Il mondo in cui viviamo è uno schifo. Non si tratta di una nostra valutazione pessimistica, la grande maggioranza della popolazione del nostro paese arriva alla stessa conclusione, pur partendo, magari, da punti di vista e condizioni materiali diverse.
Anche coloro che, direttamente o indirettamente, ancora beneficiano in qualche modo delle conquiste ottenute con le lotte politiche, sindacali e sociali condotte dal dopoguerra fino alla metà degli anni Settanta arrivano alla stessa conclusione. Forse non fanno ancora i salti mortali per far quadrare i conti a fine mese, ma vivono pure loro gli effetti della crisi ambientale e della devastazione dei territori, del degrado che dilaga, dello smantellamento della sanità (quelli che prima erano diritti adesso sono merci da pagare), della crescente insicurezza prodotta dalla tendenza alla guerra e dalla militarizzazione della società.
Il mondo in cui viviamo, come il paese in cui viviamo, non è afflitto dal destino a cui l’umanità è condannata per via di qualche disegno divino: è sconvolto dagli effetti della crisi generale del capitalismo. È un fenomeno che attiene al modo di produzione, cioè a come vengono prodotti e distribuiti i beni e servizi necessari all’esistenza umana.
Il mondo in cui viviamo, come il paese in cui viviamo, è il frutto dello sviluppo del capitalismo che è entrato, da circa quarant’anni, nella sua fase di crisi generale, acuta e terminale.
La società cambierà ancora, com’è cambiata nel corso della storia, ma ciò che è davvero inedito è che il salto evolutivo da compiere, a differenza di tutti i salti evolutivi compiuti fino a oggi, va pensato prima di essere fatto. Non è un salto “nel buio”, ma il frutto di una precisa volontà, una scelta cosciente.
La crisi generale del capitalismo e i suoi effetti disastrosi – e irrisolvibili entro i confini della società capitalista – spingono milioni di persone a porsi la questione dell’alternativa. Nonostante la martellante propaganda di regime e le mille manovre per confondere le masse, milioni di persone oggi sono spinte a pensare a cose di cui finora si erano disinteressate: verso quale direzione bisogna andare? Come fare il salto? In cosa consiste questo salto?
Pensare a queste cose nuove usando criteri, categorie e metodi “vecchi” non porta lontano; serve a poco o nulla.
Certo, usare criteri, categorie e metodi vecchi non costa fatica: siamo tutti abituati a farlo, è normale, automatico. Ma è un ostacolo. Un esempio?
Per chi ha vissuto parte consistente della sua attività lavorativa da dipendente privato (dipendente di un’azienda capitalista) fra gli anni Ottanta e Novanta è “quasi scontato” essere plasmato dalla retorica del dipendente pubblico fannullone, che va in pensione presto e senza reali meriti.
Con questa retorica la classe dominante ha prosperato: ha fatto diventare i dipendenti pubblici un “nemico pubblico” e poi li ha spolpati (vedi il rinnovo dei contratti nel pubblico impiego), mentre distruggeva i servizi pubblici, li lanciava nel calderone delle privatizzazioni, li rendeva merce da cui trarre profitto o da eliminare.
Quel modo di pensare – un discorso analogo vale per i bottegai, i piccoli commercianti, gli artigiani, le Partite Iva, ecc. – tipico dell’operaio di fabbrica degli anni Novanta, oggi è d’ostacolo alla comprensione della realtà e all’azione pratica per trasformarla.
Il dipendente pubblico, i piccoli commercianti, le Partite Iva, ecc. non sono nemici e concorrenti della classe operaia, ma suoi alleati. Non solo. A differenza della classe operaia non hanno particolari tradizioni di organizzazione e lotta, non hanno “disciplina di classe” e non sono abituati a ragionare in termini collettivi: necessitano della mobilitazione della classe operaia, hanno bisogno che gli operai organizzati si mettano alla loro testa, o comunque li sostengano, per dare gambe alle loro rivendicazioni. Esattamente come la classe operaia e come tutti gli altri lavoratori, anche loro hanno l’esigenza di contribuire a compiere il salto evolutivo che serve per uscire dal corso disastroso delle cose.
Pensare male, cioè pensare con vecchi criteri, vecchie categorie e i metodi dell’epoca del capitalismo dal volto umano (l’epoca delle conquiste salariali e dei diritti), è il lascito nefasto di coloro che hanno portato il vecchio movimento comunista dai picchi della vittoriosa Resistenza sul nazifascismo alla debolezza attuale. È l’eredità dei revisionisti moderni che poi la sinistra borghese ha coltivato e propagato dopo la loro scomparsa.
I risultati li abbiamo sotto gli occhi in termini di disfattismo, rassegnazione, incapacità di vedere e valorizzare le tendenze positive, paura del presente e del futuro, che dilagano anche fra chi ha la bandiera rossa e la falce e il martello nel cuore.
Cambiare il mondo, cambiare il paese, fare la rivoluzione socialista è un fatto di cuore, certo, ma è soprattutto un fatto di testa. Imparare a vedere la realtà e il nesso fra i vari fenomeni, vedere gli sviluppi potenziali, vedere le condizioni, le forme e i risultati della lotta di classe è una lotta contro il senso comune corrente.
Sfatiamo alcune tesi che derivano da questo senso comune.
