I risultati delle elezioni regionali in Lombardia e in Lazio chiudono il cerchio sulla narrazione dell’ascesa di Giorgia Meloni, un cerchio idealmente aperto dallo scorso luglio con la convocazione delle elezioni politiche e artificiosamente allargato dalla propaganda di regime.
L’ascesa di Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia e la pletora di nostalgici del Ventennio era ed è tutt’altro che irresistibile. Anzi, a ben vedere esiste solo come fenomeno mediatico.
Se i risultati delle elezioni politiche del 25 settembre avevano già fatto emergere lo scollamento fra le larghe masse popolari e la classe dominante, i suoi partiti (in particolare con i rappresentanti dell’Agenda Draghi), il suo sistema politico e le sue “liturgie democratiche” (l’astensione fu del 36%), le elezioni regionali in Lombardia e Lazio aggravano il distacco e, con esso, le tensioni e le contraddizioni nella maggioranza di governo.
Per quanto riguarda l’allargamento del distacco è eloquente il dato dell’astensione record, intorno al 60%. Troppo alta per non creare il cortocircuito fra la realtà e la propaganda, in particolare con il commento di Giorgia Meloni: “il governo esce rafforzato da queste elezioni”. I partiti di governo “escono rafforzati” solo in termini percentuali, in verità il numero assoluto dei voti dimostra proprio il contrario.
Per quanto riguarda le tensioni e le contraddizioni nella maggioranza di governo, ce ne sono alcune palesi e altre sotto traccia. Le dichiarazioni di Berlusconi sul sostengo del governo italiano a Zelensky e all’esercito ucraino, a urne ancora aperte, appartengono alle prime. L’inizio della resa dei conti – che parte dalla Lombardia – per la spartizione di poltrone e traffici fra Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia appartiene alle seconde.
Pertanto no, il governo Meloni non esce rafforzato dalle elezioni regionali, esce ulteriormente indebolito. Ma siccome la cosiddetta “opposizione” dell’altro polo delle Larghe Intese (dal PD al M5S) ne esce con le ossa rotte, allora Meloni, Fontana, Rocca & C. possono permettersi di cantare vittoria. Ma i fatti hanno la testa dura.
Le Larghe Intese in Lombardia
Partito | Risultati regionali 2018 affluenza 73,1% | Risultati politiche 2022 affluenza 70,1% | Risultati regionali 2023 affluenza 41,6% |
FdI | 190.800 (3,6%) | 1.443.692 (28,5%) | 725.500 (25,2%) |
Lega | 1.533.787 (26,6%) | 671.814 (13,3%) | 476.175 (16.50%) |
FI | 750. 739 (14,30%) | 398.554 (7,9%) | 208.420 (7,2%) |
PD | 1.008.560 (19,2%) | 961.894 (19,0%) | 628.774 (21,8%) |
Alleanza verdi / sinistra | / | 192.939 (3,8%) | 93.019 (3,2%) |
M5S (nel 2018 e nel 2022 si presentava da solo) | 933.382 (17,8%) | 378.885 (7,5%) | 113.229 (3,9%) |
Per Attilio Fontana le cose sono andate “talmente bene” che ha perso un milione di voti rispetto alle precedenti elezioni regionali (2.793.369 i voti che ha raccolto nel 2018, 1.774.477 nel 2023). I tre partiti principali della coalizione di Centro destra perdono, insieme, circa un milione di voti rispetto al 2018. Se ci limitiamo a Fratelli d’Italia, ha perso oltre 700mila voti in soli 5 mesi (di governo!).
Il PD ha perso più di 350mila voti in 5 anni e nella caduta libera si è portato appresso il M5S, per la prima volta alleato elettorale (il M5S perde più di 800mila voti in 5 anni). Tutti i voti che mancano all’appello sono quelli degli astenuti.
