in quel periodo, cosa che mio padre sapeva già, visto che sono abbastanza limpida con lui nelle mie esternazioni. Sono state riportate delle storie su instagram, di cui una contro il segretario della CGIL che aveva fatto delle affermazioni contro l’aborto, alcune su questioni culturali, in particolare su Gian Maria Volontè, e una su Pinelli, oltre che quelle su Cospito. Insomma, avevano preparato un bel dossier proprio per dare l’idea che io fossi una mezza criminale sotto osservazione.

Hanno poi fatto domande a mio padre su mie questioni personali, perché pare che abbiano fatto delle intercettazioni (a me non è arrivata alcuna notifica di indagine, né è emersa una qualche autorizzazione per queste intercettazioni!) ed erano venuti a conoscenza di questioni che si erano sviluppate con amici e amiche via messaggio.

Sono state fatte tutta una serie di minacce, a partire dallo spauracchio di una perquisizione domiciliare, di interrogarmi, di portarmi in commissariato, di portare “ai piani più alti” il mio caso e che se non avessero trovato nulla in casa (come sarebbe successo, d’altronde) avrebbero creato problemi alla mia futura carriera scolastica – come se avessi la fedina penale sporca per avere espresso il mio parere e come se questo influisse in una qualche misura.

Tutto è stato condotto in maniera ufficiosa perché non ero indagata e anche la convocazione di mio padre in commissariato è stata presentata come una “chiamata di favore”, come se mi avessero fatto un favore per “non farmi finire nei guai”, come se quello che stessi facendo fosse una questione personale e non politica.

Nella settimana successiva alla convocazione in commissariato, mio padre è stato contattato telefonicamente più volte, addirittura è stato rimproverato perché io non avevo ancora rimosso l’uno o l’altro post dai miei profili social.

Poi hanno preteso che io non esprimessi più opinioni politiche sui social, in particolare – guarda caso! – contro la guerra, contro gli Usa e contro le caserme e le basi militari che sono vicino casa mia.

Insomma, volevano fare pressione psicologica. Un effetto tutto ciò l’ha avuto: ho passato malissimo un paio di settimane e vedevo sbirri ovunque. Anche se ero decisa a non abiurare alle mie idee, ero anche piena di paranoie e non sapevo dove sbattere la testa… credo che anche la polizia politica l’abbia capito, motivo per cui hanno insistito con le telefonate….

Sempre tramite mio padre, infine, mi è stato intimato di non dire nulla a nessuno. Richiesta che non ho assolutamente rispettato: ho parlato dell’accaduto con diverse persone perché intuivo che rompere “il segreto” fosse la cosa più giusta da fare.

Hai avuto paura?

In un primo momento sì, come credo sia normale averne. Io non avevo esperienza e non avevo vicino neppure altre compagne e compagni che ne avessero e con cui potessi confrontarmi. Le persone con cui avrei potuto confrontarmi erano lontane e avevo paura di parlare con loro per via delle intercettazioni sia telefoniche sia di altro tipo. Avevo paura di creare loro problemi: d’altronde, se fossi stata davvero intercettata, avrebbero potuto usare discorsi anche travisandoli per intimidire altre compagne e compagni, come stavano facendo con me.

Quindi, diciamo che soprattutto all’inizio il mio parlare con altri di quello che mi stava succedendo era dettato più dalla volontà di trasgredire e di denunciare, insomma di non rimanere in silenzio. Anche perché, ripensando a tutta la vicenda, l’obiettivo della polizia era che io mi censurassi: dicevano che “potevo essere anarchica, ma non dovevo dirlo”.

In un secondo momento ho messo meglio a fuoco i passi per non essere isolata. Ho continuato a informarmi di politica, a fare politica sul territorio, a partecipare a iniziative e successivamente ho cominciato a ripescare le compagne e i compagni da cui mi ero allontanata. Anche per scusarmi, perché non ritenevo corretto da parte mia isolarmi in quel modo…

Che reazioni ci sono state da parte delle altre organizzazioni politiche della tua cittadina?

In generale ci sono state solamente reazioni positive. I primi compagni a cui l’ho confidato non erano anarchici, ma sono persone che fanno attività sociali e nonostante abbiano una visione differente dalla mia, anche dal punto di vista della prassi, ci sono stati rassicurazione e ascolto, non c’è stato un puntare il dito. Ricevere questo tipo di solidarietà mi è servito molto.

