Paolo Bocale e la lotta della Titan: “la convergenza è la nostra arma”

Rilanciamo a seguire l’intervista realizzata con Paolo Bocale della Titan. Il compagno ci ha raccontato della sua esperienza di lotta contro i licenziamenti nell’azienda bolognese tra il 2014 e il 2015. L’intervista è preziosa perché mostra che nei luoghi di lavoro è possibile organizzarsi e non rassegnarsi alle manovre e alle scorrerie dei padroni. Buona lettura!

***

Raccontaci innanzitutto la tua esperienza di lotta di Bologna alla Titan nel 2014 – 2015?

Noi facciamo cerchioni per trattori. L’AD disse che doveva fare una ristrutturazione e non aveva parlato di licenziamenti di massa ma solo di esuberi. Mise sul piatto 70-80 esuberi per vedere la reazione. La nostra reazione fu di opposizione compatta. Allora colsero l’occasione per dire “tutti a casa” e ci arrivò la lettera di licenziamento per tutti.

A quel punto andammo in assemblea per decidere che fare. Trovammo subito una linea unitaria sulla questione dell’occupazione. Mettemmo a regime una sorta di sciopero bianco in cui facevamo un pezzo ogni tot, mandando la produzione molto a rilento e ci facevamo pagare perché marcavamo in entrata e in uscita. È partita così. Eravamo in fabbrica con la presenza dei capi reparto e tutto ma non lavoravamo più, in sostanza. Io il primo giorno, dopo la decisione dell’assemblea, sono andato dal caporeparto e gli ho detto: “tu adesso non sei più il caporeparto, ora qua comandiamo noi; i pezzi che facciamo li decidiamo noi e finché il licenziamento non è effettivo voi ci pagate”.

Così abbiamo proseguito per un po’. Era sempre un’assemblea continua sul da farsi e per aggiornarsi su cosa succedeva. C’era un picchetto davanti alla fabbrica. La sede sindacale era sempre aperta e funzionava da centro per informare chi passava: dai singoli, a organizzazioni politiche che portavano la solidarietà, ai giornalisti che si informavano.

Eravamo tutti sulla stessa barca e ci sentivamo uniti. Noi avevamo una storia: non si trattava solo di quei pochi giorni di occupazione. Eravamo da anni la fabbrica più combattiva del bolognese. Qualsiasi sciopero tradizionalmente uscivamo fuori tutti: non c’era un operaio che rimaneva in fabbrica. Partecipava anche qualche impiegato.

Poi in ogni fabbrica il nucleo combattivo è sempre composto da quattro o cinque compagni. Io e altri pochi eravamo organizzati a pieno per promuovere l’occupazione, giorno e notte. Sai, occupare una fabbrica è un lavoro a tempo pieno: vuol dire organizzare gli operai, i turni, il mangiare, la vigilanza, la discussione interna e con l’esterno. Ed è sempre un gruppo ristretto quello che promuove.

L’assemblea era composta dai delegati sindacali (RSU) e partecipava anche il funzionario della FIOM che ai tempi era Bulgarelli [Michele Bulgarelli, da poco eletto segretario federale della FIOM, NdR]. Ai tempi non c’era ancora il TUR [Testo Unico Rappresentanza, NdR]. Io ero del Si Cobas ed ero RSU nel consiglio di fabbrica. Adesso non lo potrei più fare. In quel momento c’era molta unità fra noi operai, al di là della sigla.

La lotta portò a vari incontri con le istituzioni. Agli incontri io dicevo che non c’era un calo di lavoro come diceva l’azienda ed ero l’unico RSU a mettere in discussione questo punto. Tutto il semilavorato che noi facevamo a Bologna, l’azienda lo stava facendo arrivare dalla Cina. Al posto di farlo produrre a noi, lo facevano produrre a delle aziende esterne in Cina dove evidentemente gli costava meno. Quindi non era una mancanza di ordinativi: era una questione di esternalizzare la produzione. In più ci dovevano chiudere perché eravamo troppo sindacalizzati.  

Dopo due mesi di occupazione della fabbrica, picchetti, iniziative, incontri, attenzione della stampa, si è arrivati a un’ipotesi di accordo che fu proposta in assemblea. L’accordo prevedeva 45 mila euro in buona uscita per chi decideva subito di licenziarsi e 33 mila euro per chi decideva dopo 15 giorni (ti mettono il pepe al culo per stroncare la lotta). Si è votato: i due terzi hanno votato “SI” e un terzo votò “NO” su circa trecento lavoratori. Un terzo non era poco, considerando anche gli impiegati e una buona componente di operai immigrati che, di fronte a un’offerta economica come quella che ci hanno fatto, difficilmente potevano rifiutare. Forti di un terzo della fabbrica con noi, però, potevamo continuare la lotta, legarci ai macchinari, far intervenire la polizia. Tutto ciò che non è successo perché la FIOM si era probabilmente già accordata con l’azienda sulla linea dell’accordo.

Come si è esplicitata la repressione nel corso della lotta sia istituzionale che all’interno dell’azienda

L’impressione che ho avuto io è che hanno voluto far sfogare tutta la nostra rabbia. Essendo una fabbrica molto sindacalizzata non potevano attuare i progetti cercando lo scontro frontale. Quindi anche parlando col funzionario sindacale si saranno messi a tavolino senza coinvolgere noi delegati e avranno convenuto che lo stabilimento non si poteva chiudere da un giorno all’altro. Bisognava fare una manovra.

Quindi non vi hanno attaccato perché avevate una forza…

Ci hanno lasciato fare finché si è arrivati all’accordo. Non c’è stata forte repressione. La repressione stava nel coltivare in noi l’idea di essere impotenti. Io ho finito l’assemblea piangendo perché non riuscivo ad accettare come la stavamo chiudendo.

