Nicola, ci racconti quando e come si è formato il Consiglio di Fabbrica della Olivetti di Pozzuoli? Di che anni parliamo? Come funzionava e come era organizzato?
Il Consiglio di Fabbrica della Olivetti è nato più o meno quando sono stato assunto, alla fine degli anni Sessanta. In realtà, a quel tempo c’erano ancora le Commissioni interne, ma esse erano ridotte ad apparati strettamente sindacali, articolazioni nella fabbrica della dirigenza del sindacato. Il Consiglio di Fabbrica, come forma di autorganizzazione degli operai anche in contrasto con la Commissione interna, nacque perché noi, gli operai di base, lanciammo la lotta per l’equiparazione delle condizioni salariali: nel Nord Italia, a parità di lavoro e di mansioni, si guadagnava infatti più che al Sud. Si trattava di un obiettivo unificante della classe operaia, sarebbe stato uno scandalo e una vergogna non farlo proprio. Su questa lotta, che la Commissione interna non aveva impugnato con decisione, noi trovammo la nostra forma di organizzazione: nacque così il Consiglio di Fabbrica della Olivetti.
Già, proprio il Consiglio di Fabbrica. Che entusiasmava in quanto tale. Era un po’ come avere un soviet in fabbrica. Una forma di democrazia operaia autonoma rispetto al sindacato ufficiale.
Quindi contestavate apertamente la Commissione interna?
Certo! Al punto che la Commissione interna alla fine fu abolita poiché superata dal Consiglio di Fabbrica in quanto a organizzazione degli operai e capacità di mobilitazione. Per tutto un periodo, però, i sindacati ufficiali, la CISL e la CGIL precisamente, capendo che il CdF rappresentava un’esperienza autonoma d’avanguardia degli operai, cercarono di rimanere in contatto con esso, di entrarvi in qualche modo, di ristabilire la loro egemonia al suo interno, di controllarlo, in definitiva. Non vi riuscirono perché in un momento in cui la lotta diventava più acuta, la moderazione della trattativa a oltranza proposta dai sindacati non faceva più presa nel corpo operaio. Le fondamenta stesse del sindacato tremarono perché gli operai iscritti ad esso guardavano al Consiglio di Fabbrica invece che alla dirigenza sindacale. Poi ci fu un passaggio ulteriore: l’autonomia sviluppata dagli operai andò oltre il CdF e formammo un vero e proprio collettivo politico. Il Consiglio di Fabbrica aveva la sua vita vita politica e sindacale innanzitutto all’interno della fabbrica, mentre il collettivo politico, eterogeneo per composizione (vi erano operai anarchici, operai comunisti e operai e basta), nasceva dall’esigenza di collegarsi con altre realtà organizzate, di fabbrica e di territorio.
Questo è un aspetto molto importante…
Sì. Eravamo a cavallo degli anni Sessanta e Settanta. Alcuni compagni del CdF cercavano di non limitarsi alla lotta sindacale e rivendicativa, ma puntavano a cambiare la società! Allora, esprimevamo non solo una visione delle relazioni industriali o dei rapporti tra parti sociali in fabbrica, ma puntavamo alla sovversione dei rapporti di forza nel Paese. Sapevamo che migliorare stabilmente le condizioni di vita e di lavoro della classe operaia significava rovesciare i rapporti di proprietà della produzione. Significava riorganizzare la società sulla base della proprietà collettiva anziché sulla base della proprietà privata, che era all’origine dello sfruttamento e, più in generale, dei mali della società. Il collettivo politico agiva in questo senso nel CdF. Ma anche fuori, autonomamente. Cioè fuori dalla fabbrica, prendendo posizione nelle lotte sul territorio e nelle manifestazioni politiche sui principali aspetti della lotta di classe in corso. Cercavamo di sviluppare rapporti con altri operai non solo su base rivendicativa o su piattaforme unitarie, ma su una visione operaia della società. Era qualcosa, un modo e un metodo, un concetto, che andava oltre la concezione sindacale o la lotta economica corrente. Era il tentativo di proiettare l’autonomia e la forza degli operai organizzati fuori della fabbrica. Un esempio di questo furono le lotte per ottenere una riduzione del costo delle bollette da parte di Enel. Si trattava di una lotta che andava al di là della rivendicazione del salario, ma che atteneva alle generali condizioni di vita delle masse. A sostenere la lotta, fuori dal CdF, trovammo i compagni di Lotta Continua. Io non condividevo la linea generale che professavano, ma essi si assunsero il compito di portare in altri settori sociali le istanze di noi operai. Assieme a loro, di fatto, organizzammo il movimento dell’autoriduzione popolare delle bollette.