Non ho interpellato invece le persone che pensavo mi avrebbero puntato contro il dito, compagni convinti erroneamente che la repressione sia un qualcosa che “ci si cerca”, che per fare politica bisogna “rispettare le regole” e che tendono a criminalizzare compagni e compagne che lottano in maniera differente da loro. Diciamo che sono legalitari.

Ne ho conosciuti alcuni che ce l’avevano anche contro chi sosteneva Cospito perché stava sostenendo le ragioni di un “terrorista”, pertanto se ti reprimono, ti minacciano, ti terrorizzato psicologicamente, è colpa tua e sei tu a doverne pagare la conseguenze. Invece io credo che sia il movimento a dovere fare un’analisi sui metodi di repressione e un ragionamento su come farvi fronte.

Quali conclusioni trai dalla tua esperienza? Quali idee hai maturato che ti hanno portato prima a chiuderti in te stessa e poi invece ad uscire fuori, rimetterti in moto, riorganizzarti?

La cosa principale è stata la consapevolezza che la repressione può colpire tutte e tutti, ma non soltanto quel compagno o quella compagna che usa pratiche più illegali, più forti di quelle tue, più “violente”. D’altronde io avevo affisso dei manifestini, non mi risulta che sia illegale o al massimo avrebbero potuto farmi una multa per affissione abusiva. Avevo già prima questa consapevolezza, ma dopo l’accaduto si è rafforzata.

Guardando adesso la mia “azione”, mi viene da ridere, visto che essa si è esplicata con qualche foglio di dimensione A3 e del nastro adesivo. Volevano l’anarchica con le bombe ed invece avevano l’anarchia con lo spago. Questo non vuol dire che esistono buoni o cattivi, pratiche giuste o pratiche sbagliate: esiste un pensiero, una linea, una causa ed ognuno usa la prassi che ritiene più giusta se questo serve a lottare contro chi ci affama e uccide, contro chi rende il nostro paese un posto invivibile per i giovani allevandoli solo per poter essere carne da macello.

A me, in fin dei conti, la repressione non ha poi fatto tanto male. La repressione vera e propria è altro, è fatta di carcerazioni, è composita del grande apparato violento dello stato.

Io ho imparato che non bisogna mai isolare i compagni e le compagne colpiti dalla repressione anche se sono casi singoli e apparentemente di poco conto, ma bisogna sostenerle e denunciare l’accaduto. E ho imparato che può succedere a tutti, a chiunque si contrappone alla classe dominante. Ho imparato, infine, che non bisogna farsi fermare dalle intimidazioni e dagli spaventi che inevitabilmente l’azione delle forze dell’ordine ti incute. All’inizio mi ero vista il carcere davanti, ero molto intimorita. Poi ho capito che bisogna continuare la lotta ed alzarne il tono perché se fai un passo indietro è come se ti stessi dissociando da quello che hai fatto in precedenza e dissociarsi non è la cosa migliore da fare, se si vuole lottare per un mondo migliore.

Cosa ti senti di dire agli altri giovani che si vogliono attivare, che sono stati già colpiti dalla repressione o che magari non si organizzano perché ne hanno paura?

Punto primo, la classe dominante definisce terroristi tutti coloro che si organizzano e mettono in campo parole d’ordine radicali – e a maggior ragione se mettono in campo anche azioni radicali. Ma, se terrorismo è combattere per un mondo migliore, un plauso ai terroristi!

Punto secondo, bisogna essere consapevoli che la repressione dello Stato borghese può avvenire – e quasi certamente prima o poi ci sarà – se si è coerenti e se si sceglie coscientemente di fare militanza. Non bisogna farsi intimidire. Non bisogna isolarsi o farsi isolare. Nel mio caso non ho fatto nulla di particolare, ho detto che Alfredo Cospito aveva ragione, senza dimenticare tutti i compagni e le compagne che sono nelle carceri del 41 bis.

La sensazione di volersi fermare quando si è colpiti dalla repressione è normale: bisogna rimanere nelle proprie idee, è normalissimo avere paura, ma bisogna trasformarla in qualsiasi modo, bisogna continuare a dare il proprio apporto e continuare a lottare.

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