Parliamo con Antonio Quintavalle, uno degli storici esponenti del Consiglio di Fabbrica della IRE-Ignis Sud di Napoli, una fabbrica importante del meridione. Per prima cosa, quando sei entrato in Ignis e com’era la situazione?
Io sono entrato in Ignis alla metà degli anni Sessanta, ma non a Napoli perché là il sito era ancora in costruzione. Sono entrato a Cassinetta (VA) e vi ho lavorato per un anno o poco più, come tanti emigranti che andavano a riempire le fabbriche del Nord. Una volta completati i lavori di costruzione delle principali linee del sito di Napoli fui immediatamente trasferito: il mio desiderio di ritornare a Napoli in questo caso coincise con i piani del padrone che voleva espandersi al Sud per allargare la produzione e, naturalmente, pagare meno gli operai.
La fabbrica a Napoli aprì che il sito non era ancora completato: alcuni reparti non erano pronti, ma l’impianto generale e la filiera erano in grado di partire. Cominciammo a produrre lavatrici con carico dall’alto, un prodotto innovativo. Eravamo circa 1.200 dipendenti e riuscivamo a produrre 500-600 lavatrici al giorno, nonostante la filiera fosse ancora poco meccanizzata. Facevamo molto lavoro manuale: dalla lavorazione dei pezzi fino all’assemblaggio il lavoro era ancora prevalentemente manuale. Io ero in smalteria e verniciatura, ma nell’arco degli anni ho girato diversi reparti.
All’epoca non ero ancora sindacalizzato, ma ero comunque “attivo” perché frequentavo un comitato di lotta per il lavoro in zona Miracoli, a Napoli centro. Ci confrontavamo sul rapporto tra fabbrica e territorio, eravamo coscienti che le questioni del lavoro erano strettamente legate alla vita sociale dei quartieri. Ecco perché i rapporti con gli esponenti del sindacato erano assidui. Erano anni di lotte dure sia in fabbrica che in città e a un certo punto ho deciso di iscrivermi al sindacato perché consideravo la linea politica assunta dal comitato estremista: allontanava gli operai più che legarli al territorio. Mi iscrissi quindi alla FIOM. Era il 1967 o il 1968. Erano gli anni in cui le lotte operaie puntavano a unirsi e a farlo non sulla piattaforma più radicale, ma sugli obiettivi più concreti. Obiettivi legati alle condizioni di vita e di lavoro e alla contrattazione nazionale. Perché era per esempio inaccettabile che tra Nord e Sud esistesse disparità salariale a parità di mansione, così come era inaccettabile non essere pagato quando ti mettevi in malattia. Insomma, obiettivi concreti e soprattutto immediatamente raggiungibili, non “la presa del potere” che ci sembrava così distante anche se di prospettiva. Obiettivi che raggiungemmo. Perché le lotte, anche nella diversità tra sindacati, gruppi, organizzazioni politiche della classe lavoratrice e delle masse, erano avvertite come lotte di tutti e per tutti. Le sentivano nostre. Ecco perché ci si mobilitava immediatamente e non solo su ordine della dirigenza. Qualcuno lanciava un appello alla mobilitazione? Gli operai rispondevano! Gli operai chiamavano la piazza, le masse rispondevano! Bastava un cenno e subito si usciva dai cancelli, si bloccava tutto. Ben inteso, non solo scioperi rivendicativi, ma scioperi “politici”. Perché pensavamo che di conquista in conquista saremmo progressivamente avanzati verso il modello di società che volevamo costruire, una società diversa da quella di miseria e sfruttamento che i padroni avevano in serbo per noi. Oggi fa quasi paura, purtroppo sembra “una cosa brutta” lo “sciopero politico”, ma a quel tempo era la parola d’ordine che ci accomunava.
Quindi il coordinamento tra operai di diversi stabilimenti e settori delle masse popolari organizzate era una realtà di fatto e una chiave di mobilitazione?