Ecco, raccontaci questo episodio, questo movimento.
L’esperienza dell’autoriduzione fu resa possibile dal coordinamento tra la nostra organizzazione operaia autonoma nella fabbrica e l’attività politica di territorio svolta da Lotta Continua a Pozzuoli. Il collettivo operaio aveva al suo interno qualche compagno che faceva riferimento a questa organizzazione politica e che fece da tramite. Noi ci battevamo in fabbrica e Lotta Continua fuori. Ci incontravamo spesso, dopo il lavoro. Ci frequentavamo. Non solo riunioni, ma anche socialità. Perché, per noi, la politica non era solo organizzazione di categoria, ma sviluppo di collettivi, ambiti di organizzazione di massa, trasversali ai settori sociali delle masse. Operai, studenti, disoccupati. La fabbrica era il centro di riferimento, ma l’azione doveva svilupparsi ovunque, invadere la società, cambiarla. Concepivamo i rapporti sociali non solo come rapporti economici e, men che meno, come rapporti sindacali di categoria, ma come rapporti umani in una società che produceva alienazione e disumanizzazione. Una vita alternativa rispetto a quella nella fabbrica, insomma. Per noi il lavoro era sì importante, ma non era tutto: un mezzo, non un fine. Un mezzo per arrivare ad avere una vita dignitosa e condizioni materiali tali da poter dedicare energie a ciò che ci premeva: cambiare il mondo, fare la rivoluzione, organizzare la classe operaia come nuova classe dirigente. Di qui anche il rapporto con Lotta Continua più che con il PCI, che pure organizzava milioni di operai e lavoratori. Lotta Continua ad ogni modo era molto radicata nel Centro-Sud, proprio perché cercava di interpretare le esigenze sociali che qui erano più pressanti e stridenti. Il coordinamento tra gli operai dentro la fabbrica e i militanti politici fuori, produsse un movimento positivo, riconosciuto da altri settori di massa e con il quale Enel fu costretta, a un certo punto, a trattare. L’autoriduzione aveva ottenuto un risultato importante. Nemmeno tanto in termini economici, quanto piuttosto perché dimostrava che si poteva vincere. La questione era organizzarsi per farlo.
Il Consiglio di Fabbrica anche come fucina dell’organizzazione politica degli operai?
Certo. Perché oltre alle lotte specifiche di fabbrica per il miglioramento delle qualifiche, per l’aumento del salario, per la riduzione dell’orario di lavoro, l’attività del CdF riguardava tutto il mondo del lavoro e la società. Tanto che, negli anni Settanta, il movimento dei Consigli di Fabbrica, che faceva pressione sulle istituzioni sindacali e politiche ufficiali, cominciò ad assumere una rilevanza nazionale. Molte volte, per questa ragione, ci furono scontri tra gli operai organizzati nel CdF e il sindacato. Perché gli operai del CdF non rispondevano più al sindacato, ma pretendevano, al contrario, che fosse il sindacato a mettersi al servizio degli operai, come era giusto che fosse. I sindacati, dal canto loro, accusavano il CdF di “fare politica” e non lavoro sindacale. Nel frattempo miravano a reclutare i migliori tra i suoi membri promettendo e assegnando incarichi e titoli sindacali di rappresentanza. Queste “furbizie”, però, non facevano altro che allontanare maggiormente gli operai dai sindacati, anche se vi restavano iscritti. Il Consiglio di Fabbrica fu una sorta di sbocco naturale per gli operai che non intendevano più delegare ad altri le loro rivendicazioni.
