Pubblichiamo l’intervista fatta a una compagna (che preferisce rimanere anonima) che ha promosso la costruzione di un comitato di inquilini del suo palazzo di un quartiere popolare di Milano per fare fronte alla grave situazione di degrado in cui versano le case popolari e il territorio tutto.
Avevamo trattato la vicenda nell’articolo “Giustizia fai da te? Una riflessione sulla delinquenza e sul degrado dei quartieri popolari” sul numero 10/2023 di Resistenza. Torniamo sull’argomento e lo approfondiamo perché la sua pur piccola esperienza è un’efficace dimostrazione di ciò che spesso ripetiamo su queste pagine: dove c’è chi la promuove, la mobilitazione si sviluppa e toglie il terreno sotto i piedi alla guerra tra poveri.
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Com’è nata l’esigenza di organizzarsi?
La situazione di degrado era diventata insostenibile a causa dell’abbandono totale del nostro quartiere da parte dell’Aler (l’azienda di edilizia pubblica della Lombardia controllata dalla Regione, ndr.) e delle altre istituzioni.
Le case, a causa delle mancate manutenzioni, stanno avendo problemi gravi: piove dai tetti, le tubature perdono, le case ammuffiscono, i muri di diversi appartamenti stanno marcendo. Gli ascensori non funzionavano – in una torre di sedici piani – col risultato che gli inquilini più anziani o disabili si ritrovavano intrappolati nei propri appartamenti. La ditta incaricata del restauro delle facciate è scomparsa, lasciando le impalcature e il cantiere alla mercé di chiunque.
Inoltre, di fianco al nostro palazzo sorge una struttura di accoglienza gestita da una fondazione, che eroga migliaia di pasti al giorno per i senzatetto e ospita decine di richiedenti asilo, tra cui molti minori non accompagnati. Il problema è che la struttura è gestita a scopo di lucro, e gli utenti, tra cui ovviamente molte persone con problemi – e ribadisco, anche minori non accompagnati – sono abbandonati a se stessi, finiscono per dormire nei box, androni, cantine, alimentando una situazione di degrado che ha visto anche episodi di violenza e vandalismo.
Qual è stato il tuo ruolo?
Spinta da questa situazione drammatica tra maggio e giugno ho preparato una lettera che riportava tutte le problematiche, le richieste e anche le proposte per risolverle. L’ho inviata a tutte le istituzioni competenti: Comune, Aler, Prefettura, Municipio e la fondazione che gestisce la casa di accoglienza. La lettera l’ho scritta provando a fare una sintesi di quello che era il pensiero di tutti i condomini, che avevo raccolto parlando con i vicini sotto casa.
Sono stata diversi pomeriggi in portineria per farla leggere a quanti più inquilini possibile, per raccogliere modifiche e proposte e farla firmare. Su questa base è cominciata a svilupparsi una rete tra di noi.
Inoltre, io sono delegata Cgil. Ho quindi scritto anche al sindacato e a vari delegati denunciando la situazione che stavamo vivendo, perché il sindacato assumesse un ruolo rispetto a queste problematiche che riguardano, a diversi gradi, tutti i lavoratori che vivono nelle periferie.
In contemporanea, è nato un altro comitato – diverso dal nostro, formale e riconosciuto da Aler – nel palazzo adiacente, di cui ho incontrato la presidente. Le ho proposto di unirci. Abbiamo poi preso contatti anche con il palazzo di fronte. Alla fine, tutti e due i palazzi hanno fatto una lettera simile alla nostra e assieme abbiamo presentato un esposto alla Prefettura in cui denunciavamo la grave situazione di degrado.
La Prefettura a questo punto ci ha contattato e ha aperto un tavolo con le istituzioni coinvolte.
Che risultati hanno prodotto questi tavoli con le istituzioni?
Abbiamo fatto con loro diversi incontri e sopralluoghi, chiedendo la risoluzione dei problemi più urgenti. Da quel momento gli siamo stati col fiato sul collo, anche perché gli interventi, soprattutto per quanto compete Aler, stentavano a partire. Abbiamo scritto solleciti e, nel corso di nuovi incontri, la Prefettura ha invitato Aler a dare risposte concrete ai temi che riguardano la salute e la sicurezza degli inquilini, a togliere l’impalcatura e sgomberare il cantiere abbandonato.
Sono poi venuti alcuni esponenti politici, della Regione, del Comune e del Municipio a fare dei sopralluoghi. Tramite loro sono usciti alcuni articoli di giornale e interviste per denunciare la situazione. Abbiamo avuto incontri anche con il vice questore e il comandante dei carabinieri.
Tutto questo ha portato qualcosa a muoversi, alcuni primi interventi sono stati fatti.
Che sviluppi ha avuto in questo periodo il vostro comitato?
In questi mesi si è sviluppata sempre più la conoscenza tra gli inquilini e attraverso questa mobilitazione si stanno consolidando dei legami. Penso che questo sia un aspetto molto importante.
