Durante una “spedizione” per la costruzione del Partito in Sardegna, a novembre abbiamo intervistato due attivisti di A Foras – Contra a s’ocupatzione militare de sa Sardigna, un movimento contro le basi e le esercitazioni militari che si svolgono sul territorio sardo, per la completa dismissione dei poligoni, per la bonifica dei territori compromessi dai veleni di guerra e per il risarcimento delle popolazioni.
Il movimento è nato il 2 giugno del 2016 e nel corso del tempo ha svolto una ricca attività. Recentemente ha partecipato alla stesura di un libro, Isole in guerra. Occupazione militare e colonialismo in Sardegna, Sicilia e Corsica scritto a più mani con esponenti di Trinacria (movimento indipendentista siciliano) e Core in Fronte (movimento indipendentista corso). L’intervista è stata raccolta dopo le prime presentazioni del libro che si sono svolte a Cagliari e a Teulada.
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Lo scorso agosto avete organizzato un campeggio per discutere delle problematiche legate alla militarizzazione della Sardegna e delle prospettive di mobilitazione. Partiamo dal bilancio di quella iniziativa.
Anzitutto, è stato partecipatissimo. C’erano in tutto un centinaio di ragazzi e, considerando le difficoltà che abbiamo incontrato negli ultimi periodi nel dare continuità alla mobilitazione, è un risultato ottimo che ci ha dato nuovo slancio e ha rimesso in moto tante persone, soprattutto a Cagliari e Sassari.
È stato anche un momento di raccordo con persone che rappresentano A Foras nel territorio continentale e anche con organismi che operano fuori dalla Sardegna – ad esempio con il movimento contro la base a Coltano – e questo ha permesso di ragionare sullo sviluppo di un coordinamento più stretto.
Dopo il campeggio ci siamo riorganizzati in gruppi di lavoro: il Tavolo comunicazione, che lavora a tutto il mondo dei media e dei social, il Tavolo salute, che si sta occupando di fare il punto della situazione per quanto riguarda gli studi epidemiologici e le analisi ambientali che sono state fatte fino a oggi, il Tavolo economia, ecc.
La pubblicazione del libro Isole in guerra è stata uno stimolo importante perché mostra come le isole del Mediterraneo siano siti strategici per la Nato, per l’esercito italiano e quello francese. Concordiamo con i compagni corsi sul fatto che noi popoli del Mediterraneo dobbiamo essere i primi a riprenderci le nostre terre e il nostro mare dove le scorribande della Nato coinvolgono tutto il Nord Africa e il Medio Oriente… dunque la loro idea è quella di mettersi in contatto con organizzazioni di paesi di quelle zone…
Che radicamento territoriale ha A Foras? E che obiettivi vi ponete?
Una linea guida con cui siamo usciti dal campeggio è proprio quella di instaurare legami con più realtà territoriali possibili con cui possiamo, magari, condividere anche soltanto parti della visione comune. E questo ci apre molte prospettive perché ci sono numerosissimi movimenti: quelli per l’ospedale del tale posto che è stato chiuso oppure i movimenti antimilitaristi o anti-occupazione militare con cui cercare di creare una rete.
Vogliamo che A Foras sia un contenitore per tutte queste realtà e vogliamo costruire dei legami di appoggio reciproco per tutti gli organismi. Ad esempio con la presentazione del libro siamo riusciti a contattare diverse associazioni di Teulada e abbiamo in mente di organizzare un evento in cui faremo dei murales per sensibilizzare il territorio.
Mettere radici in posti del genere, così significativi, non è scontato, soprattutto perché significa chiedere alle persone del luogo di esporsi e prendere posizione. Prendiamo a esempio un paese come Teulada: in seguito all’installazione della base Nato è passato da 6 mila abitanti negli anni Sessanta ai 1.500 abitanti oggi, di cui all’incirca 400 percepiscono il risarcimento per il blocco della pesca da parte della base… Ecco di queste 400 persone forse un centinaio sono realmente pescatori, per cui prendere posizione contro la base in determinati posti vuol dire prima di tutto inimicarsi buona parte della popolazione del paese, dal tuo vicino di casa a tuo zio o a tuo cugino che campa grazie a quegli espedienti.
Ma c’è una cosa molto positiva: nonostante tutto siamo riusciti a “rimettere un piede” in quella situazione e a a creare ancora una volta legami, quindi a riportare di nuovo la discussione sulla presenza delle basi, che poi è la cosa fondamentale.
Parlando di radicamento in termini sociali, anziché territoriali, collaboriamo già con Sardegna-Palestina, con la consapevolezza che sostenere la resistenza di altri popoli contribuisce alla lotta nella nostra terra contro i poligoni, la Nato e l’apparato militarista e guerrafondaio in generale.