Molti compagni operai anche bravi, con capacità di organizzazione e direzione, non aderivano al collettivo politico proprio perché i sindacati li chiamavano fuori della fabbrica, dopo il lavoro, e raccomandavano loro di lasciar perdere il CdF e, a maggior ragione, il collettivo politico. Dicevano che queste organizzazioni spezzavano il fronte degli operai, disorientavano i più e facevano il gioco del padrone, che puntava proprio a dividere la classe operaia. Gli operai più avanzati – sostenevano i sindacati – dovevano, al contrario, rafforzare la direzione sindacale e legarsi ai partiti di massa (al PCI, principalmente). Fu così che prospettarono a tanti bravi operai un’alternativa al lavoro sulla linea: se avessero lasciato perdere i Consigli di Fabbrica, avrebbero smesso di lavorare in produzione per passare a “fare sindacato”.
Le manovre strumentali della dirigenza sindacale, combinate con un certo opportunismo da parte di molti operai legati ai partiti di sinistra, misero in difficoltà l’esperienza del CdF della Olivetti. Io stesso fui oggetto di una proposta come quella appena descritta. Il sindacato mi mandò ad Ariccia (Roma) alla scuola di formazione sindacale per cercare di “tirarmi dentro”. Io, fiutando la cosa, rifiutai ogni proposta, perché, per me, “fare sindacato” come pure “fare politica” non poteva essere un lavoro, una professione. Per me era un’altra cosa. Io avevo un approccio alla vita completamente diverso! Noi volevamo cambiare la società! Lavorare stipendiato dal sindacato, cioè vivere delle trattenute in busta paga degli operai per fare concertazione – i sindacati istituzionali non volevano di certo cambiare la società! – era inaccettabile. Perché con i padroni non si concerta, ai padroni si dà battaglia. Era questa la linea del Consiglio di Fabbrica e siccome molti operai del CdF erano anche iscritti al sindacato, spesso ci furono tensioni non solo nelle riunioni tra i rappresentanti sindacali e le delegazioni di volta in volta stabilite dal CdF, ma anche all’interno dello stesso CdF.
I rapporti con il sindacato erano conflittuali…
Conflittuali, sì. È l’espressione giusta. Con il padrone eravamo in guerra. Con i sindacati eravamo spesso in conflitto. Cioè, noi avevamo rapporti con i sindacalisti, ma erano rapporti quasi sempre tesi, perché non avvisavamo né loro né il padrone delle nostre intenzioni. Ai sindacati non andavano proprio giù la lotta spontanea, gli scioperi improvvisi, a “gatto selvaggio”, oppure a singhiozzo. Non li concepivano nemmeno, perché li metteva in difficoltà ai tavoli di trattativa. Ma noi, al contrario, pensavamo che le trattative avrebbero avuto buon esito tanto più quanto più il padrone capiva che era peggio per lui non trattare con chi gli paralizzava la fabbrica. Con il padrone non ci si doveva accordare, a nostro avviso. Bisognava imporgli le nostre rivendicazioni. Le forme di lotta “irregolari”, cioè non concordate, erano la nostra arma principale. Non solo nella lotta contro il padrone, ma anche nel maturare quella coscienza di classe che il sindacato non favoriva proprio perché non voleva sviluppare la lotta, ma solamente gestirla. Tanto è vero che quando costruivamo momenti di lotta in maniera autonoma dai sindacati, questi venivano subito richiamati all’ordine dalle direzioni di categoria che volevano intestarsi la mobilitazione, contenendola però in un quadro di compatibilità. Alcune volte ci sono riusciti. Perché, comunque, in un contesto di 2.000 operai, erano tanti quelli legati al sindacato e al PCI che, richiamati dai vertici sindacali e politici, esitavano. Noi, militanti del collettivo politico e attivisti del CdF, ci incazzavamo molto per questo.