Certo! Anche perché in quella zona (Napoli est) non c’era solo la Ignis, ma anche la raffineria, l’industria della strada ferrata, i Tabacchi di Stato e tante fabbriche dell’indotto e gli operai quando si faceva uno sciopero uscivano da tutte per confluire. Sembrava ci fosse un tacito e comune accordo. A fare da tramite tra i vari stabilimenti c’erano i rappresentanti sindacali, che organizzavano la mobilitazione per dirigerla verso precisi obiettivi. Le rappresentanze però dovevano rispondere del loro operato alla base operaia. Il rapporto operai-sindacato era un rapporto di direzione, certo, ma non unilaterale. Gli operai contavano, decidevano, facevano e, in alcuni casi, obbligavano i propri rappresentati a fare quello che loro avevano deciso. Era questo che teneva insieme gli stabilimenti della zona: la comunicazione costante tra operai di cui il sindacato si faceva carico. Era il sindacato ad essere al servizio degli operai, non viceversa.
Ricordo che io stesso andavo in altre fabbriche così come operai di altre fabbriche venivano da noi. Ci scambiavamo analisi e opinioni. Condividevamo il da farsi. Ci coordinavamo, insomma. Ecco perché maturavamo quell’unità di intenti che ci ha permesso negli anni di raggiungere i nostri obiettivi.
Quando si costituì il Consiglio di Fabbrica? Come e perché?
Il CdF si è costituito agli inizi degli anni Settanta. Quello “ufficiale”, intendo. Negli anni precedenti era un raggruppamento operaio di fatto. All’interno c’erano anche esponenti del sindacato, ma chi aveva i maggiori contatti con la base operaia erano sempre altri operai, non le rappresentanze sindacali. Il Consiglio di Fabbrica curava i rapporti tra gli operai, tra i reparti e sulle linee. Questo rapporto educava gli operai alla partecipazione organizzata ed educava noi, esponenti del CdF, a diventare dirigenti di fatto di noi stessi e degli altri lavoratori. Il Consiglio di Fabbrica era un’esperienza di crescita collettiva, in questo stava la sua forza. Imparavamo insieme come dovevamo muoverci nei confronti del padrone e anche come regolarci con il sindacato.
Quindi il Consiglio di Fabbrica dettava una linea di condotta anche al sindacato?
Sì, in quel periodo sì. C’erano discussioni continue, non sempre “pacifiche” né semplici. Anche perché alcuni di noi del CdF erano comunque iscritti al sindacato. Il sindacato interveniva “ufficialmente” con dei suoi rappresentanti e spesso ci si trovava di fronte a due linee: una linea di lotta e una linea di mediazione. Alla fine però era il Consiglio di Fabbrica che decideva cosa fare ovvero se accettare le proposte del sindacato o spingere il sindacato a sostenere le linea dettata dal CdF. In generale il sindacato si adeguava perché comunque non poteva contrapporsi agli operai per non perdere la sua base. Alla fine, dunque, la linea di condotta la dettavamo noi.
Da quanti operai era composto il Consiglio di Fabbrica? Che ruolo aveva? Cosa faceva?
Tutti potevano partecipare al Consiglio di Fabbrica. C’erano riunioni dove eravamo diverse centinaia di operai e altre dove i numeri erano minori. I delegati del sindacato erano, invece, ventiquattro su un organico di 800-900 operai. Le cose sono cominciate a cambiare quando l’azienda ha deciso di dislocare l’organico in altri siti o, semplicemente, di ridurlo.
Fino a quando il CdF è stato autorevole aveva il compito e la forza di riportare all’azienda e al sindacato le nostre rimostranze e posizioni. Ad esempio la lotta per l’equiparazione salariale tra Nord e Sud fu imposta al sindacato come vertenza generale del lavoro proprio dal movimento dei Consigli di Fabbrica. Io nel 1965-1966 prendevo meno dei miei stessi compagni di lavoro del Nord. La paga tra Ignis Nord e Ignis Sud era diversa nonostante noi operai facessimo lo stesso lavoro. Il sindacato era timido nell’intraprendere la lotta, pensava che non l’avrebbe spuntata, che il padrone era troppo forte e che, siccome era pure una brava persona e capiva le ragioni degli operai, allora era meglio trattare con lui, strappare dei miglioramenti e degli impegni di prospettiva. Insomma, era per mediare.
