Puoi presentarti brevemente e raccontarci come sei arrivato a partecipare alla lotta della Rhodiatoce?
Sono Pietro Mazzola e mi sono iscritto alla Federazione Giovanile Comunista nell’autunno del 1960. Provengo da una famiglia già politicizzata. Mio padre era operaio nonché sindacalista iscritto al PCI dal 1945 e diversi miei zii erano comunisti perciò ho cominciato a fare attività politica da giovane, mentre frequentavo l’Istituto tecnico Cobianchi. Dopo il servizio militare sono stato assunto alla Rhodiatoce (poi Montefibre) presso il Servizio sicurezza addetto alla manutenzione. Dopo due anni sono passato nell’officina centrale. Alle elezioni del 1970 sono stato eletto consigliere comunale. In quel periodo all’interno della fabbrica era in corso una lotta nata dalla decisione dell’azienda di licenziare due operai, lotta che poi si è sviluppata ulteriormente attorno alla rivendicazione importante, avanzata per la prima volta in Italia, della riduzione dei carichi di lavoro. Da questa vicenda sono scaturite le dure lotte successive (con blocchi ferroviari e stradali) che hanno avuto come protagonisti gli operai della Montefibre e il territorio.
Dopo queste lotte è arrivata anche la repressione: qual è stata la vostra risposta?
Innanzitutto, occorre fare una premessa. Il blocco stradale-ferroviario è un reato (interruzione di servizio pubblico) e il Procuratore della Repubblica del Tribunale di Verbania fu particolarmente severo nel tentativo di reprimere le lotte dei lavoratori in difesa del loro posto di lavoro. Attorno a queste lotte, però, raccogliemmo la piena solidarietà delle forze politiche e dell’intera città, con i parroci in testa. Molte proposte su come far fronte alle problematiche logistiche della lotta arrivavano da tutte queste realtà. Sta di fatto che, dopo le elezioni, a governare la città c’era una coalizione di “centro-sinistra”(PSI-DC), ma il sindaco socialista a seguito della pressione delle lotte cittadine si dimise e, grazie anche alla fuoriuscita di quattro consiglieri del gruppo della DC, venni eletto sindaco con una giunta monocolore (PCI-PSIUP).
Tornando alla tua domanda, dalla Procura vennero emessi alcuni mandati di arresto nei confronti di alcuni lavoratori e in particolare di due leader delle lotte. Alcuni vennero arrestati mentre altri si diedero alla latitanza nascondendosi in posti “sicuri”. Ci furono i processi e siccome alcuni operai erano rinchiusi nel carcere giudiziario di Verbania pensammo come Partito di allestire, sotto le feste di Natale, una tenda in solidarietà ai compagni incarcerati e latitanti.
A quel tempo ero segretario della sezione locale del PCI. La tenda fu un modo per testimoniare quanto accadeva e mostrare concretamente la nostra solidarietà ai lavoratori colpiti dalla repressione. L’ultimo dell’anno decidemmo di fare una fiaccolata cittadina di solidarietà che, dopo aver percorso il lungolago e attraversato l’intera città, finì davanti al carcere per consentirci di salutarli. In quell’occasione la manifestazione fu talmente grande che le guardie carcerarie permisero ai compagni in prigione di arrivare alle finestre per vederla. Tra l’altro ci onorò della sua presenza e solidarietà l’attore Gian Maria Volontè che, se ben ricordo, era stato eletto in quel periodo consigliere regionale e proprio in quei giorni era a Novara per girare il famoso film La classe operaia va in paradiso. In quell’occasione successe che, tornando alla tenda di solidarietà, le Forze dell’Ordine scattarono una foto a un nostro cartello giallo e nero, come quelli per le indicazioni dei siti turistici, con scritto: “XX secolo era barbarica -Palazzaccio dell’Ingiustizia- 2.000 km circa”(1) e il procuratore pensò bene di presentare denuncia per “offesa ad organo giudicante”. La denuncia colpì chi aveva chiesto al Comune l’autorizzazione per occupazione di suolo pubblico ovvero il sottoscritto e un altro compagno, segretario della sezione di fabbrica del PCI e poi assessore come me. La Cassazione indicò il Tribunale di Genova per giudicare il reato di offesa a organo giudicante (i giudici che stavano svolgendo il processo per i blocchi stradali e ferroviari). Da Genova arrivò a Verbania per interrogarci il sostituto procuratore Mario Sossi(2). Il Partito ci procurò un avvocato difensore, Raimondo Ricci, un ex partigiano, che divenne poi senatore e presidente nazionale dell’Anpi. Ricci, però, non se la sentiva di assumere da solo la difesa di un processo che si presentava difficile e chiese di essere affiancato da un altro avvocato, un “principe del Foro”, un certo Monteverdi. Vincemmo il processo, ma subito dopo indagarono il segretario provinciale perché sul giornaletto era uscito il disegno della tenda con tanto di bandiera; il nuovo procedimento si tenne a Varese e uscimmo vittoriosi anche da quello.