Le Larghe Intese in Lazio
Partito | Risultati regionali 2018 affluenza 66,3% | Risultati politiche 2022 affluenza 64,3% | Risultati regionali 2023 affluenza 37,2% |
FdI | 220.460 (8,7%) | 844.939 (31,2%) | 519.633 (33,6%) |
Lega | 252.772 (9,9%) | 170.384 (6,3%) | 131.631 (8.50%) |
FI | 371.155 (14,6) | 185.540 (6,8%) | 130.638 (8,4%) |
PD | 539.131 (21,2 %) | 523.083 (19,3%) | 313. 023 (20,5%) |
Alleanza verdi / sinistra | / | 104.572 (3,9%) | 42.314 (2,7%) |
M5S | 559.752 (22%) | 406.065 (15%) | 132.041 (8,5%) |
Polo progressista | / | / | 18. 727 (1,2%) |
Per inquadrare i risultati nel Lazio va tenuto conto che l’affluenza al voto (37,2%) è stata inferiore rispetto alla Lombardia (41,7%). Alle regionali del 2023 i principali partiti della coalizione di Centro destra perdono, insieme, più di 62mila voti rispetto al 2018. Fratelli d’Italia perde 325mila voti rispetto alle elezioni politiche dello scorso settembre. Il PD perde più di 200mila voti in 5 anni.
Da segnalare la batosta del M5S: benché corresse da solo (e non alleato al Pd come in Lombardia), ha perso 400mila voti rispetto a 5 anni fa.
La sintesi è che non solo il governo di Giorgia Meloni, ma tutto il sistema politico delle Larghe Intese esce con le ossa rotte. Tuttavia, è opportuno fare un ragionamento sull’astensione. Il 60% di astenuti è un dato positivo?
Se da una parte è la manifestazione dello scollamento delle larghe masse dalla classe dominante, dal suo sistema politico, dai partiti delle Larghe Intese – e pertanto sì, è un elemento positivo – dall’altra è anche la manifestazione di un vuoto da riempire e un’occasione persa, che chiama alla responsabilità e al cambiamento noi comunisti e quanti vogliono assumere un ruolo positivo nella lotta di classe in corso nel paese.
Per quanto riguarda il vuoto da riempire, il ragionamento è il seguente.
Per alimentare il movimento che trasforma la società non è sufficiente lo scollamento fra le larghe masse e la classe dominante. Quello scollamento, spontaneamente, non diventa mobilitazione per rovesciare la classe dominante; la protesta non diventa automaticamente mobilitazione per sostituire le autorità della classe dominante con le nuove autorità pubbliche che sono espressione delle masse popolari organizzate.
Soltanto gli ingenui, gli illusi, gli avventuristi e più in generale chi non ha fatto un bilancio della storia del movimento comunista (del nostro paese e internazionale) collegano automaticamente il crollo della fiducia e del legame fra le larghe masse e la classe dominante alla “rivoluzione che scoppia”.
La verità è che quel vuoto va riempito, la verità è che il nuovo potere delle masse popolari organizzate deve svilupparsi fino a soppiantare il potere dell’attuale classe dominante.
C’è davvero poco di cui essere soddisfatti di fronte all’avanzata dell’astensionismo, senza un progetto, un piano, una prospettiva per trasformare l’astensione elettorale (che è solo una delle molte manifestazioni dello scollamento fra masse popolari e classe dominante) nella condizione per incanalare la protesta, il disinteresse e il distacco in organizzazione, mobilitazione e coordinamento, in lotta per la costruzione del nuovo potere (leggi “Il nuovo potere, il potere degli organismi operai e popolari”).
Per quanto riguarda l’occasione persa, il discorso è il seguente.
Se vogliamo vedere in faccia la realtà, con le elezioni regionali non si chiude solo il cerchio della propaganda di regime sull’irresistibile ascesa di Giorgia Meloni, si chiude anche il cerchio delle irresponsabili velleità di essere “l’unica vera opposizione” dei partiti e delle organizzazioni anti Larghe Intese che invece di coalizzarsi vanno ognuno per conto proprio.