Per noi operai le cose non stavano così. Sapevamo che sulle condizioni di vita e di lavoro degli operai, su salari e orari, su contratti e intese tra le parti il padrone fa il suo lavoro, che sia o meno una “brava persona”. Deve tagliare gli stipendi, ridurre gli organici, ridistribuire i carichi di lavoro, ecc. Perché il suo obiettivo resta il guadagno, il profitto, non certo il benessere degli operai. È il suo ruolo questo. Avevamo interessi diversi. Ecco perché non si poteva “trattare” o mediare, ma lottare per strappare quanto più possibile. È sempre una lotta quella tra operai e padroni. Anche quando sembra che ci sia una comunanza di intenti. E lotta fu. Durissima.
Noi prendemmo posizioni nette. Non si capiva perché noi operai del Sud, che facevamo lo stesso lavoro per lo stesso padrone, dovevamo guadagnare di meno. Anzi, in realtà, lo sapevamo il perché: un diverso salario spezzava l’unità della classe operaia e il padrone poteva governarla meglio.
Il sindacato faceva finta di non capire e allora gli imponemmo di mettere a disposizione tutti i suoi mezzi per intestarsi la lotta contro le gabbie salariali. Per una questione di giustizia e dignità. Il CdF aveva decretato che quella era la linea da seguire. Il sindacato aveva due possibilità: o seguire questa indicazione oppure opporsi e schierarsi di fatto con l’azienda, cosa che gli operai non avrebbero capito. Il risultato fu che si aprì la lotta per la parità di salario. E questa fu la base su cui poggiò anche l’istituzione del CCNL, perché una lotta apre a quelle successive. Fermarsi alla conquista di una cosa significava perderla non appena il padrone avesse avuto il tempo di riorganizzarsi, perciò dovevamo spingere e andare sempre avanti.
È questo che fece acquisire al Consiglio di Fabbrica autorevolezza e credibilità tra la larga massa degli operai. Poi, però, non abbiamo saputo riadattare l’identità e il ruolo del Consiglio di Fabbrica a una società che si stava trasformando.
La società si trasformava, è vero. Ma l’esito di quella trasformazione non era scontato, non trovi? La durezza della lotta stava anche in questo, immagino. Quali furono i momenti di maggiore scontro con il padrone? E con le Forze dell’Ordine? Come facevate a fare fronte alla durezza dello scontro e alla repressione?
Erano gli anni Settanta. C’era stato il Sessantotto francese di cui avevamo sentito parlare, ma che, soprattutto, era diventato un Sessantotto tutto italiano, che stava durando anni… Quando allora facevamo sciopero non era come oggi. Lo sciopero era sciopero. Non era la manifestazione, la “camminata” per le strade, magari a Roma. Quando decidevamo di non entrare ci mettevamo davanti alla fabbrica. Nessuno doveva entrare. L’adesione allo sciopero non poteva essere “individuale”, arbitraria, chi sì e chi no per poi calcolare le percentuali di riuscita. Noi picchettavamo gli stabilimenti. Era un’azione di lotta. Chi non era con la lotta, era contro di essa. E non tutti gli operai erano d’accordo sullo sciopero, ovviamente. Lo sciopero significava meno soldi in una busta paga che già era povera. Non era semplice o scontato aderire. Così ogni picchetto era un momento di scontro innanzitutto tra di noi, prima ancora che con il padrone o la Polizia.
Spesso però a ricompattarci erano proprio le Forze dell’Ordine se non addirittura i fascisti. Non dimenticherò mai l’episodio seguente. Era un giorno di gravi tensioni tra noi operai, molti dicevano delle difficoltà familiari, del fatto che lo sciopero non serviva a niente. Discutevamo, camminando verso lo stabilimento, e trovammo ai cancelli due camion pieni di fascisti. Scesero con mazze e bastoni per impedirci di manifestare e obbligare gli operai a entrare. Facevano leva sui crumiri, dicevano di voler garantire il “diritto al lavoro”. Proprio loro, i fascisti. Pagati dai padroni per dare addosso agli operai… A quel punto ci schierammo tutti insieme, compatti. Di fronte a quell’arroganza, anche chi era contrario allo sciopero si schierò con la lotta. Ripenso a quando dicevamo “l’unione fa la forza” … era proprio vero!
