Il 27 Settembre 1943 iniziavano le “Quattro giornate di Napoli”. Un episodio, unico nella storia italiana, che è stato tramandato di generazione in generazione antifascista e purtuttavia mai abbastanza noto in termini di insegnamenti e di bilancio. Lo ripercorriamo qui, narrando sinteticamente le vicende di quei giorni in una piccola grande storia, emblema delle Quattro giornate, quella di Gennarino Capuozzo, ragazzo da allora simbolo dei giorni in cui, in cui, dal 27 al 30 settembre 1943, durante la Seconda Guerra Mondiale e gli avvenimenti che funestavano il nostro Paese, i Napoletani, le masse popolari della città, insorsero contro i tedeschi, da soli, senza “aiuto” degli Alleati che, al contrario, all’8 settembre dello stesso anno e per molti giorni successivi la città bombardavano a tappeto, per fare pressione sul Re d’Italia e su Badoglio affinché rendessero pubblico l’armistizio e il cambio di fronte del nostro Paese nello schieramento di guerra. Napoletani che insorsero contro una guerra non loro, stanchi di pagarne il prezzo e un’occupazione spietata, inaccettabile. E vinsero, liberando, così, la loro città. Prima grande città europea a riuscirvi. Esempio per altri. Vinsero da soli, senza esercito che non fosse quello popolare. Da soli, combattendo per le strade non soltanto con armi, trovate con espedienti, ma anche con mobili, materassi, vasche da bagno che venivano gettati dai balconi e dalle finestre per sbarrare la strada alle truppe tedesche. Da soli, uomini, donne, bambini, studenti, negozianti, tassisti. Forza di massa.
“Adesso vi facciamo vedere noi chi sono i napoletani!”
“Quattro giornate” valsero alla città il conferimento della medaglia d’oro al valore militare. Una medaglia assegnata a tutti i protagonisti e alle loro storie. E tra le storie c’è quella di un piccolo eroe divenuto il simbolo dell’insurrezione: Gennaro Capuozzo. Per tutti, Gennarino, manco a dirlo. Che si unì, appena dodicenne, a quell’esercito popolare che dimostrò che resistere significava contrattaccare, contrattaccare vincere. Gennarino, le cui azioni, determinate e spavalde, non solo rinforzarono quell’esercito, ma infiammarono anche il cuore di tanti napoletani, gente comune, convincendoli a reagire e a ribellarsi in massa all’oppressione dei soldati nazisti, anche quelli che avevano preferito restare chiusi nelle case. Uno scugnizzo come tanti ragazzini di Napoli che la fame e la guerra avevano reso sfrontato e ribelle, così come lo sono ancora oggi tanti ragazzini di Napoli che, sin da bambini, devono confrontarsi con la realtà spesso non semplice della città. Un bel ragazzino, con i capelli nero pece e gli occhi vivaci. Nato nel 1932 in una casa umida e buia dei vicoli del centro storico, imparò presto a vivere più per strada che nei pochi metri quadrati che divideva con i genitori e i 3 fratelli. Sua madre si chiamava Concetta e dopo di lui aveva infatti messo al mondo altri 3 figli. Quando suo padre, nel 1941, partì per combattere in una guerra che mai fu delle masse popolari se non come carne da cannone, si trovò improvvisamente a fare il capofamiglia.
Gennarino era poco più di un bambino, ma allora tra i vicoli di Napoli si cresceva in fretta: ogni mattina usciva di casa di buon’ora e andava a lavorare in una bottega come apprendista commesso: “Mammà, nun te preoccupà. Ormai so’ grande, so’ je che ve faccio campà”, diceva in lingua napoletana con l’aria da uomo vissuto a sua madre. Guadagnava pochi centesimi, ma bisognava accontentarsi: quelli erano giorni terribili per Napoli. La città da giorni subiva i bombardamenti delle truppe angloamericane. Le vittime furono moltissime: oltre 20.000 morti sotto i bombardamenti degli angloamericani!