A livello embrionale abbiamo in corso la costruzione di un Tavolo di lavoro sulla scuola, con i Cobas Scuola el’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole. Vogliamo attrezzarci per arginare la propaganda militare, che comincia già dalle elementari, e per bloccare i progetti didattici imposti dall’economia di guerra, molti dei quali patrocinati da Israele.
C’è un dibattito in A Foras rispetto alle realtà lavorative, al ricatto salute-lavoro, alla disoccupazione così diffusa nel territorio e alla devastazione ambientale?
Sì certo, anche perché il problema della devastazione ambientale è trasversale, non ci sono solo le basi militari, ma anche le industrie petrolchimiche. La raffineria Saras di Sarroch (CA) esiste ancora, ma ce ne sono parecchie altre che, dopo che i dirigenti hanno preso quello che dovevano prendere, sono state chiuse lasciando rifiuti, scorie e disoccupazione sul territorio. Non c’è nessun tipo di progetto alternativo per intere zone della Sardegna e riteniamo fondamentale alimentare un dibattito su tutto questo, perché delle prospettive in realtà ci sarebbero: l’università e la Regione potrebbero benissimo avviare un percorso di specializzazione per le bonifiche, creando posti di lavoro in un campo che sarà fondamentale in tutto il pianeta…
Cerchiamo quindi di lavorare molto sulla controinformazione, ad esempio rigettare la tesi che le basi militari portano lavoro e benessere: i dati dimostrano tutt’altro, dicono che le zone dove sorgono le basi sono quelle con il più alto tasso di disoccupazione e bassissima scolarizzazione.
Ovviamente su questi tipi di ricerca e di inchiesta c’è chi ha tutto l’interesse a insabbiare i dati o a falsarli perché è evidente che le promesse non sono state mantenute.
Questo vale anche in campo sanitario: a Teulada, ad esempio, non c’è neppure un ambulatorio medico!
Come siete visti dagli abitanti delle frazioni dove svolgete le iniziative di controinformazione?
Spesso la prima reazione degli abitanti è quella tipica di chi si trova di fronte gente che “arriva da fuori, fa lo spiegone, rimane lì un giorno e poi sparisce”, mentre invece loro rimangono lì, perché ci vivono.
Quindi cerchiamo di dare continuità alla controinformazione in modo da iniziare ad aggregare persone del posto e far nascere un nodo locale del movimento. Ovviamente solo se da parte delle popolazioni c’è un interesse e una spinta a organizzarsi è possibile fare passi significativi sul piano organizzativo: devono essere loro a creare qualcosa di realmente strutturato e che sia una rivitalizzazione dal punto di vista sociale, un luogo d’incontro dove si possa discutere e vivere. Ad esempio in paesi come Villaputzu o Teulada, dai diciotto ai trentacinque anni non c’è quasi più nessuno. Chi finisce le superiori, ammesso che le finisca, va a lavorare fuori, si arruola o va all’università e quindi nella migliore delle ipotesi va a Cagliari o altrove. Avere un motivo per poter stare lì e fare qualcosa di positivo per la comunità, secondo me è la migliore leva per creare un modello che sia in antitesi con l’occupazione militare del territorio. Credo non sia un caso se proprio a Teulada, nel dibattito dopo la presentazione del libro Isole in guerra, una delle domande fatte dagli abitanti è stata: “cosa farete una volta chiuse le basi?”. Credo che la domanda rispecchi un po’ la mentalità di quella persona che è stata colonizzata per secoli per cui si aspetta sempre che ci sia qualcun altro che arrivi a darle una soluzione…
Invece bisogna rompere il meccanismo della delega e spingere alla partecipazione. Abbiamo quindi risposto che noi possiamo andare a proporre la migliore delle soluzioni, che però è la nostra; devono essere loro a organizzarsi, incontrarsi e decidere quale potrebbe essere il domani migliore per Teulada, cosa vogliono fare con la loro terra quando sarà liberata.
A fronte di una forte propaganda guerrafondaia, in ambito militare ci sono persone che in realtà sono lì per lo stipendio e per mancanza di alternative. C’è un ragionamento rispetto a parole d’ordine da utilizzare per fare leva su questa contraddizione? Avete mai pensato, per esempio, di sviluppare una campagna contro l’arruolamento, per non accettare il ricatto della disoccupazione?
A Foras non è antimilitarista, A Foras è contro l’occupazione militare del territorio sardo e per la chiusura dei poligoni.