Come avete fatto fronte a quella situazione?
Facendo “la forzatura”, capiscimi… Dopo quell’episodio probabilmente la Questura dispose che i fascisti durante le azioni di lotta degli operai Ignis non dovevano più farsi vedere fuori dai cancelli in maniera organizzata. Bisognava evitare altri scontri, ridurre la tensione. Così i fascisti non si presentarono più come tali, ma intervenivano direttamente nelle assemblee operaie in cui bisognava decidere degli scioperi successivi, portando in esse una linea di resa. Capitò diverse volte. Erano militanti del MSI che si spacciavano per esponenti dei Consigli di Fabbrica di altri stabilimenti. Ma il PCI ci aveva messo in guardia e ce li aveva segnalati preventivamente. Così, dopo due o tre volte – il tempo di inquadrarli – li cacciammo dalle assemblee e diffondemmo tra la base operaia la segnalazione e l’indicazione di non dare credito a questi provocatori infiltrati.
Il tentativo di reprimere la lotta quindi si muoveva su diverse gambe: il ricatto padronale, la Polizia, i fascisti infiltrati. Ma l’effetto di quei tentativi era sempre lo stesso: più ci attaccavano, più noi ci compattavamo, diventavamo forti e superavamo le divergenze interne. Perché gli operai eravamo noi, non loro! Gli interessi erano i nostri, non i loro!
E il momento di maggiore tensione con la proprietà, a tua memoria, qual è stato?
Ti ho raccontato della grande lotta per la parità salariale. A un certo punto, il padrone della Ignis voleva chiudere il sito di Napoli. Diceva che c’era un contesto sociale che non gli permetteva di lavorare bene, con serenità. La verità è che quella lotta stava crescendo e i piani della proprietà di poter gestire la situazione erano saltati. Di qui la minaccia di chiusura. Rispondemmo con l’occupazione della fabbrica.
Raccontaci dell’occupazione.
Si è trattato di due occupazioni diverse, in verità. A breve distanza tra loro. La prima volta abbiamo occupato per quasi venti giorni. Dormivamo in fabbrica, chiaramente, e grande fu la solidarietà del quartiere e degli operai degli altri stabilimenti che ci portavano da mangiare e tutto quello di cui avevamo bisogno. Nel frattempo il PCI e il sindacato lavoravano a una mediazione per dare uno sbocco alla vicenda. La fabbrica riaprì. Il rischio chiusura era stato scongiurato. La cosa interessante è che durante l’occupazione le più presenti furono proprio le famiglie che tanti pensieri davano agli operai più restii alla lotta, dimostrando così che i timori di questi operai erano inutili e che la lotta era la strada giusta per tutti.
La seconda occupazione fu più breve e su obiettivi generali. Non ci mobilitavamo solo su questioni interne alla fabbrica, ma partecipavamo alla mobilitazione generale in atto nel Paese. La lotta era di tutti e per tutti.
Poi ci fu il cambiamento societario, la ristrutturazione d’azienda e il riassorbimento integrale del corpo operaio: la Ignis Sud divenne prima IRE (Industrie Riunite Elettrodomestici) e poi Philips, marchio sotto il quale lavorammo per cinque o sei anni. E lavorammo bene. Sia per condizioni economiche che per tipo di produzione. C’era richiesta e lavoro. Avevamo, nel frattempo, raggiunto i nostri obiettivi di equiparazione salariale e così anche la lotta andò progressivamente scemando. Meno scioperi, meno disponibilità alla mobilitazione. Lavoravamo con una normalità che non avevamo mai avuto prima, con dei diritti mai avuti prima. In un certo senso, ci acquietammo.
E quindi?