Quando, l’8 settembre, fu improvvisamente firmato l’armistizio da parte del maresciallo Pietro Badoglio, le forze armate italiane si trovarono allo sbando, a causa di mancanza di ordini precisi dei comandanti militari. L’armistizio gettò nella confusione più totale anche Napoli: i tedeschi, che prima erano alleati, divennero nemici della popolazione e il 12 settembre i nazisti occuparono la città e dichiararono lo stato d’assedio e la Legge marziale. Per vendicarsi dell’armistizio, che consideravano un tradimento italiano, i tedeschi misero in atto ritorsioni pesantissime, come lo sgombero forzato di tutte le abitazioni sulla costa fino a 300 m dal mare e l’ordine di deportazione nei campi di lavoro tedeschi di tutti i maschi fra i 18 e 33 anni.
A quel punto, i napoletani capirono che era arrivato il momento di reagire. In particolare, furono le donne per prime a opporsi e a impedire che i loro uomini fossero deportati in Germania. Agli scontri e agli agguati alle truppe tedesche corrisposero rappresaglie durissime. Il colonnello Hans Scholl ordinò il coprifuoco e dichiarò lo stato d’assedio con l’ordine di uccidere tutti coloro che si fossero resi responsabili di azioni ostili alle truppe tedesche: “per ogni tedesco morto saranno uccisi cento napoletani”, proclamò.
Le strade furono bloccate e gli uomini che, incidentalmente, si trovavano nelle vie della città furono caricati con la forza sui camion e chiusi nello stadio in attesa di essere deportati. Le case e i negozi furono saccheggiati e gli uomini e le donne che si opponevano furono fucilati sul posto. Con il passare dei giorni, a Napoli la popolazione cominciò ad assumere atteggiamenti ostili agli occupanti. Si intensificarono gli episodi di intolleranza e presero avvio manifestazioni studentesche spontanee come mai prima.
Era il 27 settembre. Quel giorno accadde un episodio che accese definitivamente gli animi delle masse popolari della città: alcuni marinai vennero uccisi a bruciapelo, davanti a numerosi cittadini, mentre bevevano a una fontanella. La misura era colma, bisognava reagire. Bisognava contrattaccare. La notizia di quel brutale assassinio fece il giro della città. Nuclei popolari spontanei si uniscono alla base del PCI clandestino. Il PCI forma intorno ai comunisti Vincenzo Prota, Michele Persico e il milanese Vincenzo Pianta, che, il 28 settembre, sarà tra i primi caduti delle Quattro giornate, la prima brigata combattente organizzata. L’ordine del Partito è chiaro: attaccare ovunque, costringere il nemico ad arrendersi o morire. Su questa base i contatti con gli azionisti come Salvatore Rollo e Giuseppe Sensale e gli anarchici, un manipolo di libertari, tra cui Pasquale Di Vilio, detto “Sbardellotto”, Bruno, Telemaco e Spartaco Malagoli, che avevano formato attorno ad Alastor Imondi, figlio di Giuseppe, un autentico simbolo per gli anarchici napoletani, altre formazioni armate. Il PCI si orienta al coordinamento delle forze antifasciste della città e punta a dirigere un’azione militare combinata e una regia politica dell’insurrezione. Mentre chi come Ezio Murolo, che fu aiutante di campo di D’Annunzio a Fiume, reduce di una vita militante condotta al confino e Federico Zvab, anarco-individualista, prediligono azioni autonome. Nel frattempo , il malumore dilaga, il “censimento dei compagni pronti all’attacco e delle armi in loro possesso” è pronto, i rastrellamenti dei giovani, le deportazioni in Germania, le fucilazioni e gli incendi divampano in tutta la città. “Non più un passo indietro!” è la parola d’ordine del PCI, che riecheggia la vittoria di Stalingrado. La parola alle armi, infiammò la lotta.
