Il 6, il 13 e il 20 maggio, rispettivamente a Bologna, Milano e Napoli, i sindacati confederali hanno svolto tre manifestazioni che – a detta delle segreterie – rientravano “nella campagna di mobilitazione per convincere il governo Meloni a cambiare le politiche sul lavoro”.
Ci sarebbero ovviamente molte cose da dire rispetto al virgolettato (quale campagna di mobilitazione? Come si fa a convincere un governo borghese? Come si può cambiare la politica sul lavoro se essa è completamente sottomessa all’agenda del padronato?) e altrettante sulla scelta di procedere a colpi di manifestazioni rimandando uno sciopero a “quando ce ne sarà bisogno”, ma la questione che ci interessa trattare qui non sono le mancanze dei vertici dei sindacati di regime.
Piaccia o meno, è oggettivo che si è trattato delle principali mobilitazioni contro il governo Meloni degli ultimi mesi, o per lo meno quelle a cui hanno partecipato il più alto numero di lavoratori.
Che fossero apertamente contro il governo, anche se l’intento dei promotori era quello di mantenere un tono “interlocutorio e costruttivo”, è chiaro soprattutto dal fatto che lo slogan più gridato era quello che invocava lo sciopero generale.
Lo gridavano i lavoratori a Bologna, a Milano e a Napoli, lo gridavano gli iscritti Fiom e Cgil, ma anche iscritti della Cisl e della Uil.
A Bologna il Pd ha provato a “cavalcare la tigre” e se mediaticamente l’operazione è riuscita è solo perché sono stati oscurati i mugugni e gli sberleffi indirizzati a Elly Schlein (ma in verità la frangia rumorosa contestava la presenza di tutti i politici, genericamente).
Prendendo per buoni i numeri degli organizzatori, nel complesso hanno partecipato alle manifestazioni circa 100mila persone. Non sono state, dunque, manifestazioni “oceaniche”, ma per valutarne l’esito bisogna anche considerare che i sindacati di regime fanno volentieri a meno di concentrare molte persone che invocano lo sciopero generale. Perché non hanno alcuna intenzione di proclamarlo.
La scusa – questa è la versione di Landini – è che lo sciopero generale va fatto quando ce ne è bisogno e oggi in Italia non ce n’è ancora bisogno. In secondo ordine, ma questa è una ragione più concreta, si pone il problema di cosa fare dopo aver proclamato lo sciopero generale. Se non basta bisognerà proclamarne un altro. E poi magari allargare ancora la mobilitazione. E poi scendere sul terreno politico. Bisognerà, insomma, sciogliere quella cappa di melassa che contraddistingue le relazioni fra i vertici dei sindacati di regime e il governo Meloni. In nome della quale la Meloni è stata anche invitata al Congresso della Cgil a promettere senza mezzi termini che non farà alcun passo indietro.
Del resto, che siano le Larghe Intese ad avere in mano le redini dello “scontro” con i sindacati di regime – Cgil in particolare – è evidente anche da altri fattori. Molto eloquenti.
Eloquente è stata la convocazione del Consiglio dei Ministri il Primo Maggio per varare il Decreto lavoro con il quale il governo ha aumentato la precarietà e i ricatti – oltre che abolire il Reddito di cittadinanza. Capito? La Cgil al concertone e la Meloni all’attacco!
Eloquenti, però, anche le cariche poliziesche al corteo che la Cgil (ma anche altre associazioni dall’Anpi, all’Arci a Libera) ha organizzato nel giorno del ricordo della strage di Capaci: botte sui manifestanti che non hanno rispettato le disposizioni della Questura, per la quale era vietato oltrepassare un certo punto. Botte agli iscritti alla Cgil, anche. Anziani, giovani, donne e bambini…
Ad essere eloquente, dunque, è il messaggio: o la Cgil fa come dice il governo, oppure fa come dice il governo.
Tuttavia, non servivano le manifestazioni di maggio per sapere che quella che rimane è la necessità e la voglia di mobilitarsi e lottare. Di fare sciopero tutti insieme, prima di tutto. Di dare un segnale chiaro di protesta e di lotta.
A ben vedere questa necessità e questa voglia trasudano da ogni angolo del paese.
Mancano le organizzazioni sindacali che vogliano e sappiano interpretarle. Evidentemente i sindacati di regime fanno di tutto per evitare di interpretarle, d’altro canto i sindacati di base dimostrano di non saperle interpretare.
Il 26 maggio l’Usb ha indetto uno sciopero generale in solitaria. Attraverso i comunicati annuncia che si è trattato di un successo (“un milione di lavoratori aderenti”), ma anche in questo al netto dei numeri, è impossibile non notare che si tratta di un passo indietro rispetto al percorso di mobilitazione unitaria che andava avanti da alcuni anni fra i sindacati di base.
Al netto delle varie possibili valutazioni, la questione che emerge con chiarezza è sopratutto la necessità di ragionare sul rinnovamento del movimento sindacale del nostro paese. Il “sindacato che fa il sindacato” non basta più e non è affatto sufficiente a fare fronte ai disastri lasciati da chi ha promosso la linea “del sindacato che fa l’agenzia di servizi”. La verità è che serve un sindacato che metta le mani in pasta nella politica, che faccia politica, che percorra una strada politica. Non partitica, politica!
Perché politica è la soluzione al marasma in cui siamo immersi, politica è la necessità dello sciopero generale, politico è il fulcro dell’organizzazione dei lavoratori anche sui posti di lavoro (al di là delle tessere sindacali).
Anche questo è uno degli aspetti che emerge con forza dalle mobilitazioni dei lavoratori francesi. Che, a dispetto dei dubbi che si pongono i dirigenti sindacali italiani, hanno capito che dopo uno sciopero generale se ne fa un altro e poi un altro e poi un altro ancora… fino a cacciare il governo che non vuole essere convinto a cambiare politica
ER