E quindi cominciò il problema, anzi diversi problemi. Uno particolarmente grosso, quello dell’assenteismo, si determinò proprio perché, paradossalmente, avevamo vinto la battaglia della garanzia contrattuale del lavoro e dell’equiparazione salariale. La percentuale media di assenteisti si aggirava in quegli anni attorno al 30%. Diversi operai, per “arrotondare”, si assentavano dal posto di lavoro per farne un secondo. Tanto che il Consiglio di Fabbrica e poi il sindacato si trovavano nella difficoltà di dover contattare gli assenteisti per riportarli al lavoro in fabbrica quasi prendendo le parti dell’azienda. Perché era una questione di serietà nei confronti dell’azienda a cui avevamo strappato la stabilizzazione contrattuale e l’equiparazione dei salari. Noi operai ora dovevamo fare la nostra parte. Perché gli operai non rubano il salario. Non campano sul lavoro degli altri. Il padrone lo fa, non noi.
Il punto è che con Philips avevamo raggiunto garanzie di copertura salariale della malattia e gli operai avevano cominciato ad abusarne. Lavoravano tre giorni a settimana e due li prendevano di malattia, quasi a rotazione tra di loro. Nel frattempo il mercato tirava. Philips, per soddisfare le richieste di mercato, era costretta a esternalizzare parte della produzione ad altre ditte, con relativi aumenti dei costi di produzione. La “rilassatezza” degli operai e l’esternalizzazione della produzione metteva nuovamente a rischio la fabbrica per la quale avevamo lottato. La situazione tenne solo perché i margini di profitto dell’azienda restavano alti, dato che la produzione veniva assorbita dal mercato e c’erano grandi commesse. Era la fine degli anni Settanta e tutti volevano gli elettrodomestici a casa: la lavatrice era diventata un bene irrinunciabile per le famiglie italiane.
Per senso di responsabilità il Consiglio di Fabbrica, questa volta d’accordo con il sindacato, decise che quell’andazzo doveva finire. L’assenteismo non era più tollerabile ed era anche colpa nostra perché per diverso tempo l’avevamo coperto. La contraddizione tra l’assenteismo da una parte e il tanto lavoro dall’altra aveva determinato una situazione per la quale la ridistribuzione dei carichi di lavoro pesava sugli operai: l’azienda aveva infatti imposto gli straordinari per mantenere i livelli produttivi. Io stesso ho lavorato anche dodici ore al giorno in alcuni periodi. Quella dello straordinario obbligatorio era diventata la nuova arma dei padroni contro gli operai, ma eravamo stati proprio noi operai a fornirgliela. Così, siccome l’azienda pensava di stabilizzare un regime produttivo che prevedeva lo straordinario forzato, istituimmo la Commissione operaia Tempi e Metodi per cercare soluzioni diverse da quelle che individuavano i padroni e, al tempo stesso, porre rimedio alla situazione. L’obiettivo era sì quello di mantenere e raggiungere gli obiettivi produttivi fissati dall’azienda – temevamo che il mancato raggiungimento degli obiettivi mettesse a rischio la tenuta stessa del sito – ma di farlo con criteri e un’organizzazione determinati da noi operai. Io stesso ho fatto parte della Commissione.
La situazione alla fine rientrò. Gli operai, un po’ perché convinti e un po’ perché “minacciati” dal Consiglio di Fabbrica, abbandonarono la pratica dell’assenteismo. Tanto più che la Philips si associava agli americani di Whirlpool: un cambiamento societario non traumatico, ma che costituiva pur sempre un’incognita per noi operai. Anche sul processo di meccanizzazione degli impianti introdotto dagli americani la Commissione assunse un ruolo di controllo e confronto con i tecnici dell’azienda per verificare i nuovi impianti e i tempi di produzione. È così che arrivammo agli anni Ottanta.
Facciamo un passo indietro. Il CdF – dicevi – non era attivo solo nella fabbrica, giusto? Puoi farci alcuni esempi di come interveniva all’esterno, rispetto ad altre fabbriche e al territorio? Immagino che la tanta solidarietà popolare attorno alla vostra lotta dipendesse anche da questo…
Certamente. Noi operai Ignis Sud eravamo noti per promuovere la partecipazione e per partecipare noi stessi alle lotte e alle mobilitazioni anche fuori dalla nostra fabbrica, anche per cose che non ci riguardavano direttamente. Mi ricordo di una fabbrica a san Giovanni a Teduccio… era una fabbrica abbastanza piccola, ma in stato di agitazione. Quando decisero l’occupazione il nostro Consiglio di Fabbrica decise di sostenerla e così uscimmo dai nostri cancelli e ci dirigemmo là. Questa era la sensibilità condivisa di una classe operaia che si sentiva unita.