Spesso mi sono messa sotto il palazzo, promuovendo piccole riunioni informali. Da lì ho aperto una chat di condominio, che è un importante strumento per confrontarci e organizzarci. Abbiamo poi usato la portineria come bacheca e come luogo per incontrare gli inquilini.
In questo percorso sono emersi alcuni che si sono dati da fare e io ho cercato di valorizzare il ruolo e le peculiarità di ognuno. Abbiamo fatto piccoli interventi di manutenzione, a giro vari inquilini sono venuti agli incontri con le istituzioni e così il lavoro sta diventando più collettivo.
Che il comitato stia crescendo si è visto quando, lo scorso ottobre, la Lega ha cercato di strumentalizzare il nostro disagio, provando a organizzare una fiaccolata “contro il degrado in quartiere”. Sono venuti sotto i nostri palazzi per coinvolgerci nella costruzione della fiaccolata.
Allora sulla chat ho spiegato che la Lega è a capo della Regione Lombardia e quindi di Aler, che la disastrosa gestione delle case popolari è loro responsabilità. In generale ho invitato a riflettere su come nessuno dei partiti politici ha mai risolto i nostri problemi in questi anni: non dovevamo permettere a nessun politico di strumentalizzare la nostra vicenda
Così ci siamo organizzati con lenzuola e bombolette e abbiamo appeso sui balconi degli striscioni con le scritte “gli abitanti non vogliono essere strumentalizzati” e “non strumentalizzate il nostro disagio”. Molti inquilini sono scesi nella piazza per invitare gli esponenti politici ad andare a lavorare per risolvere i nostri problemi.
È finita che della fiaccolata non si è più saputo niente!
In quell’occasione, inoltre, gli inquilini di un altro palazzo vicino hanno deciso di unirsi a questa lotta contro il degrado: hanno fatto una lettera anche loro e l’hanno inviata alle istituzioni.
Che difficoltà hai incontrato in tutto questo lavoro? Come le hai affrontate?
Non è certo un lavoro facile, richiede molto impegno e tempo. A oggi molto del lavoro del comitato ricade ancora su di me, perché ho un certo livello di coscienza grazie all’esperienza politica che ho maturato nella mia vita.
Piano piano, comunque, le cose si sviluppano e anche altri inquilini iniziano a capire meglio quali siano le istituzioni responsabili dei diversi problemi che abbiamo. Ad esempio che l’Aler è gestito dalla Regione che fa capo alla Lega: chi osannava Salvini si è ricreduto. Mi sono accorta di come tanti abbiano chiaro che nessuna parte politica ci ha mai risolto un problema.
Capita poi che ci siano litigi o antipatie, e spesso ho dovuto mediare, a volte anche un po’ imponendomi, ma mettendo sempre davanti l’obiettivo comune e l’unità del gruppo. E così alcuni che prima mi guardavano con sospetto, per personalismi e pregiudizi, sono diventati adesso i miei primi alleati.
La cosa importante che questa esperienza sta insegnando alle persone è che, se non ci muoviamo in prima persona per migliorare la nostra situazione, nessun altro lo farà per noi.
Cosa hai imparato da questa esperienza?
Mi sono pentita di non aver iniziato prima questo lavoro, perché quando mi sono messa a farlo ho visto che è la strada è quella giusta. Serve che chi ha coscienza si metta a intervenire nel proprio territorio, nel proprio palazzo, sul proprio luogo di lavoro, per instaurare rapporti di solidarietà, di stima e di fiducia, facendo comprendere che i problemi sono comuni.
Invece il problema è che chi è cosciente spesso va a fare politica fuori, con il proprio gruppo, ma non interviene dove vive o dove lavora per sensibilizzare chi ha attorno.
Un altro insegnamento è che la rete tra di noi non si è sviluppata solo attorno alla risoluzione dei problemi che abbiamo. Sono state la solidarietà, il fare comunità, il parlare fra di noi la vera benzina di questo processo.
Quali sono i prossimi passi? Che prospettive vedi per il futuro?
Ora stiamo lavorando sull’urgenza e il bisogno, ma sto cercando di trasmettere la consapevolezza che siamo solo all’inizio di una lunga battaglia. La prospettiva è continuare a vigilare sul territorio, risolvere i nostri problemi e iniziare a occupare noi lo spazio del quartiere: fare dei pranzi condivisi, utilizzare la piazza per socialità, fare aggregazione tra di noi e migliorare la qualità della nostra vita.
Serve poi continuare a tessere relazioni, con gli inquilini del palazzo e con il resto del territorio, dalle realtà più “militanti” a quelle più istituzionali.
Ma soprattutto serve che sempre più persone prendano coscienza del fatto che far fronte ai nostri problemi dipende da noi, che nessuno li risolverà al posto nostro. Con le lamentele non si risolve niente.
Penso che acquisire questo concetto sarà il salto di qualità che ci permetterà di trasportare su di un piano più grande la nostra piccola esperienza e riuscire a contaminare il resto del quartiere e della città.