Guardandola da una prospettiva diversa, la forza e l’autonomia dell’organizzazione operaia di fatto spingeva avanti anche i sindacati, costretti a fare i conti con l’azione del Consiglio di Fabbrica, giusto?
Certo! Questa cosa è successa molte volte! Perché quando si faceva la lotta, il sindacato era chiamato dal padrone per “gestire” la situazione e doveva intervenire anche se non voleva. Quello che i sindacalisti non hanno mai capito è che la nostra lotta serviva pure a loro, per spingere avanti il sindacato, per portarlo ad essere conseguente. Invece, hanno sempre inteso l’attività del CdF in concorrenza con loro.
Un esempio palese fu quando occupammo gli studi della RAI a Fuorigrotta. Si trattò di un episodio politicamente molto significativo. Uscimmo dalla fabbrica in corteo – in Olivetti eravamo tra i 1.500 e i 2.000 operai – capeggiato dal Consiglio di Fabbrica. Ci dirigemmo verso Bagnoli per far uscire anche gli operai dell’Italsider. Arrivammo a Fuorigrotta in massa. Operai assieme ad altri operai. La gente per strada ci sosteneva. Avevamo deciso di occupare e il sindacato non solo non era stato informato della cosa, ma neppure se l’aspettava. Idem per le Forze dell’Ordine, tanto che la sede RAI non era presidiata. Entrammo di forza, prendendo di sorpresa sindacati e Polizia, che si teneva a distanza del corteo. Io stesso rimasi l’intero pomeriggio in occupazione. Imponemmo alla redazione di RAI 3 di far passare al telegiornale della sera le nostre richieste. I sindacati furono costretti a far propria la mobilitazione, anche perché ci fu un acceso diverbio tra noi operai in occupazione e il direttore della rete televisiva e la situazione rischiò di precipitare. I sindacati furono costretti a intervenire per mediare. Il giorno dopo, naturalmente, rivendicarono come propria l’azione di lotta e vennero lodati per il senso di responsabilità che avevano dimostrato…
E il PCI? Come intervenne nella vicenda e, in generale, che rapporti avevate con il PCI?
Il PCI aveva i suoi militanti all’interno della fabbrica. Militanti che collaboravano e, in parte, partecipavano anche direttamente al Consiglio di Fabbrica. Ma non erano per lo sviluppo autonomo della lotta, men che meno per quella spontanea. Cercavano sempre di mediare, di calmare gli animi. Ufficialmente, per non rompere il fronte unito dei lavoratori. Del resto questa è la funzione che hanno sempre avuto. Mediare il rapporto di classe. Come se la rivoluzione potesse essere un processo di democrazia progressiva, ottenuta per alzata di mano. La verità è che, al di là di quanto dicevano, non pensavano che la rivoluzione fosse realmente possibile. E se pure lo era, ci si doveva arrivare tutt’al più conquistando le istituzioni del Paese, non certo sovvertendo l’ordine costituito. In effetti, il fatto di non aver saputo cogliere le occasioni che, come comunisti, avevano avuto prima con il Biennio rosso, a cavallo degli anni Venti, e poi con la Liberazione dal nazifascismo nel 1945 la dice lunga. Questo aprirebbe a una riflessione storica sulla natura della frazione comunista rispetto al Partito Socialista Italiano e sullo stesso Partito Comunista Italiano all’indomani della “svolta di Salerno”, una riflessione che però non è possibile fare in questa intervista.
Di sicuro, negli anni Settanta, il principale ruolo del PCI fu quello di mediare. Anche perché le cose sembravano dargli ragione visto che furono anni in cui le conquiste della classe operaia furono tante e importanti. Ma i padroni col tempo si riorganizzano e, se non vinci, si riprendono tutto e pure con gli interessi. È quello a cui assistiamo anche oggi, non è vero?
La lotta non scende a patti, giusto?
Esatto. Poi c’è stata pure la repressione che ha fatto la sua parte.
