L’Unione Operaia di Sesto Fiorentino, o meglio, di Colonnata, era il circolo, la Casa del Popolo degli operai della Ginori. Nacque dalla fusione della Società di mutua assistenza, la Cooperativa di consumo e il Circolo operaio, il 21 luglio 1907, e fu costruita dagli operai su terreno acquistato dal marchese Ginori. Qui la Federazione Toscana del Partito dei Carc, l’Associazione Resistenza, lo Studio Antonio Labriola hanno tenuto una iniziativa su tre secoli di storia della classe operaia a Sesto, in buona parte fondata su quanto esposto in una esposizione storica prodotta da questo Studio Labriola e diffusa in occasione dell’iniziativa.[1] Alla presidenza c’erano Fabio Gambone e Paolo Babini, in rappresentanza degli organismi promotori. In corso d’opera i due compagni sono stati affiancati alla presidenza da esponenti di punta delle realtà operaie più antiche della Piana, Stefano Battolla della Ginori, Simone Pinelli del Cartonificio Fiorentino, Francesco Di Iorio della Gkn di Campi Bisenzio. Il Cartonificio, dirà Simone Pinelli, è l’ultima espressione di una storia secolare, mentre la Gkn è stata della Fiat fino a qualche decennio fa. La Fiat è una delle più antiche fabbriche metalmeccaniche italiane e prima fra le altre per il suo ruolo a livello nazionale e internazionale, e la Gkn, che comprò lo stabilimento campigiano dalla Fiat, nasce agli albori della rivoluzione industriale, attorno al 1770 nel Galles, prendendo il nome dei proprietari Guest, Keen and Nettlefods.
Questi operai qui presenti, protagonisti delle lotte più importanti del decennio in questi territori, si incontrano con esponenti del movimento comunista che sta rinascendo, eredi del movimento comunista che ha accompagnato la lotta di classe dell’Ottocento, del Novecento e del nuovo millennio. Da questo incontro nasce il valore dell’iniziativa.
Questo resoconto dell’iniziativa non è esaustivo, nel senso che porta solo alcune delle cose dette dagli intervenuti, quelle che sono più significative o che si aggiungono alla esposizione storica citata.
L’introduzione di Fabio Gambone
Fabio Gambone, responsabile federale per il lavoro operaio e sindacale, ha introdotto il dibattito, spiegando come l’iniziativa fosse parte integrante della Settimana Rossa, la settimana dal 25 aprile al Primo Maggio, giorni che il Partito dei Carc ha chiamato così la prima volta nel 2021, fatti di iniziative pubbliche nelle strade e nei locali contro il divieto di celebrare gli anniversari della lotta di classe imposti dal lockdown.
In questo Primo Maggio, ha detto il compagno, il P.Carc avrebbe preso parte alle iniziative dei sindacati di base all’Isolotto, al corteo sindacale a Sesto Fiorentino, alle iniziative all’Istituto De Martino sempre a Sesto.
Nel suo intervento, tra le altre cose, il compagno ha ricordato Timo, operaio della Ginori, capo partigiano, che fu uno degli operai licenziati negli anni ’50, e citato un libro di Franco Manescalchi, Movimento operaio e discriminazione in fabbrica,[2]sulle occupazioni delle fabbriche negli anni ’50. Il libro narra in dettaglio le esperienze della lotta di classe a Firenze dalla fine della guerra fino ai primi anni Sessanta, e in molta parte è dedicato alla classe operaia della Richard Ginori.
La relazione di Paolo Babini
Paolo Babini è intervenuto segnalando alcuni punti della lunga linea di lotta degli operai sestesi, illustrata più in dettaglio nell’esposizione storica citata, soffermandosi sui passaggi essenziali dei tre secoli di storia dalla fondazione della Ginori a oggi. Ha posto la storia della Ginori nel contesto del passaggio da manifattura a industria tra fine Settecento e primo Ottocento. Manifattura, ha detto, è luogo dove molti operai lavorano insieme ma come artigiani, ciascuno addetto alla produzione del pezzo dall’inizio alla fine, produzione per la quale usano tutti gli strumenti necessari. Industria è il luogo dove la macchina usa gli operai come strumenti, e li consuma, così come accadeva nell’Inghilterra della Rivoluzione Industriale, dove la vita media degli operai era di trent’anni. A questa fase storica segue la fase in cui viviamo ancora, la fase che inizia nella seconda metà dell’Ottocento. Più che una fase è un’epoca, dice il compagno, l’epoca della rivoluzione socialista,[3] e allo stesso tempo è la fase dell’imperialismo, l’ ultima fase del capitalismo.
