Danilo, ci racconti brevemente come sei arrivato alla Breda Termomeccanica?
Nel 1974, a sedici anni, sono stato assunto in un’impresa edile come fattorino. Ci ho lavorato per cinque anni. Finita la scuola serale, siccome avevo del tempo libero, ho cominciato a interessarmi al sindacato e ho chiesto di fare il delegato sul mio posto di lavoro (Edili Cisl).
Eravamo 300 operai e 55 impiegati e nessuno di questi ultimi era iscritto al sindacato. Così sono stato nominato delegato degli operai, ma gli impiegati con i quali lavoravo erano contrari. Quando andavo nei cantieri portavo i volantini agli operai. Ricordo la prima manifestazione nazionale degli edili: era il 1977 e io assieme a otto operai siamo andati fino a Napoli. Per me, che venivo da un ambiente cattolico, la Cisl era il sindacato di riferimento. Ho fatto il delegato per un po’ di anni: facevo accordi per gli indumenti di lavoro, per le misure anti infortunio, per la mensa.
A un certo punto, però, ho deciso di andare a lavorare in fabbrica e nel 1980 sono entrato alla Breda Termomeccanica.
Là c’erano più di 1.200 dipendenti. Già allora si lavorava sul nucleare e per questo motivo il numero di impiegati tecnici era molto elevato.
Quando sono arrivato io la produzione era divisa in due parti: si producevano generatori sia per le centrali convenzionali (elettriche, idroelettriche, a carbone e a gas) che nucleari, per l’Italia e per l’estero. La Breda era a partecipazione statale, lavorava per l’Enel. Nel reparto nucleare, costruito nel 1968, lavoravano circa 50 operai turnisti con varie mansioni. Io stavo nel reparto serpentine per i sistemi di raffreddamento delle centrali convenzionali.
Ti racconto una cosa interessante di cui sono stato testimone. Nel 1980 si progettò un prototipo di centrale solare, su commissione di Enel, a cui ho lavorato come aiutante. Il progetto, eseguito nel giro di un mese, era destinato ad Adrano, in Sicilia. Si trattava della prima centrale solare sperimentale. Fu installata, provata, inaugurata e… dopo sole due settimane chiusa e abbandonata!
Nel 1981 Breda Termomeccanica è diventata Ansaldo. Nel frattempo io ero entrato nel Consiglio di Fabbrica. Non era un bel periodo. La chiusura della lotta alla Fiat con la messa in cassa integrazione di 24.000 lavoratori ha segnato l’inizio di una ristrutturazione gigantesca in tutte le aziende industriali, grandi e piccole, che ha stravolto i rapporti di forza nel mondo del lavoro. Inoltre, la presenza della lotta armata ha inasprito i rapporti sui luoghi di lavoro e negli ambienti sindacali e politici.
Facciamo un passo indietro. Quando lavoravi nell’edilizia cosa ti ha spinto ad entrare a far parte del sindacato e ad organizzare gli operai?
Mia madre era operaia, quello era il mio ambiente. A differenza di qualche operaio che diceva che dovevamo ringraziare il padrone che ci faceva lavorare, io sostenevo che era il padrone a doverci ringraziare dato che lo facevamo diventare ricco. Mi spinse la consapevolezza della condizione di operaio più che la politica.
Quando sei entrato nel sindacato, quali mobilitazioni avete promosso? Vi siete legati ad altre realtà?
Legarci ad altre realtà al tempo non era immaginabile. Io e un altro operaio ci siamo detti che bisognava mettere assieme tutti se volevamo fare qualcosa. Con la scusa che io giravo i cantieri per lavoro abbiamo cominciato a veicolare le informazioni, a fare assemblee (mai tenute prima) e poi gli scioperi per il contratto nazionale, cosa inusuale per la categoria degli edili.
Quale fu la risposta degli operai?
L’impresa era molto grossa. In ogni cantiere situato tra Milano e Monza lavoravano in media 25 operai. Nonostante la difficoltà a mantenere i contatti, gli operai rispondevano, o almeno una buona parte di loro. Ci siamo organizzati e abbiamo ottenuto cose importanti e necessarie, in particolare per quello che riguardava la sicurezza nei cantieri.
