Lavoro per i servizi sociali del Comune di Bologna, in particolare in uno dei servizi esternalizzati. Negli ultimi anni si è creato un clima di malcontento tra i lavoratori perché le condizioni di lavoro sono peggiorate soprattutto in seguito ad alcune misure che incidono molto sulla nostra vita lavorativa: misure imposte in un clima sempre più autoritario, senza dialogo tra i lavoratori e i responsabili. La mia è una cooperativa che diventa sempre di più azienda, ma che ci lascia vivere con stipendi da fame. Nell’esperienza che vivo sul mio posto di lavoro incontro degli ostacoli oggettivi. Lavorando sul territorio, siamo frammentate e ci rapportiamo con “la capa” via telefono; ognuna si relaziona individualmente, come è abituata a fare, perciò siamo deboli e soggette a ricatti o a scambi di favore che favoriscono la frammentazione. Nel gruppo di lavoro ci sono prevalentemente donne, spesso straniere e provenienti dai paesi ex socialisti e dal Perù, che vivono la doppia oppressione e il cui salario va a integrare quello familiare. Siamo divise tra i diversi sindacati, per lo più quelli confederali, che agiscono a protezione di singoli, favorendo l’atomizzazione dei lavoratori. Le soluzioni collettive non sono contemplate, perché significherebbe fare davvero gli interessi dei lavoratori e mettere in discussione la funzione stessa del sindacato. Il risultato è una costante tendenza alla guerra tra poveri, che è la grande arma dell’azienda e che crea falsi favoritismi oppure vere e proprie punizioni. La guerra tra poveri è un problema, ci divide, ci toglie forza ed è difficile da superare senza un cambiamento reale, di prospettiva e di progetto. (…) Ho cercato di creare un gruppo partendo dal malcontento. Ho incalzato spesso sulla questione del salario e del carovita. Successivamente ho provato a promuovere l’iniziativa dei sindacati di base per creare una mobilitazione in vista del rinnovo del Ccnl. Parallelamente, ho fatto inchiesta individuando i gruppi già formati sulla base di rapporti personali e mi sono avvicinata alle colleghe che avversavano di più l’azienda come atteggiamento e pensiero. Successivamente è esplosa la questione delle ferie estive, imposte con il criterio dell’ordine alfabetico. Questa cosa ha fatto esplodere la rabbia. Da qui abbiamo iniziato a fare gruppo, ci siamo dette che per contrastare l’imposizione dovevamo vederci in primo luogo noi, che eravamo contrarie, coinvolgendo anche le colleghe degli altri quartieri. Ad una prima assemblea ci siamo ritrovate in cinque e abbiamo deciso di fare inchiesta sulle posizioni dei diversi sindacati. Dopo poco l’azienda ci ha comunicato di aver ritirato la decisione di imporre le ferie: una prima vittoria che ci ha unite e reso più forti. Abbiamo continuato a vederci per affrontare tutti gli altri problemi. Abbiamo deciso di consultarci con i sindacati per fare un’assemblea sindacale retribuita aperta, indetta da più sigle, abbiamo diffuso via telefono un volantino, rivendicando l’esistenza del gruppo e invitando a partecipare all’assemblea. Risultato? All’assemblea eravamo in quindici, con la presenza di due sindacati che hanno partecipato per ascoltare le nostre denunce. Con la creazione del gruppo ci sono state tante novità e riflessioni che ho dovuto fare. Tra queste il fatto che non basta partire dalle necessità e cercare risposte all’esterno, come fosse una cosa meccanica. La vera forza sta in un cambiamento interno ad ogni componente del gruppo e dentro il gruppo stesso. Un cambiamento inteso come presa di coscienza del fatto che siamo noi lavoratori ad avere il potere di cambiare la situazione e ribaltare i discorsi. Questa è stata una scoperta illuminante, che mi è arrivata dal Partito. Prendere il telefono e parlare con le colleghe, spiegare loro la situazione, suggerire cosa bisogna fare per raggiungere l’obiettivo fissato, dire che è necessario vedersi e incontrarsi. Non è una cosa meccanica, tutto è sempre in dialettica. Di fronte a un problema, il vero cambiamento sta nel metodo con cui si affronta il problema, sta nell’inquadrarlo in un percorso di trasformazione collettiva di cui non vediamo ancora la fine. È il piccolo passo che ci rafforza, rafforza noi stessi e di conseguenza tutto il gruppo e che ci rende più capaci di allargarci ad altri. Chiaro che avere un’avanguardia di lotta che faccia da calamita aiuta, attrae, ma non risolve le contraddizioni che questa società produce nelle persone, non le affronta, non le combatte. Il ruolo del comunista è soprattutto quello di seminare coscienza di classe nel cuore delle persone, è trasformare la persona e liberarla dalle contraddizioni. Ogni compagno deve lottare con se stesso, emanciparsi da una personalità che spesso abbiamo adattato per vivere in mezzo alla barbarie prodotta da questa società. Ogni compagno deve sapere che la ragione è dalla sua e sviluppare la capacità di saper trasmettere alle persone che gli stanno attorno questa convinzione, spiegando cosa ognuno può iniziare a fare. Rompere con gli schemi e agire sapendo di aver ragione. Per le donne assumere questo ruolo comporta una doppia fatica.
- I. Cerutti operatrice socio sanitaria di Bologna