I segni di questa fase a Sesto Fiorentino si mostrano integralmente. Il movimento comunista cosciente e organizzato nasce e si impone con il Partito socialista, con il Circolo operaio, con la Cooperativa di consumo e la Società di mutua assistenza. Qui abbiamo i primi eletti socialisti al Parlamento nazionale e i primi sindaci, uno dei quali è Bietoletti, operaio della Ginori che alle elezioni amministrative sconfigge il marchese Ginori, quando già questi aveva venduto la fabbrica al milanese Richard. Qui Paolo Lorenzini, il fratello di Carlo, l’autore di Pinocchio, uno dei più grandi manager dell’epoca, constata la caduta del saggio di profitto di cui Marx stava dando definizione scientifica nel Capitale. Lo chiama “saggio di lucro” e a lui, che è mente e cuore al servizio del capitalista, questo fenomeno pare innaturale, perché secondo il credo della borghesia il guadagno non deve mai avere fine e in corso d’opera crescere, non calare, quasi fosse legge divina.[4]
Il relatore ha proseguito nel percorso storico soffermandosi, tra le altre cose, sulla cooperativa che a inizio secolo operai della Richard Ginori costituirono per dare lavoro a disoccupati e licenziati a Livorno. Il padrone Richard licenziò tutti quegli operai, Bietoletti incluso, accusandoli di creare concorrenti alla sua azienda. Una cooperativa, infatti, dirà poi Fabio Gambone, ricordando un caso, quello della Megaride del porto di Napoli, deve infine operare in un contesto regolato dalle leggi di mercato e ad esse fare sottostare i rapporti di produzione.
L’episodio della cooperativa è descritto in dettaglio nei paragrafi precedenti di questo documento. Qui si descrive anche la reazione dei fascisti sconfitti alle amministrative del 1921, con la loro squadra “Disperata” che uccise il figlio di un delegato sindacale della Ginori, e di come i fascisti comunque presero il Comune, senza elezioni, un anno dopo, dopo che lo sciopero di settanta giorni alla Ginori si era concluso con una sconfitta. Il relatore ha ricordato i fatti e ripreso il commento su di essi da L’Ordine Nuovo di Gramsci, fortemente critico verso il modo in cui la lotta operaia era stata diretta dalla Confederazione Generale del Lavoro. Secondo L’Ordine Nuovo “bastava che a dirigere le masse organizzate della nostra provincia vi fossero stati uomini capaci di intendere la necessità di agire, adatti ad affrontare una battaglia terribile, grandiosa, disperata.” Il compagno Babini ha ripetuto che ci volevano di sicuro uomini e donne del genere, così come ce ne vogliono per le battaglie di oggi, grandiose sicuramente e anche terribili, ma niente affatto disperate (la disperazione lasciamola ai fascisti e al nemico di classe), ma soprattutto ci volevano uomini e donne uniti ideologicamente e organizzativamente. Non basta rendersi conto della “necessità di agire” e farlo anche a rischio della vita. Bisogna cominciare anche a capire in quale modo farlo, e non agire alla cieca. Ci voleva e ci vuole, cioè, un partito della classe operaia che ha scienza, che ha conoscenza scientifica della lotta di classe e determinazione nel condurla.
Questo partito allora mancò. È questa la ragione per cui gli operai furono sconfitti. Questo risponde anche alla domanda che è sorta immediatamente da Francesco Di Iorio, il quale ha chiesto ragione della sconfitta e della ritirata di una classe operaia che aveva alle spalle un partito come il PSI, e un Comune che era diretto dal PSI da trent’anni finiva in mano ai fascisti senza nemmeno le elezioni. La risposta è che quel partito non era adeguato. Era un partito capace di entrare in lizza nelle elezioni borghesi, capace di intervenire sul piano sindacale, culturale e dell’associazionismo, ma incapace di condurre una lotta rivoluzionaria, per fare dell’Italia un paese socialista così come il partito di Lenin aveva fatto in Russia. Solo un partito del genere avrebbe potuto fare fronte ai fascisti e vincere non solo a Sesto, ma in tutta la nazione e la stessa cosa vale oggi, aggiungo qui.