Come avete raccolto adesioni esterne, tra le altre organizzazioni del territorio e quali alleanze sono per voi state significative nella lotta.  

Lì davanti è arrivato di tutto: è arrivata la Lega, sono arrivati i fascisti, è arrivato Bonaccini che allora era un politicante alle prime armi. È arrivato anche Landini che diceva: “noi combatteremo sempre un minuto in più degli altri”.

Abbiamo raccolto la solidarietà anche rilasciando interveniste su Radio Bruno e Radio Onda Rossa. Tutti sapevano della lotta in Titan. Abbiamo partecipato alle manifestazioni di quel periodo.

Io ho invitato gli operai della INSEE di Milano a portare il loro il documentario e raccontare la loro lotta. Poi veniva qualche gruppo di delegati dalle altre fabbriche, i più mandati dalla FIOM stessa, che è una cosa diversa rispetto a un gruppo di operi autorganizzati che vengono lì a portarti la solidarietà. Gruppi del genere non ne sono venuti anche perché ce ne sono pochi. Gli unici sono stati i nostri colleghi dell’altro stabilimento della Titan ad Anzola dell’Emilia, dove poi ci hanno trasferito a noi che ci siamo rifiutati di andar via. I colleghi avevano paura che a loro toccasse la nostra stessa sorte e quindi ci sostenevano.

Come vedi la parola d’ordine della “convergenza” portata sul nostro territorio dagli operai della GKN il 22 ottobre?

La convergenza, come si chiama oggi, è la nostra arma. Se riusciamo a far convergere le lotte riusciamo a fare delle lotte un patrimonio. Altrimenti cadono nel dimenticatoio. Ci sono ancora tante lotte sparse che non convergono di cui non si ha notizia. Anche qua in Emilia ci sono fabbriche che chiudono ma gli operai sono stati abituati a risolvere il problema del loro posto di lavoro in maniera quasi individuale. Ci sono tante fabbriche che hanno chiuso senza storia, senza che a partire dalla vertenza si creasse anche una questione politica. Si sono fatti dirigere dal sindacato, senza autorganizzazione e autonomia di classe. Quanto è così si va all’accordo, si chiude e tutti a casa. Al massimo ti offrono qualche posto di lavoro da qualche altra parte. Se non si converge non può avanzare la lotta di classe.   

Però alla GKN devo fare una critica. In fabbrica da me nessuno della FIOM è venuto a parlarci della loro lotta. Mentre la GKN fa la sua lotta, i dirigenti della FIOM, a cui gli operai della GKN sono tesserati, stanno seduti sulle loro scrivanie, con i piedi sulle loro scrivanie – alcuni di loro sono anche ex operai – e non fanno un cazzo. Io la tessera me la toglierei di quell’organizzazione. Vedi, io non dico che “il sindacato siamo noi”. No! Il sindacato è il sindacato e noi operai siamo noi operai. Il sindacato non è un organo rivoluzionario. Ma noi operai abbiamo il dovere di far rilevare in quella parte combattiva di noi che ancora c’è, che la FIOM ha firmato contratti che da vent’anni a questa parte ci hanno massacrato. E se lo sono permessi prima di tutto perché noi operai gliel’abbiamo permesso.

Comunque, la stessa FIOM qui, si sta sgretolando. Io sono in fabbrica dal 1998 e lo vedo. E questo è negativo non è positivo. Perché non c’è un’alternativa.

È nell’interesse della classe lottare contro la concorrenza sindacale

Gli operai dovrebbero capire che il sindacato è uno strumento. Il fatto che tutti i sindacati debbano lottare in modo unito è una pressione che devono fare gli operai. Ci ritroviamo spesso con scioperi su rivendicazioni simili ma divisi per sigle ognuno per sé. Così si divide la classe. Sono gli operai che devono dire che ci vuole un solo sciopero, fatto tutti insieme. Per questo vale sempre di più l’autorganizzazione operaia, anche perché porta il sindacato a fare il sindacato.   

Il tuo punto di vista come operaio combattivo rispetto al ruolo del partito comunista

Io ho militato per 15 anni in un’organizzazione comunista. Senza partito non c’è organizzazione autonoma di classe. È il partito che fa convergere le lotte e dà una linea rivoluzionaria. Se non si concretizza la lotta in un’organizzazione politica, quando la lotta scema non resta nulla.

Però il lavoro di partito che ho vissuto io peccava nell’intervento. Le avanguardie della classe devono essere presenti ovunque ci sia qualcosa che si muove. E quindi partecipare attivamente alle lotte operaie, stare nei sindacati combattivi. Non ci si può limitare alla propaganda del partito o mettere il lavoro di partito in contraddizione con quello della lotta rivendicativa. Io non sono d’accordo con quei compagni che stanno a casa a scrivere e magari criticano pure la gente che fa.

Com’è la situazione in azienda oggi?

Oggi se tu vieni da me, sembra che non ci sia da lottare, ma in realtà motivi per lottare ci sono sempre. Stanno assumendo interinali senza limiti. Sono tanti giovani e giovanissimi, tra i 18 e i 20 anni. Ora nella mia fabbrica ci sono almeno un terzo di precari. Le nuove assunzioni sono sempre interinali. Hanno fatto incentivi al licenziamento della vecchia guardia per assumere precari. La questione della precarietà è una questione determinante in questa fase. Anche se ti fanno un contratto indeterminato, te lo fanno comunque col Jobs act. Chi entra come precario oggi non ha più una prospettiva: non gli rimane che lottare. E sbaglia chi è rimasto con il vecchio inquadramento e non è interinale a pensare che se deve saltare qualcuno salteranno prima gli interinali: in verità stanno togliendo diritti a tutti con questo sistema.

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