Già dai risultati delle elezioni politiche del 25 settembre, con il fallimento rispetto alla possibilità di riempire il parlamento di persone esterne al circolo di pressioni, ricatti, “mercato delle vacche” a cui i partiti delle Larghe Intese hanno ridotto le assemblee elettive nel processo di progressivo svuotamento del loro ruolo (leggi “Non piangere sulla disfatta elettorale. Fare un bilancio serio per avanzare!” Comunicato della Direzione Nazionale del P.CARC del 25.9.2022 ) erano emersi insegnamenti chiari, in particolare due:
– i promotori delle liste anti Larghe Intese devono urgentemente avviare un percorso di confronto e trattare apertamente e fino in fondo tutti i temi spinosi, le questioni su cui non c’è accordo, devono metterle nero su bianco e aprire la discussione alle masse popolari (iscritti, elettori, organismi operai e popolari, movimenti) per superarle in modo trasparente e democratico, per arrivare a una sintesi che sia coerente con le aspirazioni delle masse popolari (come fece NUPES per le elzioni legislative del 2022 in Francia);
– le liste anti Larghe Intese devono condurre la campagna elettorale con iniziative di rottura, senza limitarsi alle comparsate in Tv, ai comizi, agli aperitivi e ai piagnistei. Se è vero – ed è vero – che il meccanismo elettorale è un a farsa, un sistema antidemocratico, allora quella farsa va rovesciata con iniziative che rompono le liturgie e mettono al centro l’organizzazione e la mobilitazione delle masse popolari. Se accettano di rispettare le regole antidemocratiche, i lamenti per “il poco spazio”, “il poco tempo” e “la legge elettorale ingiusta” lasciano il tempo che trovano, sono manifestazione di impotenza (del resto le “regole” sono già note prima che inizi la campagna elettorale!).
Liste anti Larghe Intese in Lombardia
Partito | Risultati regionali 2018 affluenza 73,1% | Risultati politiche 2022 affluenza 70,1% | Risultati regionali 2023 affluenza 41,6% |
Unione Popolare (nel 2018 si considera la lista “Sinistra per la Lombardia”) | 35.714 (0,68%) | 57.490 (1,1%) | 39.913 (1,39%) |
Liste anti Larghe Intese in Lazio
Partito | Risultati regionali 2018 affluenza 66,3% | Risultati politiche 2022 affluenza 64,3% | Risultati regionali 2023 affluenza 37,2% |
Unione Popolare (nel 2018 si considera la lista “Potere al Popolo”) | 33.372 (1,32%) | 46.538 (1,7%) | 10.289 (0,67%) |
PCI | / | / | 10.212 (0,66%) |
I risultati delle lista anti Larghe Intese in Lombardia e in Lazio sono solo l’ulteriore conferma di quanto e come la tara dell’elettoralismo danneggia chi la pratica e allontana militanti ed elettori da queste liste. L’elettoralismo offusca, immobilizza e relega all’angolo i promotori delle liste anti Larghe Intese.
In Lombardia si è presentata solo Unione Popolare, ma il perseverare sulla stessa strada fallimentare (una campagna elettorale di fatto inesistente tra i lavoratori e le masse popolari) già seguita per le elezioni politiche del 25 settembre ha prodotto un risultato dietro il quale i promotori non possono più nascondersi.
In Lazio si sono presentate, divise, PCI e Unione Popolare. Il risultato?
Sia il Lombardia che in Lazio, nessuna lista anti Larghe Intese ha approfittato dell’astensionismo diffuso, nessuna ha fatto una campagna per trasformare l’astensione di protesta in mobilitazione; in entrambi i casi hanno contribuito ad aumentare l’astensione.
Tiriamo una conclusione. Per fare i conti con la realtà vanno banditi disfattismo e attendismo
Anche i risultati delle elezioni regionali dimostrano che la via elettorale NON è (e non può essere) la via principale per imporre il governo che serve ai lavoratori e alle masse popolari. Le elezioni e la campagna elettorale possono e devono essere usate per allargare la mobilitazione e l’organizzazione dei lavoratori e delle masse popolari.
Concludiamo su questo punto, su questo aspetto, perché anche dopo questa ennesima “batosta elettorale” per la sinistra, nella base dilaga il disfattismo.
“L’idea che per formare un governo bisogna passare per le elezioni, vincerle e poi, se si riesce a ottenere più del 50% dei voti, allora è possibile formare un governo è stata smentita più volte dall’esperienza. I casi più recenti in cui i vertici della Repubblica Pontificia, trovatisi in difficoltà per governare il paese, hanno cambiato governo senza passare per elezioni e hanno “convinto” lo stesso Parlamento a votare un nuovo governo sono:
1. la messa fuori gioco di Bersani che aveva vinto le elezioni del 2013 e sua sostituzione con Letta;
2. la sostituzione di Berlusconi con Monti nel dicembre 2011;
3. la sostituzione di D’Alema a Prodi nel novembre 1998;
4. la sostituzione di Dini a Berlusconi nel gennaio 1995;
5. la sostituzione di Fanfani a Tambroni nel luglio 1960.