È intervenuto a questo punto Simone Pinelli del Cartonificio indicando un romanzo storico che racconta i fatti di quel tempo. Si tratta de I ragazzi della fila rossa, di Giulio Cerreti.[5] Lo leggeremo per trovarvi notizie da aggiungere a questa ricostruzione sulla storia di Sesto operaia che lo Studio Labriola ha elaborato e che citiamo sopra. In questa ricostruzione parliamo anche di quell’operaio comunista che fu nella Ginori sotto il fascismo e che trasmise la sua esperienza a Giovanni Nencini, ricorda Babini, che qui sta parlando della lotta operaia in fabbrica degli anni Cinquanta dello scorso secolo e di quella condotta dai Cobas tra il primo e il secondo decennio del secolo nuovo, la lotta che ha mantenuto l’obiettivo di tenere aperta la fabbrica. Babini cita le parole pronunciate il 25 aprile 2013 dal palco in Piazza Santo Spirito da Nencini, il quale dichiarava che “c’è bisogno di una nuova politica, di una nuova economia, di una diversa visione del mondo.”
L’intervento di Stefano Battolla
Alla relazione di Babini è seguito l’intervento di Stefano Battolla, operaio della Ginori che allora affiancò Nencini e le altre due delegate dei Cobas nella lotta per mantenere aperta l’azienda. Lo riporto per intero.
L’esperienza Cobas in Ginori tra il 2011 e il 2013: un soviet italiano
Per inquadrare correttamente la vicenda sindacale dell’ultima grande crisi Ginori bisogna necessariamente partire da lontano.
La storia del movimento operaio sestese, simile in questo ad altre esperienze coeve, si intreccia in maniera indistricabile con quella del movimento socialista nascente. Le grandi battaglie operaie tra fine ‘800 e inizio ‘900 permettono ai lavoratori di prendere coscienza della propria forza organizzata e di resistere anche quando il nemico ricorre a metodi repressivi, spesso feroci. Si formano così le prime Camere del Lavoro, il primo sindacato, le Società di Mutuo Soccorso, le Case del Popolo. Si ottengono miglioramenti salariali e la riduzione oraria a parità di stipendio.
Sesto Fiorentino, come altre città operaie (Sarzana, per citarne una), elegge un sindaco socialista che verrà messo da parte (e non per via elettorale) soltanto dal regime fascista. Repressione e sconfitte non mettono in crisi, come detto, la presa di coscienza collettiva della classe operaia, ma evidenziano progressivamente i limiti dell’azione politica e sindacale dei vertici politici e sindacali che li rappresentano in quei frangenti. Il PSI è già un partito riformista che tende sempre più a disinnescare le istanze rivoluzionarie delle lotte operaie e finisce per esprimere posizioni neutraliste sul primo conflitto mondiale e per ignorare del tutto l’enorme cambiamento avvenuto con la Rivoluzione russa.
Avviene così, al culmine del Biennio Rosso, la prima grande scissione che andrà a formare il PCI. Qui possiamo vedere all’ opera quella che diverrà una costante ed un insegnamento: l’unità delle rappresentanze operaie e popolari non è un valore in sé quando queste, siano sindacali o politiche, esprimono posizioni non in linea con gli interessi della maggioranza dei lavoratori stessi. È un motivo ricorrente nella storia del movimento operaio: si fronteggiano due anime, una sinistra e una destra, fino a che una delle due prevale. La destra prevarrà con il PCI del secondo dopoguerra grazie all’ espansione economica successiva al secondo conflitto mondiale, che consente alla parte padronale di offrire concessioni ai lavoratori in cambio della pace sociale, e al Partito di entrare in un’illusoria sorta di “riformismo eterno”, che ricorda da vicino le “magnifiche sorti e progressive” da cui anche un non marxista come Leopardi aveva messo in guardia.
Il conflitto però non tarda a riemergere negli anni 70, con la seconda crisi generale del capitalismo. Riesplode la conflittualità anche all’ interno del PCI e del maggior sindacato operaio, con Berlinguer che prima applaude l’austerità (di chi già la subisce per oppressione di classe!) e poi abbraccia il compromesso “storico” con la DC; e con Lama che inaugura la stagione del “tirare la cinghia” (per chi ha già finito i buchi!).