Stai parlando di quel 1° luglio del 1980, quando voi operai della Ignis andaste in corteo in un’altra fabbrica della zona che nei giorni precedenti era stata occupata degli operai e poi sgomberata dalla Polizia?
Esattamente. Uscimmo in corteo, arrivammo a questa fabbrica, forzammo i cordoni di Polizia e la “restituimmo” agli operai che erano stati sgomberati. Dicemmo loro di non mollare, di riprendere la lotta.
Naturalmente lo scontro con la Polizia non fu così semplice. Noi spingevamo, ma loro, i poliziotti, ci caricarono. Lacrimogeni, scudi alzati e manganelli. Parapiglia e fuggifuggi, ma la gente dai balconi ci sosteneva. La Polizia smobilitò e noi potemmo rientrare in Via Argine, nella nostra fabbrica. Fu un momento di lotta e solidarietà che ha rafforzato gli operai. Noi e loro. Uniti anche se di fabbriche diverse.
Unità dei lavoratori era anche la storica parola d’ordine del Partito Comunista Italiano. Che rapporti c’erano tra il Consiglio di Fabbrica e le organizzazioni politiche? Quali erano, specificamente, i rapporti con il PCI?
Io ero iscritto al PCI. Non frequentavo però la sede di Arzano (NA), dove vivo da oltre cinquant’anni, ma quella di Barra, in zona Napoli est perché qui c’era la maggior parte degli operai iscritti al Partito che lavoravano alla Ignis. Ad Arzano non avevo il tempo di fare vita di sezione, tanto ero preso dalle questioni della fabbrica. A Barra, invece, ci organizzavamo anche come Partito per portare la linea nel Consiglio di Fabbrica e nel sindacato. In quegli anni, le posizioni della FIOM coincidevano con quanto il PCI, caso per caso, indicava. La sezione del Partito era utile anche per la trasmissione al territorio delle questioni relative alla fabbrica. In questo senso, l’appoggio del PCI era totale. Altre organizzazioni politiche, tramite alcuni operai, intervenivano nel CdF, ma era il PCI il partito principale degli operai.
Infatti gli operai iscritti al PCI, ad esempio, ricevevano da esso l’indicazione di introdurre al lavoro o all’acquisizione di competenze specifiche i nuovi arrivati, utilizzando a tal fine il sindacato, per evitare che i neoassunti si rivolgessero all’ufficio del personale. Così i nuovi operai si legavano al sindacato e quindi al PCI.
Quindi sindacato come “cinghia di trasmissione”?
Sì, ma non sempre. I rapporti non erano sempre così lineari. Soprattutto tra il sindacato in fabbrica, più legato al CdF, e la dirigenza che era fuori. Ad esempio quando decidemmo di far entrare a lavorare i figli degli operai, dandoci dei criteri precisi e definendo una graduatoria interna, la segreteria del sindacato, a differenza del sindacato presente in fabbrica, si oppose. Perché voleva che fosse il sindacato a decidere chi doveva entrare in fabbrica e non il CdF. Del resto era noto che il PCI, tramite il sindacato, ti mandava a lavorare. Ci fu uno scontro duro, ma alla fine la spuntammo. Perché quello era il modo anche per mettere fine alla pratica dell’assenteismo di cui ti parlavo. I criteri di selezione, infatti, si basavano sì sull’anzianità di servizio, ma anche sulla presenza a lavoro. I figli degli operai con più anni di servizio e che avevano fatto meno assenze erano in cima alla graduatoria. Sarebbero entrati a scaglioni di trenta o cinquanta per volta, con un periodo di prova di tre mesi. In questo modo l’azienda poteva “sfilarsi” dalle pressioni per le assunzioni che riceveva da più parti e noi operai potevamo controllare i nuovi accessi a lavoro e garantirli. L’assenteismo scese dal 30 al 3%.