Ecco, parliamo di repressione. Patron Olivetti passa alla storia come un “padrone illuminato”, come un “padrone buono”: come rispose all’incalzare della lotta operaia?
Bisogna chiarire quest’aspetto. Olivetti sarà anche stata una “brava persona”. L’opinione pubblica lo ricorda così. E, in un certo senso, la politica di “welfare aziendale” – oggi si direbbe così – che egli adottò giustifica in parte questo immaginario collettivo. Io stesso, da bambino, sono stato, ad esempio, in una colonia per i figli degli operai che l’azienda organizzava. Per me, però, un giovanotto entrato in fabbrica per guadagnare un salario che gli consentisse di vivere, Olivetti, che al pari di ogni padrone campava sul mio lavoro, era semplicemente “il padrone”. Uno che campa sulle spalle di chi lavora, per l’appunto. Un parassita sociale. Io lottavo contro il padrone, che fosse o meno un buon padre di famiglia. Era il ruolo sociale che gli contestavo: l’essere, di fatto, un padrone.
Nel 1976 partecipai a un congresso anarchico a Ferrara. Durante la cena successiva ai lavori congressuali, mi capitò di parlare con un ingegnere navale. Questi mi chiese che lavoro facessi e quando gli dissi che lavoravo alla Olivetti, lui fece: “Ah. Stai dal compagno Olivetti?”. Io rimasi molto sorpreso, ma il discorso si chiuse là e la conversazione non proseguì oltre. Continuai, però, a pensare a quella frase nei giorni successivi. Ora, che lui fosse un “giostraio illuminato” è vero. Fondò finanche un sindacato aziendale che si chiamava Comunità. E Comunità era anche il nome di un movimento politico fondato sempre dagli Olivetti, che ebbe, come militante e poi eletto alla Camera dei Deputati, l’importante sociologo Franco Ferrarotti. Dico questo perché è utile per inquadrare meglio il personaggio Olivetti. Era un “padrone illuminato”, come si dice, e le idee che stavano alla base della sua condotta e del suo movimento politico erano finanche buone, progressiste. Ma il suo idealismo non gli permise di vedere che proprio nel suo movimento si “sistemavano” opportunisti di vario ordine e grado, che avevano a cuore la carriera e non certo il progetto politico, tanto riformatore quanto irrealizzabile, di Olivetti; persone poco qualificate moralmente, che agivano nel loro particolare interesse, sfruttando il suo nome. È vero che lui ebbe una concezione del lavoro intesa non solo come sfruttamento della manodopera per arricchirsi, ma come compartecipazione dignitosa tra padroni e operai, ma il suo paternalismo non poté cancellare il suo ruolo sociale, legato al sistema del profitto che separa nettamente chi lavora per vivere da chi vive del lavoro altrui. Non poteva, in definitiva, cancellare il suo ruolo di padrone.
Se poi mi chiedi se era un “progressista”, beh, certamente lo fu, per quanto possa avere senso essere “progressista” in un sistema economico che ha esaurito il suo progresso.
Costruì case per gli operai; organizzò le colonie di cui dicevo; non mise guardiani in fabbrica, favorendo così l’autoregolamentazione di noi operai; dotò la fabbrica di una fornitissima biblioteca dove, oltre ai libri, ogni giorno arrivavano giornali di tutte le tendenze politiche e dove, paradossalmente, io cominciai a studiare Marx, Lenin, Mao. Tutto questo e il fatto che non è sempre stato un padrone (fu anche architetto a Cosenza, ecc.) fecero di lui una figura migliore di altri padroni schifosi. Fu persino un antifascista convinto: il rapporto con Turati e il carcere di Regina Coeli che si fece durante il fascismo stanno lì a dimostrarlo.