In questo contesto di crisi di rappresentanza la classe operaia, ma non solo, tenta di organizzarsi autonomamente con il sindacalismo di base che sconta fin da subito il grosso limite della mancanza di rappresentanza politica: sia nelle istituzioni sia, ben più grave, in termini di progettualità. La contemporanea fine dell’Urss e degli altri paesi socialisti europei porta anche tra le classi popolari la difficoltà a concepire un mondo senza oppressione e sfruttamento così che qualche intellettuale organico al Capitale potrà decretare la “fine della Storia” e qualche autorevole leader politico dichiarare che “there is no alternative”.
Si susseguono le crisi, ed ognuna (invariabilmente) erode qualche conquista e qualche diritto. In questo contesto, complice uno scontro interno alla CGIL toscana, una parte della rappresentanza in Ginori (simile a quel che accadde a livello nazionale nel 1921) decide di dar vita ad un sindacato alternativo, con scarsissima organizzazione nazionale, in una delle fabbriche-simbolo per l’intero movimento operaio.
Nascono così i Cobas Ginori che, in breve tempo, si renderanno conto di dover necessariamente surrogare anche la parte più strettamente politica. Dovranno, per ottenere risultati e credibilità, agire sia dentro la fabbrica come soggetto sindacale, sia al di fuori come soggetto politico. Un soviet, insomma.
In questa analisi di strategia operativa, durante il periodo peggiore delle lotte per mantenere aperta la fabbrica (evito i particolari, reperibili in diverse cronache), si riscontra subito una convergenza con il nPci e il Partito dei Carc che però, allora, scontava ancora limiti organizzativi soprattutto a livello locale. Il compagno Paolo Babini, qui presente, mi ricorda però che limiti organizzativi in generale sono espressione di limiti ideologici. A suo giudizio il P.Carc in questa e altre sedi non era preparato per mettere a frutto una esperienza così ricca come quella che gli si parava di fronte, e guarda caso compagni come anche lui stesso restavano meravigliati, come se non se le aspettassero, della forza e intelligenza che da questa lotta scaturivano. Non a caso il Partito nella Federazione toscana cominciò ad attraversare una crisi che dopo un anno circa avrebbe portato a un quasi completo ricambio della Segreteria federale (e processi analoghi si verificarono in Campania). Non a caso oggi il Partito così rinnovato e quantitativamente più esteso è in grado di intervenire produttivamente, in dettaglio e con continuità in una lotta tanto significativa quale quella della Gkn.
La collaborazione proficua riuscì comunque a portare all’ organizzazione di una manifestazione nazionale con altre realtà in lotta quali l’Irisbus di Avellino e al coinvolgimento del M5S che pareva sul punto di voler divenire il soggetto politico di rappresentanza dei lavoratori (almeno in alcune sue parti).
La trasformazione dei Cobas in “soviet”, in soggetto politico in grado (rappresentando i lavoratori) di mettere in crisi le istituzioni sindacali e politiche “di regime”, è quel che ha permesso, pur tra contraddizioni e limiti, la vittoria del 2013 con il rientro in fabbrica della gran parte dei lavoratori.
Qui entra in gioco una seconda costante ed un secondo insegnamento: un “soviet” senza un Partito che sia in grado di abbracciarne l’esperienza e sviluppare una linea politica rivoluzionaria (come abbiamo visto nella storia del movimento operaio) ha vita breve.
Il passo successivo, risolta e pacificata (in parte) la situazione economica, doveva essere rivolto (come ad inizio 900) verso le istituzioni politiche sestesi, con l’imposizione di un Sindaco dei Lavoratori che sancisse l’unità delle masse popolari attorno ai simboli delle conquiste popolari (lavoro, scuola, sanità,ecc.) in modo da preservare così anche la fabbrica stessa da futuri tentativi di assalto padronale.
Questo non è avvenuto sia per la difficoltà dei lavoratori a mantenere a lungo un assetto “emergenziale” soprattutto quando la prima emergenza (il rientro in fabbrica) è conclusa, sia perché il M5S si è dimostrato un partito populista in cerca di voti ma non in grado di svolgere la funzione di partito delle organizzazioni operaie e popolari. Ciò nonostante, quella eredità di lotta vittoriosa ha portato pochi anni dopo all’ elezione di Lorenzo Falchi, sindaco di Sinistra in contrapposizione al PD renziano.