Il conflitto con la dirigenza del sindacato fu aspro: ci criticava di togliere terreno al sindacato, di squalificarlo, di prenderci troppe libertà. La verità è che pure il sindacato, anche se per ragioni diverse dal padrone, temeva il “potere operaio”, il controllo che noi effettuavamo su noi stessi, sul nostro lavoro, sul nostro operato. Noi l’avevamo capito. Ecco perché non potevamo arretrare di un passo. Andammo allo scontro frontale e alla fine vincemmo. Pensavamo che introdurre un criterio matematico e uno meritocratico potesse essere il modo per dimostrare che gli operai possono governarsi da soli. Ed essere così da esempio per altri. Non solo per altri siti del gruppo, ma per tutti gli altri operai del Paese.
Quindi il Consiglio di Fabbrica come sorta di “ufficio del personale operaio” alternativo a quello dell’azienda? Una sorta di nuova autorità in fabbrica?
Non avrei sintetizzato la cosa come fai tu, ma di fatto fu così. Perché quando siamo andati in cassaintegrazione, quando furono introdotti cambiamenti nell’organizzazione del lavoro, per tutte le questioni relative alla gestione del personale o all’inquadramento in nuove mansioni eravamo noi ad avere in mano la situazione, non l’azienda. Naturalmente facemmo anche un piacere all’azienda perché ci trovammo a dover gestire noi anche i casi di operai scontenti – in primis di quelli che per ragioni personali legate magari al doppio lavoro chiedevano di essere messi in cassaintegrazione – perché noi puntavamo sempre alla rotazione per non far perdere ai lavoratori il contatto con la fabbrica.
Effettivamente l’attività del Consiglio di Fabbrica fu una specie di potere alternativo a quello dell’azienda. Soprattutto perché era riconosciuto dagli operai e gli operai vi si riconoscevano. Avevamo fiducia in noi stessi, nelle nostre capacità e nella nostra serietà. Forse è questo che ha posto le condizioni per le quali molti anni dopo, nel 2003, uno stabilimento, quello di Ponticelli a Napoli, ormai ridotto a sole 420 unità operaie, è arrivato a produrre un milione di lavatrici in un anno, con zero infortuni sul lavoro e a ottenere riconoscimenti internazionali per la sicurezza e la qualità del lavoro.
Potere. La parola potere… Vorrei essere chiaro su questo. Non potere nel senso di dominio, ma potere come prospettiva, come futuro da garantire agli operai e alla loro fabbrica, alla nostra fabbrica.
Potere come influenza, perché l’obiettivo era quello del bene della fabbrica. Era questa la cosa interessante.
Il Consiglio di Fabbrica era, dunque, un’organizzazione di lotta per strappare miglioramenti di vita e di lavoro in fabbrica e nei quartieri, ma al tempo stesso qualcosa in più. Ti chiedo: il movimento dei CdF degli anni Settanta avrebbe potuto essere movimento per cambiare il Paese?
Diciamo che poteva esserlo. Potevamo esserlo. Ma non lo siamo stati. L’eccesso di concertazione sindacale e una linea politica del PCI più “morbida”, insieme all’inizio della deindustrializzazione di intere aree del Paese ci ha indebolito. La zona industriale di Napoli est in cui si trovava la Ignis, una delle due grandi aree industriali della città, fu ridimensionata e poi smantellata, pezzo per pezzo. È venuta meno progressivamente quella collettività che avevamo costruito per anni. Meno operai, operai progressivamente sempre più concentrati nella difesa dei siti produttivi a fronte di delocalizzazioni e ristrutturazioni aziendali via via più frequenti. Philips veniva assorbita da Whirlpool mentre altri marchi chiudevano direttamente, come la Candid o la San Giorgio. I nostri obiettivi in quegli anni non erano più di conquista, ma di difesa. E questo ci portò ad essere più deboli. Ecco, perdemmo la nostra forza.
L’esperienza dei Consigli di Fabbrica si è esaurita per queste ragioni?