Tieni conto che – questo dettaglio è importante – il Sostituto Procuratore di Verbania, in teoria parte offesa, venne a difenderci al processo. Questo per farti capire come al tempo ci fosse un contesto di larghissima solidarietà e partecipazione. Tutti erano coinvolti, anche le forze politiche di sistema e le istituzioni. Era il sistema che lo imponeva, oltre, naturalmente, alla forza della mobilitazione: rischiavano di perdere voti. Fu una lotta corale, che non vide solo i comunisti alla sua testa.
Questo è un importante insegnamento per l’oggi. Mostra come possono allargarsi le lotte, vedi ad esempio quella degli operai GKN, che ha coinvolto tutto il territorio fiorentino e anche tecnici e rappresentanti politici. È grazie al loro contributo che è stato stilato il piano industriale dal basso presentato poi in Parlamento…
Esattamente. Anche perché per occupare una fabbrica venti giorni ci si devono assumere responsabilità importanti. Bisognava mettere la zona in sicurezza, provvedere alla raccolta di cibo e per questo, ad esempio, noi avevamo creato una mensa popolare con il supporto del territorio. E poi si doveva continuare la lotta, anche in forme diverse. Non si potevano più fare blocchi stradali? E allora biciclettata di massa fino a Stresa! Oppure tutti quanti sullo stesso traghetto senza pagare. E una roba del genere di disagi ne provoca! Insomma, la nostra è stata una lotta ampia e dalle forme originali, di come non se ne vedono più. Oggi, per esempio, in Puglia sull’ex-Ilva di Taranto le masse sono spaccate: gli abitanti vogliono la fabbrica chiusa mentre gli operai vogliono salvaguardare il posto di lavoro.
Da sindaco, che provvedimenti hai preso quando l’azienda ha deciso di andarsene (delocalizzando) e gli operai hanno avviato una vertenza? Ci racconti la vicenda?
Io sono stato eletto sindaco il 13 marzo 1971 e a dicembre di quell’anno si costituì ufficialmente, con la prima riunione del comitato direttivo, il “Consorzio per lo sviluppo del Basso Toce”. Ne facevano parte cinque Comuni (a quell’epoca tutti con sindaci comunisti): Verbania, Gravellona Toce, Baveno, Omegna e Mergozzo. Per statuto il sindaco di Verbania era il presidente del Consorzio. L’ente aveva come scopo la realizzazione di servizi di carattere sovracomunale come la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti, il trasporto pubblico, l’area industriale e il piano regolatore intercomunale. Proprio mentre si stava cercando una nuova area da adibire a nuovo sito industriale, la Rhodiatoce decise di delocalizzare con la scusa che non era più conveniente produrre dove stava (probabilmente anche per via delle lotte operaie). Allora, in qualità di presidente del Consorzio, dissi che avremmo trovato noi un sito nella provincia dove reimpiantare la fabbrica e lo individuammo vicino a Mergozzo. Iniziò così l’iter che portò anche all’espropriazione dei terreni che alcuni privati non erano disposti a cedere amichevolmente. Si sono, purtroppo, verificati degli scontri a Mergozzo tra chi era favorevole all’insediamento e aveva ceduto i propri terreni e chi, invece, era contrario. Quando dovevano iniziare i lavori sono iniziati gli scontri, l’opposizione era forte, avevamo contro perfino il sindaco comunista. Ai tempi c’era un funzionario, un certo dottor Mantovani, che, di tanto in tanto, veniva da Milano con i soldi per liquidare chi vendeva i terreni. Questo ci raccontò che la stessa cosa avveniva ad Acerra; che c’era molta resistenza da parte nostra eppure qui da noi i terreni erano incolti, mentre da Fondotoce a Montorfano e al ponte di Gravellona si facevano quattro raccolti l’anno e nessuno diceva niente. Il ruspista a un certo punto non sapeva come fare, considerando la forte opposizione della gente e anche l’ingegnere responsabile venne da me a chiedermi come procedere perché non poteva dare il via ai lavori. Offrì anche più soldi al ruspista che allora iniziò a mettere in moto la macchina. L’indomani mattina tornai su da loro con dei compagni partigiani a vedere i lavori che continuavano.