Questo a dimostrazione che la memoria delle classi popolari si mantiene viva nel tempo e si alimenta dei successi ottenuti. Abbiamo imparato (come classe) che certe conquiste non sono date per sempre, ma quando è necessario siamo pronti a combattere e, a determinate condizioni, anche a vincere contro avversari che sembrano invincibili. Concludo con una citazione del presidente Mao: “chi dispone di forze esigue, ma è legato al popolo, è forte; chi dispone di forze ingenti ma è contro il popolo, è debole”. Buon Primo Maggio.
Interviene Simone Pinelli
Simone Pinelli del Cartonificio è di Calenzano, comune che sta tra Sesto e Prato. Babini ricorda come anche qui il legame tra classe operaia e movimento comunista ha assunto dimensioni che sono andate ben oltre questo territorio. Qui venne Don Milani, uno di quegli uomini di chiesa che ognuno a suo modo intesero porre argine all’organizzarsi della classe operaia nel movimento comunista lungo tutto il Novecento, quali, a Firenze, Don Facibeni a inizio secolo, La Pira contemporaneo di Milani, e a fine secolo padre Balducci, che ebbe un ruolo nel gestire il processo detto della dissociazione di Prima Linea, una delle Organizzazioni Comuniste Combattenti degli anni ’70. Milani parlava proprio a un operaio comunista di Calenzano dicendogli: “Quando prenderete il potere io sarò sempre dalla parte degli ultimi”, spacciando la rivoluzione comunista come una ripetizione della divisione in classi dove i nuovi dominanti sarebbero stati gli uomini di partito e dove i poveri avrebbero continuato a esistere. [6]
La storia e la memoria restano, dice Simone Pinelli ricordando come in famiglia sua si svegliavano con le sirene della Ginori. Lui stesso del resto era figlio di un’operaia Ginori. Riconosce il legame storico della classe operaia con il movimento comunista sestese, ma non solo con il PSI prima e il PCI poi, ma anche con formazioni a sinistra del PCI, quali ad esempio prima il Psiup, ieri DP, e oggi Sinistra Italiana che amministra il Comune. A Sesto i comunisti dal dopoguerra in poi non sono mai andati sotto il 70 %.
Anche il Cartonificio, ricorda, è centenario. Prima si chiamava Torrigiani e poi produsse le marmellate per Arrigoni che, ricorda, fu marito di Teresa Mattei, una delle donne del PCI nella Costituente. A questo Babini aggiungerà che Arrigoni era anche responsabile regionale del PCI durante la Resistenza e che Teresa Mattei, oltre a essere quella che insieme a Teresa Noce indicò la mimosa come fiore per la Festa della Donna, fu anche nella squadra che includeva Bruno Fanciullacci ed Elio Chianesi, e che il 14 aprile 1944 eseguì la sentenza di morte decretata dal Partito nei confronti di Giovanni Gentile,
Simone Pinelli parla della lotta che ha impedito lo spostamento del Cartonificio ad Altopascio. Spiega che vogliono chiudere lo stabilimento a Sesto per il valore che ha la superficie edificabile, quindi per speculazione edilizia (le stesse motivazioni per cui dieci anni fa volevano chiudere la Ginori, ricorda Battolla)
La lotta ha vinto, dice Pinelli, pure se la vittoria non è definitiva. Il principio affermato è che le fabbriche sono patrimonio dei territori, e non solo dei proprietari. Sono state importanti le risposte dall’amministrazione comunale e regionale. Lui è della Cgil e spiega che esserci è importante per il peso che questo sindacato mantiene e per le adesioni di massa che raccoglie.
L’intervento di Francesco di Iorio
La sostanza dell’intervento del compagno, operaio della Gkn e attivo nel Consiglio di Fabbrica, oltre che nel Centro Sociale Camilo 100Fuegos a Campi Bisenzio, è la critica del fatto che quando le lotte operaie sono riuscite a mantenere le fabbriche aperte comunque è stato per farle passare da padrone a padrone, e sempre a padroni che le hanno tenute usando soldi pubblici. La cooperativa è un’alternativa a questo corso. È questo il modo in cui gli operai si appropriano dell’azienda. Gli operai Gkn, che sono in lotta da ventuno mesi, non hanno delegato a nessuno il proprio destino né intendono farlo in futuro, e la cooperativa è la soluzione all’orizzonte.