No. Non solo e non principalmente. La causa principale è che non siamo riusciti a trasmettere la nostra esperienza alla nuova generazione operaia. Abbiamo mancato di continuità. Così si è abbassata anche la pressione che facevamo sul sindacato, che di conseguenza smise di discutere dei problemi veri della classe operaia e di organizzare la lotta per risolverli, preferendo l’accordo ad ogni costo con la proprietà, anche quando gli accordi erano irricevibili. Erano ormai gli anni Novanta. Io sono andato in pensione in quegli anni. Eppure gli operai nuovi, giovani, avevano più strumenti culturali di quanti ne avevo avuti io (feci la quinta elementare e solo successivamente presi la terza media grazie alla famosa e vittoriosa lotta per le 150 ore). I giovani operai erano pronti ad imparare, ma niente. Non trasferimmo loro la cultura della lotta e dell’organizzazione. Questo è stato il nostro errore più grande, di cui proprio i giovani oggi pagano il prezzo.
Sulla base di queste considerazioni, non pensi che proprio alla luce della situazione di oggi – proprio in Whirlpool da quattro anni è in corso la lotta contro la chiusura del sito e tuo figlio Massimiliano ne è uno degli esponenti di punta – sarebbe necessario promuovere, ricostruire organismi simili ai CdF degli anni Settanta? Organismi che facciano tesoro dell’esperienza del passato, di quello che ci hai appena raccontato?
Penso di sì. Vorrebbe dire rimediare in qualche modo agli errori che noi abbiamo commesso.
Dopo la vittoria della lotta per l’equiparazione del salario tra operai del Nord e operai del Sud noi istituimmo un coordinamento nazionale dei Consigli di Fabbrica della Ignis di modo che quando si fermava Napoli si fermavano anche Varese, Trieste e tutti gli altri stabilimenti — ecco se fossimo stati capaci di trasmettere alla nuova leva operaia questo senso di appartenenza allo stesso gruppo forse oggi gli operai Whirlpool di altri siti non si sarebbero limitati alla solidarietà e a qualche manifestazione a Roma, portati dal sindacato. Di fronte alla chiusura del sito di Napoli, forse sarebbero entrati in agitazione, con i napoletani e come i napoletani, invece di sperare di cavarsela, fingendo di non sapere che, cadendo Napoli, cadrà tutto il gruppo in Italia.
La nostra forza era l’unità, il gruppo, la classe. Questo concetto non siamo riusciti a trasmetterlo ai giovani. Per noi valeva il principio che se toccavano uno, toccavano tutti. Oggi la situazione è così frammentata che quando toccano uno gli altri nemmeno lo sanno. Ma la colpa non è dei giovani, è nostra.
Antonio, un’ultima cosa proprio per i giovani operai. Un messaggio per loro, per la nuova giovane generazione operaia e, più in generale, per chi oggi cerca una strada per trasformare la società.
Nonostante la mia delusione, dico che non ci si deve abbattere. Mai. Bisogna sempre lottare! L’ho detto anche a mio figlio, che oggi lotta per tenere aperta la fabbrica che fu anche la mia. Alcune volte mi diceva che voleva fare anche lui il percorso di organizzazione e sindacato che ho fatto io. Io inizialmente l’ho frenato, perché non vedevo un contesto adeguato (il sindacato ammorbidito, senza il Partito). Poi però ho visto la situazione in fabbrica e la grande solidarietà che gli operai hanno ricevuto a fronte dell’arroganza dei padroni americani a cui interessano solo i soldi e non la sorte di chi ha lavorato con serietà e senso di responsabilità. E allora gli ho detto che adesso tocca a lui e ai suoi compagni ricostruire l’organizzazione degli operai, il sindacato e pure il Partito. Gli ho detto che devono imparare a non ripetere i nostri stessi errori e a trovare la loro strada. Devono essere orgogliosi di essere operai, come lo sono ancora oggi io, alla mia veneranda età, e come lo sono quelli che furono i miei compagni di lavoro. Perché se si vogliono cambiare le cose – e le cose devono cambiare – il ruolo della classe operaia è fondamentale. Altrimenti perdiamo tutti.