Pensare male suggerisce che nel nostro paese non si muove niente in termini di lotta di classe. Eppure non è vero. Basta aprire le finestre e uscire nelle strade. Quante mobilitazioni, anche molto diverse fra loro, ci sono? Quanti cortei? Quante aziende sono in stato di agitazione? Quanti scioperi di settore o di categoria? Quanti presidi e picchetti? La mobilitazione c’è!
Non è ancora abbastanza? È frammentata? Vero! Non è ancora in grado di rendere il paese ingovernabile ai capitalisti, ai banchieri, al governo Meloni e ai suoi prefetti, quindi bisogna pensare a come alimentarla, a quanto lievito mettere e come metterlo affinché “l’impasto” cresca fino a bloccare gli ingranaggi.
La mobilitazione non si sviluppa oltre un certo limite perché non c’è unità sugli obiettivi e sulle forme di lotta, perché ognuno di quelli che la promuovono non si coordina sufficientemente con gli altri. E questo accade perché, in genere, la mobilitazione è orientata dal buon senso comune, si basa su ciò che chi la promuove sa già fare e “ha sotto mano”.
Pensare male ostacola la costruzione della necessaria unità sugli obiettivi comuni. Oggi l’unità manca perché pesano più del dovuto (più di quanto il disastroso corso delle cose consentirebbe) le divisioni su questioni secondarie e manca un confronto aperto e vero sull’obiettivo comune da perseguire, sulla soluzione politica che serve.
Tutti quelli che vogliono affrontare seriamente la situazione devono unirsi sullo stesso obiettivo. Le divisioni che esistono – che rimangono e rimarranno – possono e devono essere trattate alla luce del bilancio dell’esperienza pratica.
L’ostacolo che abbiamo di fronte non sono il dibattito, la discussione e la polemica, ma la mancanza di dibattito, di discussione e di polemica sugli obiettivi, sulle vie da seguire, sulle linee e sui metodi.
Pensare male alimenta l’illusione che per farla finita con il mondo che fa schifo siano sufficienti le proteste e le manifestazioni. Prendiamo la necessità di mobilitarsi in modo ampio e capillare per cacciare il governo Meloni. Protestare e manifestare è necessario, ma è fondamentale che attraverso le mobilitazioni si formi una rete di organismi operai e popolari che si pone l’obiettivo di costituire e imporre un governo alternativo, un governo di emergenza delle masse popolari organizzate. Cappottare il governo Meloni senza imporre un tale governo sarebbe una soluzione a metà.
Quindi? Rendere ingovernabile il paese con le mobilitazioni e porre continui problemi di ordine pubblico, ma principalmente curare che ogni mobilitazione sia strumento per rafforzare gli organismi operai e popolari esistenti, farne nascere di nuovi, favorire il coordinamento di tutti. Questa è la via per costruire la nuova classe dirigente del paese.
Ogni mese, con Resistenza, facciamo lo sforzo di portare alla discussione obiettivi, linee e metodi adeguati ai compiti che stanno di fronte a chi vuole porre rimedio al corso disastroso delle cose.
“Dite sempre le stesse cose”, ci rimproverano alcuni. E questo è in effetti un problema.
Significa che non siamo ancora pienamente capaci di tradurre nel concreto la lotta per imporre un governo di emergenza delle masse popolari organizzate, non siamo capaci di farne materia viva.
Tuttavia, un problema più grave sta nel fatto che siamo gli unici a dire queste cose.
Significa che non siamo ancora riusciti a far diventare il Governo di Blocco Popolare un obiettivo cosciente per gli organismi operai e popolari, per il movimento sindacale, per quanti si oppongono alle Larghe Intese e per i partiti e le organizzazioni del movimento comunista cosciente e organizzato del nostro paese.
Se cadessimo noi per primi nella tentazione di seguire il senso comune corrente, dovremmo smettere di ripetere che la strada positiva per fare fronte alla situazione sta nella lotta per imporre il Governo di Blocco Popolare. Ma non smettiamo perché sappiamo che le condizioni oggettive portano in quella direzione. Perché imparare a pensare meglio riguarda anche noi e comprende il fatto di affrontare i nostri limiti e lavorare per superarli. Comporta cioè di trasformarsi in modo da diventare adeguati agli obiettivi che ci poniamo.
Dedichiamo questo numero di Resistenza alla sperimentazione più cosciente di cosa significa propagandare l’obiettivo del Governo di Blocco Popolare in un contesto di grandi sommovimenti: quello delle mobilitazioni contro la sottomissione dell’Italia alla Nato, e contro il coinvolgimento diretto nella guerra in Ucraina contro la Federazione Russa; delle manifestazioni contro il governo Meloni, che timidamente la Cgil si è decisa a promuovere; dello sciopero generale dei sindacati di base del 20 ottobre; delle mobilitazioni degli studenti e della miriade di proteste che gli organismi operai e popolari promuovono a livello locale contro gli effetti della crisi.
Di fronte a tanti sommovimenti – altro che “non si muove niente”! – la sfida è contrastare le tendenze arretrate (l’elettoralismo, dato che è già iniziata la campagna elettorale per le europee e alcune elezioni amministrative), lo spirito di concorrenza e il legalitarismo, promuovendo invece il massimo sviluppo delle tendenze avanzate. Quelle che portano, nella pratica, gli organismi operai e popolari a operare come nuove autorità pubbliche.
Diamo così il nostro contributo a pensare meglio per fare meglio quello che gli organismi operai e popolari già fanno e per spingerli a fare cose nuove, come mobilitarsi e lottare coscientemente per imporre un loro governo di emergenza.