La lezione è che occorre che gli organismi operai e popolari, in combinazione con gli esponenti democratici della società civile, i dirigenti della sinistra sindacale, gli esponenti non anticomunisti della sinistra borghese creino nel paese una situazione ingestibile dai vertici della Repubblica Pontificia con la soluzione di governo in carica, per indurli a installare un governo con cui “sedare (calmare) la piazza”, convinti di riuscire a riprendere in mano le cose. (…)
Rendere ingovernabile il paese significa in primo luogo mobilitare i lavoratori avanzati e combattivi a costituire in ogni azienda capitalista e pubblica organismi che prendono in mano le aziende, escono dalle aziende, prendono via via la testa di tutti i lavoratori (compresi i precari, le partite IVA e i lavoratori autonomi sostenendo le loro iniziative di disobbedienza alle autorità statali e locali, di sciopero fiscale e altre): agiscono cioè da nuove autorità pubbliche. Nel nostro paese basta un centinaio o anche meno di
– organismi aziendali come il Collettivo di Fabbrica della GKN che fanno delle aziende minacciate di delocalizzazione, chiusura, ristrutturazione dei centri promotori della lotta contro lo smantellamento dell’apparato produttivo del paese e come il CALP di Genova che bloccano i porti italiani al traffico di armi,
– organismi territoriali come i NO TAV della Val di Susa che impediscono o boicottano la realizzazione di grandi opere speculative di devastazione del territorio,
– organismi come il Movimento Disoccupati 7 Novembre e il Cantiere 167 di Napoli,
– organismi come Fridays For Future, Extinction Rebellion e Ultima Generazione,
– come i Comitati per l’Acqua Pubblica, i comitati per la casa e altri,
coordinati tra loro e orientati a costituire un governo d’emergenza di loro fiducia, per rendere ingovernabile il paese dai vertici della Repubblica Pontificia e costringerli a ingoiare (provvisoriamente nei loro propositi) un governo d’emergenza. Due sono le strade possibili.
a) Pensiamo alle “accampate” promosse negli anni passati dai coordinamenti No Debito, Eurostop, No Monti Day e simili, però organizzate in un contesto in cui 1. un certo numero di organismi operai e popolari agiscono da nuove autorità pubbliche e 2. i personaggi di loro fiducia si sono costituiti in un organismo (in passato lo abbiamo chiamato comitato di salvezza o di liberazione nazionale, ma quello che conta è la sostanza, non il nome) che nega ogni legittimità del governo in carica e il suo diritto a governare, che lotta per affermarsi come governo legittimo del paese in nome degli interessi delle masse popolari, che assume di rappresentare, e che sono calpestati dal governo in carica (quindi un organismo costituto non per contrattare e rivendicare al governo in carica, ma con l’obiettivo di cacciarlo e di mobilitare le masse popolari a sviluppare su scala crescente tutte le iniziative di cui sono capaci, fino alla vittoria). In una situazione del genere, se proprio serve, possiamo anche indurre un Parlamento formato da gente in vendita al miglior offerente ad avallare un governo composto da persone designate dalle organizzazioni operaie e popolari.
b) Un’altra strada è quella che ha fatto il M5S da noi nel 2018 e Syriza in Grecia nel 2015: stante l’avanzare della crisi del sistema politico, una coalizione anti Larghe Intese si afferma alle elezioni e riesce ad andare al governo. Se ha a che fare con organismi come il Collettivo di Fabbrica della GKN, organizzati e con iniziativa, difficilmente potrà prescindere da essi, dalle loro rivendicazioni, dai decreti anti-delocalizzazione e dai piani per la mobilità sostenibile che presentano. Anziché calare le braghe, come hanno fatto sia il M5S sia Syriza, dovrà avanzare. Non vuol dire che al GBP si arriva attraverso le elezioni: quello che fa la differenza non è la vittoria alle elezioni, ma l’esistenza di un certo numero di organizzazioni operaie e popolari, il loro coordinamento e il loro orientamento a prendere in mano le sorti del paese costituendo un proprio governo d’emergenza.
La possibilità di imboccare una di queste due strade si è presentata più volte nel nostro paese, in particolare nel 2010 con il movimento messo in moto dalla resistenza degli operai di Pomigliano al piano Marchionne ed esteso a livello nazionale dall’iniziativa della FIOM e nel 2018 con la breccia aperta nel sistema politico delle Larghe Intese con l’affermazione del M5S” – dalla Dichiarazione Generale in discussione al VI Congresso del P.CARC.