La Portovesme Srl di Portoscuso è una fabbrica di circa 1.200 operai dove vengono lavorati piombo, zinco e quote di oro, rame e argento. È una delle tante aziende considerate strategiche, ma in via di smantellamento, come tutto l’apparato produttivo italiano.
La proprietà – la Glencore International – lamenta costi energetici eccessivi e per questo ha già chiuso lo stabilimento di S. Gavino e messo in cassa integrazione cinquecento operai.
Per inquadrare la questione va ricordato che la Glencore è fra le maggiori multinazionali al mondo del settore, con un fatturato di oltre 145 milioni di dollari (supera persino un colosso come la Nestlè). Oltre a ciò è conosciuta per le inchieste che la riguardano: in vari paesi del mondo (dal Perù al Ciad al Congo, dalla Colombia all’Italia, in particolare in Sardegna) Amnesty International e altre Ong la mettono all’indice per i danni ambientali, per le ricadute sulla salute dei lavoratori e delle popolazioni, per la violazione dei diritti umani, oltre che per evasione fiscale.
Laddove viene posto un limite al saccheggio e alla devastazione del territorio, cioè al profitto, la Glencore delocalizza!
Le motivazioni con cui l’azienda giustifica la riduzione di reparti e il taglio dei posti di lavoro in Sardegna sono un paravento.
Dietro i lamenti per il costo dell’energia, la Glencore gioca una partita sull’avvio di un impianto sperimentale per il riciclo delle batterie al litio provenienti da varie parti del mondo. L’avvio di questo impianto aggrava la devastazione ambientale del Sulcis, per via delle ingenti quantità di rifiuti tossici derivanti dal processo “idrometallurgico” di trattamento delle batterie. Secondo i tecnici ambientali, in stato di allerta, le zone interessate si trasformerebbero in una vera e propria discarica di rifiuti pericolosi, codificati come tali dalle leggi vigenti.
Una “montagna di merda tossica” che finirà in mare e sottoterra, in buona parte nella discarica iglesiente di Genna Luas.
Di fronte a questa prospettiva, il governo Meloni è immobile. Sia rispetto alle speculazioni sul costo dell’energia (che ci sono e pesano sulle famiglie, non certo sulle multinazionali) sia rispetto all’annunciata devastazione ambientale.
Le istituzioni locali hanno invece alzato la voce, complici le prossime elezioni regionali. La Regione traccheggia nell’autorizzare il progetto e anche il sindaco Ignazio Atzori, già vicesindaco e assessore della Difesa dell’Ambiente, afferma che il Comune di Portoscuso è un’area dichiarata a elevato rischio di crisi ambientale già dalla fine degli anni Ottanta e non è tollerabile una produzione del genere. In una lettera aperta ha finanche denunciato le pressioni ricevute della Glencore e dalla Confindustria Sardegna Meridionale per accelerare le pratiche per le autorizzazioni.
Per i lavoratori di Portoscuso sono dunque mesi di preoccupazione.
Dall’inchiesta che abbiamo fatto durante i volantinaggi ai cancelli della fabbrica, tuttavia, il fuoco cova sotto la cenere.
C’è preoccupazione, ma non rassegnazione. L’idea diffusa è che la Glencore non può chiudere da un giorno all’altro lasciando per strada gli operai. Mobilitazioni e proteste più o meno timide ci sono già state: picchetti e dimostrazioni promosse soprattutto dai delegati Fiom delle ditte esterne, che hanno partecipato anche alla manifestazione nazionale della Cgil del 7 ottobre a Roma. Ma è chiaro che questo non basta per fermare i piani della multinazionale svizzera, sostenuta dallo stuolo di servi che operano per suo conto in Italia.
Bisogna che le organizzazioni sindacali, le organizzazioni politiche e quelle ambientaliste del territorio solidarizzino con la vertenza dei lavoratori della Portovesme Srl. Che promuovano ovunque assemblee, iniziative e manifestazioni unitarie per difendere i posti di lavoro, per imporre i lavori utili e dignitosi che servono davvero al Sulcis, per prendere in mano il governo del territorio!