Dico tutto questo perché, ad esempio, pure nei momenti di massima tensione tra noi e lui, quando facevamo sabotaggi in fabbrica, sugli impianti, ecc. Olivetti non chiamò mai la Polizia. Facevamo in fabbrica cose per cui altri padroni ci avrebbero non solo licenziato, ma anche fatto arrestare. Olivetti, invece, pur restando il padrone e non lesinando misure disciplinari e licenziamenti, non ricorse mai alla repressione poliziesca. Diciamo che esercitò la repressione di fabbrica come previsto dal suo ruolo. Ci andò piano, però. Sapeva che le nostre rivendicazioni in fondo erano giuste. In altre fabbriche, situate in altre parti del mondo e più evolute quanto a rispetto delle condizioni di vita e di lavoro, come per esempio alla Volvo in Svezia, già si lavorava con il “sistema delle isole” [sistema di organizzazione del lavoro che consiste nell’intervallare la catena di montaggio con postazioni (le isole) intermedie, in ognuna delle quali un gruppo di operai specializzati e tra loro intercambiabili provvede all’assemblaggio di un pezzo e al suo collaudo – ndr]. Noi, invece, eravamo ancora attaccati alla catena di montaggio, come a inizio del Novecento.
Hai parlato di sabotaggio, quindi vuol dire che, nonostante Olivetti fosse un “padrone illuminato”, non avete lesinato la lotta? Quando fu, se ci fu, il momento di scontro frontale con Olivetti?
No, non abbiamo mai lesinato la lotta. Il momento di massima tensione ci fu quando, durante la lotta per l’equiparazione salariale che poi, negli anni, portò al CCNL, uscimmo sul territorio per legarci con altri settori sociali, con l’obiettivo di coordinare le lotte per rafforzarle tutte. Lì, indipendentemente da Olivetti, fu lo Stato a intervenire. Gli scontri con la Polizia furono diversi e massicci. Era lo Stato che aveva paura dell’organizzazione autonoma degli operai e che questa potesse dirigere tutte le altre lotte (per la casa, per il lavoro, per il diritto all’istruzione, per la sanità pubblica, ecc.). Ecco perché reagiva così. Per intimidirci. Per reprimere. Ma non poteva farlo fino in fondo, perché quando ripiegavamo in fabbrica dopo lo scontro, la Polizia lì non poteva entrare, ma soprattutto perché più la Polizia si accaniva, più il livello di rabbia operaia cresceva. Se il “mondo olivettiano” era, per tanti versi, diverso dalla realtà di altre fabbriche dove lo sfruttamento e la repressione del dissenso erano pesantissimi – si pensi all’Alfasud di Pomigliano, con il padron Agnelli, non a caso fascista prima e democristiano poi – la combattività e la solidarietà operaia rispetto alla repressione erano tratti che accomunavano gli operai di tutte le fabbriche, in quegli anni. Era quello di cui tutti ci facevamo forti. Paradossalmente, la repressione ci rafforzava anziché intimidirci.
Posto che la questione non è se il padrone è buono o cattivo ma il modo di produzione, il Consiglio di Fabbrica era anche uno strumento della lotta degli operai per cambiare modo di produzione…
I Consigli di Fabbrica nacquero, in un certo senso, con questa vocazione. Sono nati così, nel 1905, in Russia. Si svilupparono nel Biennio rosso in Italia. Furono un movimento letteralmente democratico, che tendeva non solo al miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro. Cambiare gli assetti economici della società è, del resto, cambiare la società.
… quindi anche per dirigere il Paese?
Esatto. Ma i CdF hanno dovuto scontrarsi, prima ancora che con i padroni, con le istituzioni pregresse della classe operaia e delle masse: sindacati e partiti ne hanno contrastato l’espansione nella società, messo in discussione il potenziale e osteggiato il ruolo di collettore delle lotte anche all’esterno delle fabbriche. In qualche modo i CdF sono stati costretti nelle fabbriche, pure se hanno puntato all’esterno, proprio da altre organizzazioni della classe operaia. Una cosa che il Collettivo di Fabbrica della GKN di oggi sa bene.