Vi occupavate solo di questione lavorative?
Sì. Seguivamo gli operai per le questioni relative ai contratti. La cassa edile era complicata, c’era un sacco di burocrazia, di leggi. Alcuni operai erano comunisti o socialisti, ma sul lavoro non si discuteva molto.
Eri impegnato politicamente in altre situazioni?
Seguivo un gruppo di studenti delle superiori a Monza. Quello che ha segnato la mia vita politica fu il rapimento di Moro: negli uffici c’era costernazione, nessuno voleva fare sciopero e io sono andato a Milano da solo. Poi, alcuni giorni dopo, furono uccisi Fausto e Iaio, due ragazzi del Centro Sociale Leoncavallo: questi fatti furono importanti per me, per raggiungere una maggiore consapevolezza del mondo…
Torniamo a quando sei entrato alla Breda nel 1980. Per quanto riguarda l’organizzazione politica e sindacale che situazione hai trovato?
Dal punto di vista sindacale c’era un Consiglio di Fabbrica di 44 operai, con un esecutivo di 9 operai. Ogni reparto aveva i suoi delegati. Il tasso di sindacalizzazione era altissimo. All’inizio ero delegato di reparto insieme a un operaio del Pci, ho imparato molto da lui, anche se litigavamo spesso. Io ero iscritto alla Film Cisl e lui alla Cgil. Da qui ho cominciato a seguire di più. Poi nel 1980 c’è stata la vicenda Fiat, abbiamo fatto picchetti, scioperi. I Consigli di Fabbrica promuovevamo molte assemblee e venivano fuori scontri feroci tra chi sosteneva che era giusto l’accordo e chi no. La posizione sindacale era chiara: si doveva fare l’accordo punto e basta. È stato un momento pesante. Inoltre a Sesto San Giovanni in quel periodo ci sono stati due dirigenti sindacali uccisi dalle Brigate Rosse. In fabbrica girava la voce, c’era la convinzione, che chi non era nel Partito era un terrorista o stava dalla parte dei terroristi.
Ho conosciuto un ragazzo (aveva la mia età) che lavorava all’Italtrafo, una fabbrica del viale: mi ha agganciato e mi ha chiesto informazioni sul reparto e io gli ho raccontato dei piani di ristrutturazione aziendale, cose che la Direzione spiegava ai sindacati, nelle riunioni ufficiali. Poco dopo è uscito un volantino delle Brigate Rosse dove venivano riportate le cose che avevo detto. Per questo penso che qualcuno avesse dei dubbi su di me, ma non ebbi problemi. Seppi poi che questo ragazzo era stato arrestato.
Torniamo al CdF della Breda Termomeccanica. Che peso aveva in fabbrica?
Sulle condizioni di lavoro, salario, orari, sicurezza o salute aveva un peso enorme. C’era una situazione particolare, anche perché era una fabbrica a partecipazione statale. Ogni vertenza finiva con un accordo, si tendeva a risolvere le situazioni. Questo fino a quando i rapporti di forza sono stati favorevoli, poi tutto è diventato più difficile.
Quando nel 1990 venne fuori la questione dell’amianto, abbiamo fatto delle ricerche per vedere cosa era stato fatto in passato. Abbiamo trovato dei documenti dei CdF che già dalla fine degli anni Settanta denunciavano la questione amianto. Ma, a differenza di altri lavori nocivi, sulla questione amianto non abbiamo trovato altro e la cosa ci sembrò strana. Con il senno di poi e conoscendo la vicenda della Breda Fucine del reparto di Michele Michelino, la cosa ci è apparsa più chiara: penso che nel sindacato qualcuno fosse consapevole della portata della questione amianto-salute e del peso enorme che poteva avere sulle aziende.
Com’era organizzato il CdF alla Breda?
In fabbrica la Fiom aveva la maggioranza del CdF e dell’esecutivo, poi c’era la componente Film Cisl, che era un sindacato più che dignitoso, fatto principalmente di impiegati, persone preparate, compagni.