Ci sono tanti antimilitaristi all’interno di A Foras, ma soprattutto nell’ultimo periodo si sta cercando di affrontare questa discussione. Ad esempio io, personalmente, conosco moltissime persone convinte che il militare è la prima vittima del sistema. Ho molti amici militari, molti sono ragazzi cresciuti in situazioni disagiate. Uno di questi ha due fratelli, uno agli arresti domiciliari e l’altro che faceva lavoretti, lui è entrato nell’esercito. E per fortuna l’ha fatto perché questo gli ha salvato la vita.
Ovviamente queste persone vengono arruolate sotto un ricatto morale simile a quello a cui sono sottoposti i minatori o i dipendenti della Saras. Per cui – parlo a titolo personale, non per A Foras – il mio sogno è di avere un giorno anche dei militari all’interno di A Foras. So che non è possibile principalmente per i vincoli che hanno, probabilmente nella migliore delle ipotesi li caccerebbero e nella peggiore passerebbero per un processo interno. Ma molti di loro sono parte del problema e vittime del problema.
Sono pienamente convinto che ci siano tante persone di valore che nel momento in cui si portano avanti determinate tematiche possono essere d’accordo. Per quanto l’esercito sembri un monolite, come tutte le grandi organizzazioni, all’interno ha diverse correnti con aspirazioni diverse anche su come dovrebbe essere l’esercito.
Sul tema “salute” i militari potrebbero essere una sponda importantissima, ad esempio. Sono convinto che un militare, anche d’accordo con lo svolgimento delle esercitazioni, vuole lavorare in sicurezza e vorrebbe tornare a casa senza avere un paio di tumori in più che prima non aveva.
Sono idee sulle quali stiamo ragionando. Già a Cagliari siamo legati all’associazione dei parenti delle vittime per tumori delle basi militari.
Ovviamente, poi, in un movimento come A Foras ci sono moltissimi antimilitaristi che vedono il militare come qualcosa che non dovrebbe esistere nella società, ci sono tantissime persone che invece sono convinte che la lotta di liberazione, quindi militari che lottino per la loro terra come in Palestina, siano sacrosanti.
Cerchiamo di creare un punto di vista comune tra questi estremi.
Considerando la situazione generale, lo sviluppo della tendenza alla guerra, il corso imposto dagli imperialisti Usa e dalla Nato, la politica di rapina e saccheggio del governo Meloni e dei suoi tentacoli a livello locale, che tipo di valutazione fate del lavoro che portate avanti?
Beh, il nostro ruolo, in questo momento, è fondamentale. Proprio per il corso che la Nato e gli Usa stanno imponendo al mondo. La situazione di “costante emergenza” viene utilizzata come pretesto per imporre ogni cosa a danno delle popolazioni. Anche le esercitazioni militari, che erano state bocciate, sono riprese per “motivi inderogabili”, passando sopra a qualsiasi valutazione di rischio. Poi se si va a vedere quali sono questi “motivi inderogabili” si scopre chespesso sono accordi con aziende private che usano i poligoni e le esercitazioni per pubblicizzare i loro prodotti, carburanti oppure nuovi tipi di armamenti.
Per questo dico che il ruolo di A Foras ora è importante come non è mai stato in precedenza. E credo che proprio la situazione generale così negativa favorisca le condizioni per allargare le relazioni, costruirne di nuove, connettersi con la popolazione e dare vita a una mobilitazione ampia.
Volete parlarci delle prossime iniziative in programma?
Sicuramente, lavoriamo a una grande manifestazione per il prossimo 2 giugno, una data che per il movimento contro l’occupazione militare ha una specifica importanza.
Anche attraverso le presentazioni pubbliche del libro, vogliamo puntare all’attivazione dei nodi territoriali per alimentare quella spinta all’autodeterminazione di cui si parlava prima: riportare la popolazione a riappropriarsi dei territori, immaginarsi che un domani ci possa essere un qualcosa di loro e non più di qualcuno che vuole imporre Eurodisney oppure la fabbrica che promette posti di lavoro per devastare il territorio.
Vorremmo riproporre anche il campeggio, il prossimo agosto, con un contenuto più orientato alla formazione e alla conoscenza storica del movimento di lotta contro le basi.
A Foras esiste ufficialmente dal 2016, ma il movimento contro le basi esiste dagli anni Settanta, vogliamo riuscire a legare quello che sa un militante di ottant’anni e quello che sa un ragazzo che si avvicina oggi e che comunque vuole portare avanti quelle lotte, dobbiamo mettere a confronto le esperienze: cosa è stato fatto? Cosa è da scartare? Che strade non sono state prese? Con questo bilancio possiamo vedere meglio dove dobbiamo andare e cosa vogliamo fare. In questo modo si crea anche un momento di identità, le persone iniziano a riconoscersi in qualcosa e ognuno può avere un compito e un ruolo.