Fabio Gambone conclude
I modi di salvare un’azienda sono più d’uno e più precisamente quelli elencati da Fabio Gambone sono quattro.[7]. Uno è la cooperativa, di cui parla Francesco Di Iorio. Come detto sopra, una cooperativa però deve adeguarsi al contesto esterno, dove sono sempre le leggi del modo di produzione capitalista che valgono. Cita il caso della Coop Megaride di Napoli, autogestita dai lavoratori che occuparono l’azienda. Il lavoro è stato mantenuto pure se i lavoratori da 60 sono diventati 30, ma il problema è che il mercato ha costretto l’azienda ad adeguarsi alle relazioni di lavoro imposte in qualsiasi altra azienda capitalistica.
Il compagno ribadisce il fattore essenziale: l’unità di classe operaia e partito (un partito adeguato ai suoi compiti) è la chiave del successo. Lo si vede in positivo nella grande storia del primo Pci nato dopo l’occupazione delle fabbriche del Biennio Rosso, lo si vede in negativo dopo il 2013 a Sesto, con il gruppo Cobas che si è dissolto a fronte della mancanza di una linea adeguata e di una organizzazione che in quella circostanza e in quel luogo la attuasse.
Oggi, concludiamo, le premesse per il successo sono più fondate. L’esperienza ci ha fatto crescere e con maggiore forza e convinzione ribadiamo che la soluzione presente è la creazione di un governo di emergenza, un Governo di Blocco Popolare, nella via per fare dell’Italia un nuovo paese socialista, dove la classe operaia, con il suo Partito e il suo Stato, deciderà cosa produrre, e quanto e come.
[1] Il documento è a disposizione in Pdf al costo di 5 € e si può richiedere allo Studio Labriola (al numero 3314381531) o al Partito dei Carc a federazionetoscana@gmail.com, o direttamente al responsabile per la federazione del Lavoro Operaio e sindacale al numero 3392834775, on line o in formato cartaceo.
[2] Polistampa, Firenze, 1995,
[3] Vedi La Voce del (nuovo)Pci, in http://www.nuovopci.it/voce/voce72/indvo72.html.
[4] Effettivamente Giovanni Calvino (Ginevra, 1509 – 1564) fornì alla borghesia nascente una religione secondo cui il favore di Dio verso l’individuo si manifestava nel suo arricchirsi. Il ricco era in grazia di Dio e quindi destinato al paradiso, il povero no e quindi destinato all’inferno. Essendo infinita la grazia di Dio, infinito avrebbe dovuto essere anche l’arricchirsi, “legge naturale, la quale non consente il perpetuarsi di certi fenomeni economici”, diceva Lorenzini, intendendo per fenomeno economico, appunto, la caduta del saggio di profitto.
[5] Vangelista editore, Milano, 1978.
[6] Ai poveri interessa smettere di esserlo, e non che un ricco o un prete stiano dalla sua parte (Don Milani era tutte e due le cose). Nonostante lo sforzo di Milani e il fatto che ancora oggi incanti una parte delle masse popolari inclusi parecchi che si sentono comunisti, la Chiesa arranca, e oggi Bergoglio si lamenta del fatto che “i comunisti ci hanno tolto la bandiera dei poveri”. Antonio Gramsci inizia i suoi Quaderni del carcere, (la Nota 1 del Quaderno 1, ripresa nella Nota 3 del Quaderno 20), proprio su questo argomento di cui stiamo parlando. “Sulla povertà, il cattolicismo e la gerarchia ecclesiastica. In un libretto su Ouvriers et Patrons (memoria premiata nel 1906 dall’Accademia di Scienze morali e politiche di Parigi) è riferita la risposta data da un operaio cattolico francese all’autore dell’obbiezione mossagli che, secondo le parole di Gesù riportate da un Evangelo, ci devono essere sempre ricchi e poveri: «ebbene, lasceremo almeno due poveri perché Gesù non abbia ad aver torto».”
[7] Sono illustrati in La Voce del (nuovo)Pci, n. 44, del luglio 2013, data in cui si era conclusa la lotta degli operai Ginori per mantenere aperta la fabbrica. (vedi in http://www.nuovopci.it/voce/voce44/mobilita.html)