Dal 6 al 10 novembre due compagni del P.CARC hanno partecipato alla Delegazione italiana a Minsk, in Bielorussia, organizzata del Comitato di amicizia Italia-Bielorussia, insieme ad altre organizzazioni e organi di stampa quali Patria Socialista, Marx XXI e un corrispondente di Ottolina TV.
La visita è stata occasione per incontrare il Primo Segretario del Partito comunista della Bielorussia (Kpb), Alexey Sokol, i dirigenti comunisti della Federazione di Minsk e per vedere da vicino l’attività ordinaria del Partito nella capitale, grazie alla visita in una delle sue sedi.
La Delegazione ha incontrato anche Mikhail Orda, Segretario Generale della Federazione dei sindacati della Bielorussia (Fpb) e Petro Symonenko, Primo Segretario del Partito comunista dell’Ucraina, ora in esilio a Minsk.
Oltre agli incontri politici, l’ospitalità e la disponibilità dei compagni del Kpb ci hanno permesso di conoscere alcuni aspetti della realtà produttiva e sociale del paese. Uno degli obiettivi della nostra visita, infatti, era fare esperienza diretta di quanto ancora sopravvive nei primi paesi socialisti del lascito della prima ondata della rivoluzione proletaria mondiale. La visita ha offerto numerosi spunti in questo senso (per ragioni di spazio ne riportiamo solo alcuni) e ha confermato che non è possibile capire la realtà politica di un paese che ha avuto uno sviluppo sociale superiore usando le stesse categorie che si utilizzano per conoscere un paese imperialista (cioè inferiore) come il nostro.
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La Bielorussia è un paese grande come circa due terzi dell’Italia, ma con soli 9,5 milioni di abitanti. È il paese che, più di altri della ex Urss, ha mantenuto istituzioni e conquiste del socialismo dopo il tentativo di restaurazione forzata del capitalismo iniziato nel 1991.
In Bielorussia esistono piani quinquennali che definiscono la “produzione strategica per la sicurezza del paese” in campo agricolo, industriale e rispetto alla conseguente necessità di formazione di tecnici. Il governo, cioè, organizza la produzione definendo la quantità minima di beni e servizi necessari ai fini del fabbisogno interno del paese e ai fini degli accordi di cooperazione internazionali. In questo modo garantisce un lavoro a quasi tutta la popolazione attiva.
Questo è il funzionamento delle grandi imprese statali, essenziali per l’economia del paese.
Emerge che la categoria di “azienda pubblica”, che in Italia utilizziamo, per esempio, per l’Eni, le Poste o la Leonardo, non descrive la stessa cosa, in quanto da noi le “aziende pubbliche” sono tali perché, in vari gradi, la direzione è di nomina governativa e il capitale di derivazione statale, ma sono fatte funzionare perché (e se e nella misura in cui) creano campi di investimento al capitale finanziario e speculativo (in quanto il governo è espressione di gruppi finanziari e speculativi); differentemente vengono mandate in rovina e/o spezzettate e privatizzate.
La Fpb conta circa 4,5 milioni di iscritti, cioè circa la metà della popolazione e grossa parte della popolazione attiva. Il sindacato è presente in tutte le grandi aziende, è organizzato in collettivi di reparto e aziendali e partecipa con delegati nei consigli di amministrazione.
Lo scopo della Fpb è la stipula e il monitoraggio sull’applicazione della contrattazione di primo e secondo livello. Tali contratti prevedono, ad esempio, tre anni di maternità, scala mobile, garanzie contro la chiusura delle aziende, agibilità del sindacato in azienda in materia, tra l’altro, di promozione di attività di formazione tecnica e culturale, sportive, medico-preventive e ricreative.
Ogni tre mesi il sindacato organizza un incontro con l’azienda per assicurare il monitoraggio sull’applicazione del contratto e, quando ci sono violazioni, fa intervenire lo Stato.
In cambio di questo sistema, la Fpb si impegna a non promuovere scioperi e a educare i lavoratori a contribuire, a tutti i livelli, a uno sviluppo ordinato ed efficiente della produzione.
La Fpb ha anche un ruolo politico. In occasione delle elezioni presidenziali del 2020 (inquinate da un tentativo di colpo di Stato ordito dagli Usa), ha mobilitato oltre 9 mila lavoratori come osservatori in quasi tutti i seggi elettorali.
Allo svilupparsi di proteste nelle aziende, organizzate da piccoli sindacati “indipendenti” (cioè finanziati dall’estero), la Fpb ha rivolto ai lavoratori l’appello a non scioperare e a isolare i responsabili dei disordini, alcuni dei quali nei mesi e negli anni successivi sono stati finanche arrestati, assumendo così un ruolo centrale nella difesa del paese e attirando su di sé gli strali di “democratici”, trotzkisti e cattedratici “dell’equidistanza” di casa nostra (la rivista Jacobin Italia definì la Fpb un “sindacato giallo”).
Una tale concezione dell’attività sindacale in Italia la definiremmo, giustamente, “concertativa” perché la collaborazione nella gestione delle aziende si traduce inevitabilmente “nell’educare” i lavoratori a contribuire allo smantellamento dell’apparato produttivo di cui sono responsabili il governo e le istituzioni borghesi.
Anche in questo caso, dunque, si vede come non si possa capire la realtà di un paese dell’ex Urss attraverso le categorie che usiamo per un paese imperialista come il nostro.
Anche da questi pochi esempi emergono gli spunti per una riflessione più generale: per noi comunisti italiani è importante conoscere l’esperienza della Bielorussa – ma più in generale dei paesi dell’ex Urss – non per assumerli acriticamente come modello di riferimento, ma per ricavare insegnamenti utili alla lotta che conduciamo per fare la rivoluzione in un paese imperialista come l’Italia, per approfondire l’analisi della situazione internazionale e per stabilire rapporti e relazioni di scambio e solidarietà con i partiti comunisti di questi paesi. La situazione ci impone di continuare in futuro a sviluppare l’analisi e la riflessione in questo ambito e, con esse, il dibattito franco e aperto con i compagni del Kpb e nell’ambito del movimento comunista internazionale.