Editoriale

Fare la cosa giusta (A chi pensa che bisogna fare qualcosa)

L’alluvione in Emilia Romagna non è stata una fatalità, è una delle manifestazioni, sempre più frequenti, dei cambiamenti climatici che dipendono direttamente dall’impatto del modo di produzione capitalista sulla natura e sull’ambiente.

Neppure le conseguenze distruttive dell’alluvione sono una fatalità. Allagamenti, frane, distruzione di strade e ponti, morti, popolazioni sfollate e rischio di epidemie: sono tutte conseguenze di decenni di speculazioni, tangenti, cementificazione e incuria del territorio.

Ma se allarghiamo la visuale emerge anche altro.

Proprio nei “giorni peggiori” in Emilia Romagna, è emerso dal processo per il crollo del ponte Morandi a Genova (2018) che fin dal 2010 c’era chi “sapeva che il ponte era a rischio di crollo”, ma non ha detto nulla per non giocarsi la carriera. Parliamo di Gianni Mion, faccendiere, finanziere, costruttore da sempre ammanicato con la famiglia Benetton.

E proprio le parole di Mion riportano alla mente altri fatti e circostanze: il costruttore che se la rideva e si sfregava le mani pensando agli affari che avrebbe fatto “grazie al terremoto” dell’Aquila; la Corte del Tribunale di Pescara che ha assolto molti degli imputati per la strage dell’hotel Rigopiano; le lacrime di coccodrillo che i vertici dello Stato, del governo e delle Ferrovie hanno versato per i morti della strage alla stazione di Viareggio.

Ci sono tre emergenze combinate e contingenti, dunque. Gli effetti della crisi ambientale, gli effetti di decenni di speculazione e incuria dei territori e delle infrastrutture e l’azione di autorità e istituzioni che chiudono tutti e due gli occhi di fronte alle speculazioni, ne chiudono uno quando sono costrette a intervenire dopo una strage che cercano di presentare come “una fatalità” e che invece ci vedono benissimo per reprimere e punire chi protesta, ad esempio “i ragazzi” di Ultima Generazione.

Dobbiamo allargare ancora la visuale, perché le emergenze non sono solo tre.

Governi e istituzioni, quale che sia il loro “colore”, da decenni stanno smantellando la sanità pubblica per fare delle cure mediche una merce da vendere e comprare, altro che “diritto alla salute”.

Se parliamo poi del lavoro, si apre un altro capitolo: smantellamento dell’apparato produttivo attraverso la cessione di aziende, anche strategiche, a multinazionali straniere e fondi di investimento internazionali, chiusure e delocalizzazioni.

I lavoratori sono sempre più ricattati, precari, sfruttati. Al punto che è entrata nel senso comune l’idea di dover ringraziare il padrone che “almeno ti fa lavorare”.

E come se non bastasse c’è la guerra e l’economia di guerra: il governo Meloni continua a spendere milioni di euro per sostenere le manovre della Nato in Ucraina, mentre sono incalcolabili le ricadute delle sanzioni contro la Federazione Russa sulle famiglie e sulle imprese italiane; continua a permettere che il nostro paese venga utilizzato come base per le operazioni militari Usa-Nato (altro che sovranità nazionale!) e procede senza remore alla militarizzazione della società (delle scuole, delle città, dell’informazione, ecc.).

Ce ne sono molte altre, di emergenze. E sempre più persone si rendono conto che bisogna fare qualcosa. Ma spesso il bisogna fare qualcosa rimane un pensiero. In alcuni casi la spinta a mobilitarsi lascia l’amaro in bocca, perché sembra che quello che si fa non è abbastanza.

Ci sono quelli che dicono “nessuno fa niente, quindi non cambierà mai niente”.

Che nessuno fa niente non è vero. Ci sono una miriade di mobilitazioni, iniziative, attività, lotte. Chi non le vede sta solo rivolgendo altrove la sua attenzione e finisce per scoraggiarsi: sogna di fare “cose in grande”, sogna la rivoluzione e aspetta che scoppi, mentre ingoia i rospi, i torti e le ingiustizie e si fa il sangue amaro di fronte al mondo che va a rotoli.

Di mobilitazioni ce ne sono tante, ma ad alcuni sembra che non servano a niente. Questo, però, è vero solo in parte.

Servono a poco le mobilitazioni e le manifestazioni organizzate “tanto per fare”, per “dare un segnale”. Che siano tanto o poco partecipate non importa: se una manifestazione è organizzata solo come ingrediente del teatrino della politica (il gioco delle parti) serve a poco. Ne sono dimostrazione le manifestazioni indette da Cgil, Cisl e Uil il 6, il 13 e il 20 maggio: sono state manifestazioni che i vertici dei sindacati di regime hanno indetto per dimostrare al governo di “contare ancora qualcosa” e per “dare un contentino” alla base degli iscritti, non sono state iniziative di lotta contro il governo. E infatti non sono servite a contrastare l’iniziativa del governo Meloni, che proprio il 1° maggio ha sfornato l’ennesimo decreto che determinerà ancora più precarietà e povertà.