Tutto quello che succedeva in fabbrica passava attraverso il sindacato. Il meccanismo della delega era stringente: hai un problema, parla con il delegato…
Ho conosciuto Sandro Artioli, anche lui delegato Flm: aveva organizzato un foglio sull’organizzazione operaia che faceva girare in reparto. Ogni quindici giorni c’erano degli incontri con operai e anche con impiegati. Una volta mi ha invitato e allora ho cominciato a partecipare. A poco a poco ci siamo allargati, abbiamo fatto girare le informazioni anche in altri reparti e abbiamo messo su il gruppo “Cronache dal basso”. Questo ha dato vita a una situazione molto conflittuale con il CdF, perché non esisteva l’idea che i lavoratori potessero esprimersi attraverso qualcosa di diverso dal sindacato ufficiale. Se avevi un problema andavi dal sindacato e aspettavi.
Noi non eravamo così, pensavamo che i lavoratori dovessero esprimersi, ragionare e non essere chiamati solo per votare con un sì o un no oppure per farsi la tessera. Era importante la partecipazione attiva degli operai alla vita sindacale. Questo era fondamentale per noi, perché il rapporto di lavoro è un conflitto ed è importante essere organizzati, uniti e in tanti.
Noi non eravamo un sindacato o un Comitato Unitario di Base, ma rivendicavamo il fatto che il CdF fosse il nostro organismo, un organismo degli operai controllato dagli operai.
Avevate legami con il territorio e con altre realtà operaie? Esisteva un coordinamento?
Tieni conto che Film, Fiom e Uilm erano organizzazioni enormi. Si facevano molte iniziative, oltre alle questioni prettamente di fabbrica. Ricordo, in particolare, la proiezione di un documentario intervista sulla situazione in Salvador nel 1980-1981. Tutto però passava attraverso i canali ufficiali.
A Sesto c’erano anche altre organizzazioni come, ad esempio, Democrazia Proletaria che organizzava assemblee tra lavoratori di varie fabbriche. Ma i collegamenti tra le fabbriche li teneva il sindacato.
E sulle questioni della casa, della scuola o della sanità come eravate organizzati?
Per quella che è stata la mia esperienza, era il sindacato che interveniva e organizzava.
Attraverso contatti personali abbiamo conosciuto operai dell’Alfa Romeo e alcuni compagni dei Comitati di Base dell’Alfa e di altre fabbriche. Ma non abbiamo mai organizzato nulla fino al 1993.
Quanto era indipendente il Consiglio di Fabbrica dal sindacato?
Devi tenere presente il contesto. Nel 1980 è cominciata la vicenda Fiat e nel 1981 noi abbiamo cominciato la cassa integrazione: su 2.200 lavoratori oltre 500 erano in cassa integrazione. La situazione è diventata pesante e ci siamo concentrati completamente sulla difesa del posto di lavoro e alla fine l’attività sindacale si è ridotta a questo. Tutto ciò che era oltre la fabbrica è passato in secondo piano.
Come “Cronache dal basso” abbiamo organizzato il comitato dei cassaintegrati. Rivendicavamo il diritto a entrare tutti i giorni in fabbrica, ad accedere alle assemblee, a usufruire della mensa. I mesi di Cig li abbiamo passati in fabbrica.
Poi nel 1991, dopo una serie di cicli di cassa integrazione (circa dieci anni), il sindacato ha stretto un accordo nazionale firmato dai sindacati locali (non quelli di Sesto) che prevedeva: la chiusura di alcuni stabilimenti produttivi tra cui la Breda; il trasferimento delle attività nucleari su Genova, all’Ansaldo Energia; il ricollocamento di 500 lavoratori alla Franco Tosi di Legnano e di altri 150-200 operai alla Rai, alla Scala e alla Sip e altre aziende a partecipazione statale; la cassa integrazione sine die per circa 50 operai. Pochi altri, circa 80 tra operai e impiegati, restavano dentro per finire i pezzi, fino al trasferimento totale a Genova.
Fino al 1993 abbiamo passato anni a intentare cause per essere reintegrati; nel frattempo è subentrata la riforma della Cig ed è stata introdotta la mobilità nei licenziamenti collettivi. La situazione sindacale peggiorava, chiudevano le fabbriche, migliaia di lavoratori venivano messi in cassa integrazione e nel 1992 ci fu l’accordo di concertazione.