Dirigere il Paese era il grande obiettivo. Resta un grande obiettivo. Rispetto a questo obiettivo gli operai d’avanguardia decisero di fondare anche il collettivo politico. In Olivetti, come anche in altre fabbriche. Perché i Consigli di Fabbrica, tramite l’organizzazione politica autonoma degli operai, non volevano essere un sindacato alternativo a quelli esistenti, ma una forza in grado di attrarre a sé altre forze sociali per dirigerne la lotta, per conquistare il potere. Era questa caratteristica tutta “politica” che ne faceva quanto di più “democraticamente” avanzato c’era in quegli anni in cui i rischi di colpi di Stato di stampo neofascista erano alti. Poi non hanno funzionato fino in fondo. E quell’esperienza si è esaurita. Restarono dei collettivi, ma la massa degli operai fu ricondotta nei ranghi della compatibilità istituzionale che sembravano più certi, più sicuri.
Un’ultima domanda. Non pensi che oggi sia necessario promuovere organismi simili a quelli di cui ci hai raccontato e che facciano tesoro, diciamo così, degli errori del passato?
Ma nel mondo del lavoro intendi? Teoricamente il Consiglio di Fabbrica è sempre un fatto positivo nel senso che è, sarebbe utile. Significherebbe restituire potere agli operai. Ma oggi il mondo e la società, il lavoro stesso sono molto diversi dagli anni Settanta. Ed è molto più difficile fare un discorso di classe e di massa. Non perché sia superato. Fintantoché esisterà la divisione tra capitalisti e proletari, la lotta di classe esisterà. La lotta di classe è oggettiva. Detto questo però, oggi è molto difficile fare politica “di classe”, della classe operaia in quanto tale. Le trasformazioni del mondo del lavoro, la finanziarizzazione della produzione, la stratificazione della classe lavoratrice rendono complicata la riorganizzazione della classe attorno all’obiettivo della lotta per il potere. Ecco perché si continua a giocare in difesa. Perché questo è quello che si riesce a fare. Si fa difficoltà perfino a inquadrarlo, il nemico. I padroni non si sa nemmeno più chi sono, dove sono. È la finanza che dirige tutto, non gli industriali. E i responsabili del personale, a momenti pure quelli sono automatizzati…
Ma la base del processo di valorizzazione del capitale resta pur sempre la produzione, non trovi?
Sì, la produzione. Che, però, non a caso i padroni e gli speculatori hanno spostato in Medio Oriente o in Africa. Hanno portato a compimento un processo avviato già prima degli anni Ottanta. Un processo possibile non certo per la “lungimiranza” dei padroni, ma per la scarsa opposizione dei sindacati che con i padroni hanno collaborato in cambio di piccole “soddisfazioni”, poi pure perse.
Quindi che consiglio, indicazione o appello rivolgeresti alla classe operaia di oggi?
Alla classe operaia di oggi io non so cosa consigliare. Forse non si tratta di consigliare qualcosa, ma di suggerire di trovare la propria strada in un contesto sicuramente diverso da quello che ho vissuto io, ma in cui la lotta di classe resta tale, come pure la prospettiva di un mondo senza padroni: il comunismo (libertario). Occorre imparare a non essere dipendenti dalla tecnologia, ma ad usarla a proprio favore, come strumento che facilita i contatti, l’organizzazione, la diffusione di contenuti di una coscienza di classe da recuperare, se non proprio da riscoprire. Non parlo solo della fabbrica, ma dell’organizzazione in tutti i luoghi di lavoro e di produzione di servizi: sanità, scuola, università. Gli operai hanno ancora un ruolo nel costituirsi come punto di riferimento. I giovani operai dovrebbero fare tesoro delle lotte dei padri, ma anche – e soprattutto – imparare dagli errori che noi abbiamo fatto. Bisogna tornare a odiare il nemico, anziché invidiarlo; occorre tornare a incontrarsi fisicamente, anziché solo virtualmente e sentirsi parte di un corpo sociale ampio invece che tanti “io” separati che, incidentalmente, lavorano o studiano insieme. È necessario, in definitiva, riscoprire la forza del collettivo. Perché è questa la forza unica della classe operaia e delle masse.