Buona parte delle masse era, quindi, contro lo svolgimento dei lavori?
A Mergozzo ci furono molte riunioni. Quando il Consiglio comunale dovette approvare il piano io ero presente in qualità di presidente del Consorzio e realizzatore dell’area. Da Verbania i lavoratori vennero in massa, occuparono la piazza e la strada antistanti il Municipio. La sala del Consiglio era occupata per larga parte dagli oppositori, ma anche dai lavoratori di Montefibre. Il clima era teso ed era difficile anche esporre i contenuti del progetto. Alla fine, però, il progetto venne approvato a maggioranza dal Consiglio comunale. Solo pochi votarono contro.
Rispetto alla tua esperienza in Rhodiatoce, che consigli daresti ai giovani operai che si organizzano per lottare?
La nostra esperienza era calata in un determinato contesto, in una situazione politica generale che stava montando e maturando. Tieni conto che la nostra prima lotta la facemmo nel 1969 ed essa portò alla convergenza tra operai e studenti: quando frequentavi un istituto tecnico non ti sentivi studente figlio della borghesia, eri studente grazie alle conquiste della classe operaia. Ci incontrammo anche con gli studenti universitari che qui avevano frequentato la sezione del PCI, anche se alcuni di loro avevano posizioni di sinistra più radicali. Per dare consigli oggi bisogna sempre tener conto del contesto. La nostra è stata un’esperienza particolare di una grossa fabbrica di 4.273 dipendenti, più le ditte appaltatrici e l’indotto. Siamo riusciti a coinvolgere l’intera città e i comuni del circondario perché molti lavoratori provenivano da lì. Quindi, non ho consigli generici da dare. Prima hai nominato l’esperienza della GKN di Firenze, che conta circa quattrocento dipendenti ed è collocata in una città molto popolosa. Verbania, a confronto, è una piccola cittadina, ma siamo riusciti a coinvolgere suppergiù cinquemila persone. Poi, come detto, ci sono città come Taranto dove la popolazione è spaccata in due. Per questo dico che bisogna sempre guardare al contesto particolare. Se allora noi percepivamo la vicinanza e la solidarietà delle altre fabbriche, questo avveniva proprio in virtù di un contesto specifico. Ricevevamo solidarietà da tutta l’Italia. L’eco delle nostre lotte raggiunse la stampa nazionale anche in virtù del fatto che tutti i massimi dirigenti dei sindacati nazionali vennero a Verbania in nostro sostegno. Anche il giudice che venne a testimoniare al processo di Genova, che nel frattempo era stato mandato a Ischia a fare il pretore, ci mandò un telegramma che conteneva finanche qualche consiglio utile. Quindi, c’erano sempre dei risvolti per cui anche chi ti era “nemico” vedeva la situazione diversamente.
NOTE
1. Il cartello faceva riferimento al “grande processo contro ETA” montato dal regime franchista per soffocare la lotta per l’indipendenza e l’autodeterminazione del popolo basco. Iniziato il 3 dicembre 1970 presso il Tribunale militare di Burgos, il processo contro sedici prigionieri baschi accusati di “terrorismo e ribellione militare” per l’uccisione del capo della polizia politica della provincia di Guipuzcoa, Melitòn Manzanas (macellaio del popolo basco e torturatore fascista formatosi alla scuola della Gestapo che ETA aveva giustiziato il 2 agosto 1968), suscitò un moto di ribellione in tutti i Paesi Baschi, il rapimento del console della Germania occidentale Eugen Beihl da parte di ETA e manifestazioni di solidarietà con i prigionieri baschi a livello internazionale. Tutto questo costrinse il Tribunale a commutare in ergastoli le pene di morte richieste dall’accusa. [N.d.R.]
2. Si tratta del Mario Sossi che venne sequestrato dalle Brigate Rosse il 18 aprile 1974 e rilasciato il 23 maggio dello stesso anno. [N.d.R.]