È stato su spinta del Comitato di Base dell’Alfa Romeo che, nel 1993, abbiamo costituito un’organizzazione che poi l’anno successivo ha preso il nome di Slai Cobas. Questa organizzazione rispondeva all’idea che avevamo di partecipazione e organizzazione degli operai, di contrasto alla delega.
Che attività avete portato avanti come Slai Cobas?
Quando Ansaldo ha deciso di mantenere aperto il reparto nucleare abbiamo fatto causa per essere riammessi nella sede di Legnano, ma solo due delegati sono stati riammessi. Noi siamo rientrati a lavorare a Milano, sempre nel nucleare. Lavoravamo per altri paesi europei, alla fine degli anni Novanta l’azienda ha vinto una grossa commessa con gli Stati Uniti, per la General Eletrics.
Ansaldo ha venduto lo stabilimento di Milano a un privato, Camozzi, nel 2001, e nel giro di due anni siamo arrivati ad essere 210 operai. Per la vicenda dell’amianto metà degli operai sono andati in pensione tra il 1999 e il 2000. Sono stati assunti tanti ragazzi giovani e la fabbrica ha proprio cambiato volto. Noi operai più vecchi, insieme ai nuovi, abbiamo ripreso a fare sindacato. Nel 2007 finite le commesse nucleari americane la proprietà ha venduto a Mangiarotti, un gruppo industriale-finanziario che possedeva uno stabilimento in provincia di Udine, specializzato nel prendere aziende vecchie per ristrutturarle e poi rivenderle. Hanno fatto la stessa cosa con Ansaldo nucleare, spostando tutta la produzione a Monfalcone.
Con lo Slai Cobas abbiamo continuato a fare attività di Consiglio di Fabbrica. Nonostante avessimo il 35-40% dei voti avevamo il 5% dei delegati, questo grazie all’accordo dei sindacati federali sulle Rsu.
La nostra attività si concentrava sulle condizioni di lavoro, sui turni del sabato ad esempio, e sulle nuove assunzioni dato che il lavoro aumentava. Con l’arrivo di Mangiarotti la situazione è cambiata: si prospettava la chiusura e offrivano buone uscite per mandare a casa gli operai e svuotare la fabbrica. Noi ci organizzavamo con il lavoratori delle fabbriche del viale: Marcegaglia e Fucine.
Di fronte alla prospettiva della chiusura cosa avete fatto?
Ci siamo organizzati internamente facendo intendere ai sindacati che le decisioni dovevano passare dal Consiglio di Fabbrica perché le Rsu erano espressione della volontà degli operai, che decidevano in assemblea.
Da subito fu chiara la volontà dei padroni di chiudere la fabbrica. Con i finanziamenti pubblici della Regione Friuli Venezia Giulia comprarono un terreno nel porto di Monfalcone e vi fecero costruire una fabbrica che era la copia esatta del reparto nucleare della Breda-Ansaldo di Sesto San Giovanni. Durante uno dei primi incontri sindacali, uno dei padroni a fronte delle nostre proteste ci disse: “voi uscirete da qui, con la testa bassa e un calcio nei coglioni…”.
Noi demmo vita a un presidio, appoggiato dai sindacati e dai partiti della sinistra di Sesto San Giovanni e Milano, il 19 dicembre 2009. Nel dicembre 2010, dopo un anno di lotte, giungemmo a un accordo sindacale (approvato dall’assemblea) per salvare un presidio produttivo e gli uffici, mantenendoli a Milano.
Tutti gli altri operai sarebbero stati licenziati con un’integrazione al reddito fino a un nuovo lavoro o alla pensione per i più vecchi. In seguito, la Direzione ha chiuso tutto e trasferito ciò che restava a Monfalcone.
Come ho detto ai miei compagni è stata una sconfitta perché siamo stati licenziati, ma quello che abbiamo ottenuto è stato il risultato della nostra lotta e dell’essere rimasti uniti sino alla fine. Nessuno ci ha fatto regali.