La gente iniziò ad assieparsi armata per le strade, a bruciare le camionette nemiche, a creare barricate per impedire il passaggio delle truppe tedesche. Gli abitanti del Vomero riuscirono a impadronirsi di armi e munizioni depositate in un arsenale. In un momento di confusione, i carcerati scapparono dalle prigioni e si unirono ai rivoltosi e ai pochi soldati italiani rimasti allo sbando. Scontri diretti e guerriglia urbana contro il nemico occupante dilagarono, da San Giovanni all’Arenella, da un capo all’altro della città. Cominciarono così le Quattro giornate di Napoli!
Il 28 settembre Gennarino Capuozzo, come ogni mattina, uscì di casa per andare a lavoro. Aveva saputo dei combattimenti che imperversavano dal giorno prima, ma il “lavoro è il lavoro” e bisognava che anche lui, dodicenne, desse il suo contributo a casa, tanta era la povertà. Se non fosse che, fuori del vicolo di casa sua sentì gli spari di una pistola, si girò e vide i corpi di una giovane donna, un uomo e un bambino davanti all’ingresso di un panificio e, poco più in là, una camionetta con alcuni soldati tedeschi che si allontanava. Proprio allora vide un gruppo di ragazzi più grandi di lui: erano scappati dal carcere minorile e avevano deciso di combattere i tedeschi. Senza pensarci su, Gennarino tornò a casa, prese una borraccia d’acqua e una pagnotta, diede un bacio a sua madre – come lei raccontò poi – e le disse: “Mammà , nun m’aspettà, tornerò quann Napule sarà libera”. Sua madre non fece nemmeno in tempo a fargli le solite raccomandazioni che Gennarino era già sparito nei vicoli bui. Dietro di lui si formò un gruppo di rivoltosi, quasi tutti ragazzini. Non avrebbero più preso ordini dal colonnello Scholl. Si unirono agli adulti, per la Liberazione. Andarono subito ad aiutare gli insorti del “Frullone“: “Currite, currite guagliù”, diceva Gennarino mentre con gli altri compagni trasportava per i rivoltosi le armi, rubate ai tedeschi caduti, facendo la spola tra le barricate e i depositi di munizioni delle caserme di via Foria e di via San Giovanni a Carbonara.
Rapidi, determinati, guizzanti. I tedeschi non riuscivano a fermarli, non inquadravano il bersaglio. La notizia che un gruppo di ragazzini stava mettendo a dura prova le truppe naziste si diffuse ben presto nella città. I giornalisti cominciarono a parlare di Gennarino e ci fu qualche fotografo che riuscì a ritrarlo mentre faceva la sua guerra. I napoletani che imbracciavano il fucile divennero in poche ore sempre più numerosi. Nel quartiere Materdei, una pattuglia tedesca fu tenuta per ore sotto assedio.
Al terzo giorno di feroci scontri, il 29, giunse la voce che a Mugnano erano state fucilate 10 persone, fra cui tre donne e tre bambini. Gennarino, con i suoi compagni, decise di vendicare quei martiri e con il suo gruppo si appostò dietro alcuni blocchi di cemento sulla strada tra Frullone e Marianella e attese che il camion con i tedeschi fosse vicino. Appena l’automezzo con i tedeschi fu a portata di tiro, sventagliarono le armi di cui si erano impossessati per le strade: spararono con le mitragliatrici e lanciarono bombe a mano. Il camion tedesco provò a togliersi dalla strada, ma Gennarino riuscì ad avvicinarsi e a gettare una bomba a mano contro il mezzo militare. Che prese fuoco e si ribaltò. “Ora scendete”, intimò ai soldati tedeschi superstiti puntando la sua mitraglietta. Dal camion scesero con le braccia alzate tre soldati; il comandante che poco prima aveva ordinato la strage, l’autista e il mitragliere. I tedeschi furono portati come prigionieri all’accampamento degli insorti e Gennarino fu trattato da eroe.