Servono molto, invece, le mobilitazioni che alimentano la resistenza e la combattività dei lavoratori e delle masse popolari, anche se sono poco partecipate e anche se – sul momento – non ottengono vittorie (e a volte sono anzi momentaneamente sconfitte). Facciamo solo due esempi.

I comitati di Piombino hanno organizzato 68 iniziative in pochi mesi contro l’installazione del rigassificatore (la nave Golar Tundra), ma la nave ha attraccato in porto e in queste settimane inizia a essere operativa.

La mobilitazione dei comitati è stata apparentemente sconfitta. E lo sarebbe davvero, se i comitati avessero “mollato la presa”. Ma non lo hanno fatto, anzi dicono che con l’attracco della nave sono arrivate le forze occupanti e “adesso inizia la Resistenza”.

Il movimento No Tav ha organizzato iniziative e mobilitazioni per trent’anni. Non ha vinto, nel senso che il progetto devastante dell’alta velocità non è stato ritirato, ma neppure è stato realizzato. Anzi, le manifestazioni, le iniziative e le mobilitazioni non hanno solo rallentato i lavori in modo determinante, ma hanno anche aperto, più di una volta, contraddizioni in campo nemico.

Certamente chiunque può obiettare che entrambi gli esempi non parlano di qualcosa di risolutivo.

La verità è che per fare qualcosa di risolutivo bisogna che qualcuno si metta a estendere esperienze simili in ogni territorio, in ogni ambito, in ogni situazione; bisogna che tutte queste esperienze, o la maggioranza di esse, si coordinino; bisogna che lo spirito di resistenza che contraddistingue ogni mobilitazione diventi spirito di conquista. E bisogna imparare a cambiare completamente modo di vedere le cose: bisogna valorizzare tutto perché anche nelle mobilitazioni fatte “tanto per fare” c’è una componente positiva, utile, di prospettiva e di spinta. Se non sta alla testa, se non è incarnata da chi le promuove, sta nella base, cioè è presente almeno in una parte di chi partecipa.

È inevitabile che sia così, perché sempre più persone si rendono conto che “bisogna fare qualcosa e bisogna che quel qualcosa sia efficace”.

Fare la cosa giusta

La cosa giusta da fare, prima di tutto, è assecondare la spinta a mobilitarsi. Bisogna fare qualcosa e il primo passo è non lasciarsi scoraggiare dal pensiero di essere in pochi, dal dubbio che non serva, dall’idea che tanto non cambierà niente.

Anche se all’inizio di un percorso si è in pochi, fare o non fare, organizzarsi o non organizzarsi, mobilitarsi o no, incide sulla realtà e la trasforma.

Nessuna mobilitazione efficace è mai nata “grande, forte e vincente”, ma lo è diventata grazie al fatto che qualcuno ha iniziato e non ha mollato.

In secondo luogo, non bisogna lasciarsi limitare dal senso comune corrente: la cosa giusta da fare non è quella “che mette d’accordo tutti”, ma quella che, anche attraverso una forzatura, apre una strada e una prospettiva. Gli attivisti di Extinction Rebellion o di Ultima Generazione prendono iniziative che sono criticate da un’ampia parte delle masse popolari, non solo perseguite dai Tribunali, ma quelle azioni servono perché pongono una questione generale – l’emergenza ambientale – rendendola evidente a tutti.

Il discorso del non lasciarsi limitare riguarda anche la legalità della classe dominante. Non si può fare la cosa giusta se si è ligi alle leggi, ai vincoli e alle prassi della classe dominante, semplicemente perché la legalità della classe dominante è esattamente lo strumento per impedire che le masse popolari prendano iniziativa efficacemente. Perfino fare uno sciopero senza preavviso, cosa del tutto giusta e legittima, è diventato in molti casi un reato. Così come un picchetto, un’occupazione, un corteo. E chi li organizza viene ormai ordinariamente inquisito per associazione a delinquere!

In terzo luogo, la cosa giusta da fare è quella che favorisce l’organizzazione delle masse popolari, cioè permette ad altri di aggregarsi o di seguire l’esempio in un altro ambito o un altro territorio e sviluppa la solidarietà.

In ultimo, la cosa giusta da fare è non temere le conseguenze di quello che si fa. Quando c’è un ordine sociale ingiusto, il disordine è il primo passo per costruire un ordine sociale giusto. Questo non significa essere irresponsabili, significa non cedere agli appelli al bene comune, al “vogliamoci tutti bene perché siamo sulla stessa barca” e alla resilienza dispensati dalla classe dominante, che sta a capo dell’ordine sociale ingiusto in cui viviamo.

Lavoratori e padroni non sono mai sulla stessa barca. Masse popolari e classe dominante non condividono mai nessun bene comune. Il naufragio dei padroni e della classe dominante è la salvezza per i lavoratori e per le masse popolari.

La cosa giusta da fare, dunque, è far naufragare la barca dei padroni e dei capitalisti e far prendere il largo a quella dei lavoratori e delle masse popolari organizzate.

Questo è il compito dei comunisti, dei lavoratori e dei giovani d’avanguardia.

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