Quell’impresa mostrava come determinazione e organizzazione fossero la chiave per sconfiggere l’“imbattibile” esercito tedesco. La “brigata Capuozzo” riprese la via all’indomani, in via Santa Teresa degli scalzi, dove decine di napoletani avevano alzato le barricate, con i mobili che la popolazione aveva buttato giù da finestre e balconi per sbarrare il passo ai mezzi tedeschi e respingerli. Prese il mitragliatore di un soldato morto, si riempì le tasche con le bombe a mano e corse verso un carro armato tedesco. “Adesso vi facciamo vedere noi chi sono i napoletani!“, urlò nella corsa al lancio. Ma mentre stava togliendo dalla bomba la sicura, una granata del nemico lo centrò in pieno.
I napoletani che stavano combattendo a qualche metro di distanza lo videro sparire tra la polvere dell’esplosione, non lo sentirono nemmeno gridare, corsero da lui sperando di poterlo aiutare, ma era tardi. Il suo corpo giaceva immobile, il volto sfigurato da quello scoppio, la bomba ancora stretta in pugno. Fu l’ultimo atto di eroismo di quei quattro giorni che cambiarono il volto della Napoli in guerra e, di lì a pochi mesi, la Storia del nostro Paese.
Quella sera stessa, i tedeschi trattarono la resa con gli insorti: ottennero di uscire indenni, oltre le perdite che avevano subito, da Napoli in cambio del rilascio degli ostaggi ancora prigionieri al campo sportivo. Il giorno dopo, il 30 settembre, le truppe tedesche lasciarono la città. I napoletani avevano vinto e il corpo di Gennarino Capuozzo fu onorato come si onorano i martiri di guerra.
A Concetta Capuozzo, la mamma di Gennarino, fu assegnata una medaglia d’oro al valor militare alla memoria di quel piccolo, grande eroe: “Prodigioso ragazzo che fu mirabile esempio di precoce ardimento e sublime eroismo”, come era scritto nella motivazione del riconoscimento. E un’altra fu attribuita a tutta la città di Napoli perché “col suo glorioso esempio additava a tutti gli italiani la via verso la libertà, la giustizia, la salvezza della Patria”.
Finiti i bombardamenti, le granate, i morti e il terrore, persino il Vesuvio, dopo una tremenda eruzione coincisa proprio con le quattro giornate, smise di fumare. “S’è levato ‘o cappiell”, dissero i napoletani, interpretandolo come segno di saluto alla rinascita che stava per cominciare.
L’unica forza in grado di salvare il Paese, oggi come allora.
Andando ancora oggi col pensiero a quel periodo, a molti vengono in mente le storie di quanti si batterono fino alla fine per la Liberazione del nostro paese, gli atti di eroismo massimo dei tanti che lottarono sulle montagne come in città, le brigate partigiane, la guerriglia instancabile contro le forze nazifasciste, i Gruppi di Azione Patriottica (GAP) e le Squadre di Azione Patriottica (SAP) che nelle città svolgevano compiti di sabotaggio e azioni armate proprio sotto il naso del nemico. La Resistenza non fu però solo lotta armata, che pure ne costituì un aspetto fondamentale: il fulcro del processo che portò alla Liberazione, quello che rende la Resistenza il punto più alto raggiunto in Italia nella costruzione della rivoluzione socialista, fu la progressiva costruzione, attorno al PCI e tramite i CLN (Comitati di liberazione nazionale), di un nuovo potere popolare che si contrappose a quello fascista sino a sopravanzarlo ed eliminarlo.
La Resistenza insegna. La rivoluzione non scoppia, ma si costruisce costruendo il nuovo potere. Questo è uno degli insegnamenti principali, universali, di quella esperienza. Da considerare per definire il che fare oggi, in una fase che, pur tenendo presente le differenze tra quel periodo e l’attuale, ha vari punti in comune: una situazione di crisi generale del capitalismo, la guerra imperialista tornata finanche nel cuore d’Europa (mossa dai gruppi imperialisti USA e UE contro la Federazione russa pur di rallentare il loro declino), un governo del Paese che si comporta come una forza occupante e ne spreme le risorse e le masse per il profitto dei circoli della finanza mondiale cui è subalterno a dispetto di ogni dichiarazione di sovranità nazionale, similmente a come la Repubblica Sociale Italiana spremeva il Paese per conto delle classi dominanti che si erano messe al seguito del regime nazista e della sua macchina da guerra.
Gli embrioni del nuovo potere popolare. I CLN sorsero spontaneamente dopo l’8 settembre 1943 per l’esigenza della lotta anti nazista e antifascista. L’organismo centrale si formò a Roma il 9 settembre 1943, ad opera di sei partiti antifascisti (comunista, socialista, azionista, democratico cristiano, demolaburista, liberale), raccolse, potenziò, coordinò e inserì in un quadro nazionale l’azione svolta dai comitati sorti spontaneamente e ne promosse la formazione di nuovi, ramificandosi con la creazione di CLN regionali, provinciali e locali. Agiva come un vero e proprio governo centrale dotato di proprie forze armate (le brigate partigiane), con pieni poteri e contrapposto alle autorità nazifasciste. Nel contempo i CLN locali svolgevano, in primo luogo nelle zone sotto occupazione tedesca, la funzione di nuovo potere a livello di regione e provincia, di città e rioni, di fabbriche e villaggi, organizzando scioperi e sabotaggi della produzione, distribuendo le risorse e i viveri sequestrati ai treni diretti in Germania alla popolazione affamata dalla guerra, dirigendo le azioni dei GAP e delle SAP in città e delle brigate di montagna e di pianura e fungendo in definitiva da tramiti tra il CLN centrale e le masse popolari.
Anima e principali promotori dei CLN furono i comunisti, grazie al loro legame con la classe operaia e al radicamento nella società, alla robustezza e ramificazione della loro organizzazione clandestina, alla decisione e fermezza nella lotta al nazifascismo, al prestigio dell’URSS presso le masse popolari e al suo supporto attivo attraverso l’Internazionale Comunista: il PCI promosse l’unità con le altre forze democratiche all’interno dei CLN, in cui erano, per quanto possibile, rappresentati sempre tutti i partiti antifascisti, nell’ottica della politica da fronte decisa nell’ambito dell’Internazionale Comunista per unire e utilizzare tutte le risorse disponibili nella impari lotta contro le truppe della RSI, sostenute dalla potente macchina da guerra tedesca.
È l’azione dei CLN come “governo di emergenza” delle masse popolari, espressione politica della Resistenza antifascista, che preparò il terreno per la Liberazione. A quell’ordine all’insurrezione generale contro i nazifascisti per imporre loro di “arrendersi o perire” che, infine, portà alla Liberazione del Paese, al 25 aprile del 1945.
Oggi riprendiamo il cammino interrotto. La Resistenza insegna, abbiamo detto. Insegna che la rivoluzione non scoppia e che la rivoluzione non si costruisce ampliando e radicalizzando le lotte rivendicative; insegna che si costruisce nel rapporto fra Partito comunista, classe operaia e masse popolari, un rapporto che si sviluppa e si consolida solo nel processo di costruzione del nuovo potere.
Si tratta oggi di riprendere il cammino interrotto e portare a compimento l’opera iniziata dai comunisti, dagli operai e dai partigiani, superando i limiti e correggendo gli errori che hanno impedito di condurre fino alla vittoria la lotta non solo per liberare il nostro Paese dal nazifascismo, ma per costruire “un ordine nuovo”: il socialismo.
A cura di Igor Papaleo
segretario della Federazione Campania del P.CARC