Lo stabilimento Portovesme, in Sardegna, sta per fermare la produzione a causa della crisi energetica: i costi dell’energia sono diventati incompatibili con il profitto della multinazionale Glencore. Il risultato è un altro passo nello smantellamento del tessuto produttivo del paese. Un lavoratore riassume per Resistenza la situazione.
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Lavoro alla Portovesme srl di Portoscuso (SU) da vent’anni. Lo stabilimento è stato aperto nel 1970 e nel 1999 è passato al gruppo Glencore, una multinazionale anglo-svizzera. Produciamo piombo, zinco e quote di oro, rame e argento, che non produrremo più con la chiusura della linea di piombo e dello stabilimento di S. Gavino.
La nostra fabbrica è stata dichiarata “di interesse strategico” a livello nazionale e se una azienda è strategica va protetta. Ma questo non è avvenuto e tutt’ora non avviene. Non importa se il governo è di sinistra, di destra o di centro, non ha mai garantito la tutela del tessuto produttivo. Non solo qui da noi alla Portovesme, parlo anche di Gkn, Whirlpool, Sanac, dei porti, dei trasporti, ecc. Anche alla Portovesme sembra che stiamo entrando in quel sistema in cui i padroni portano via tutto.
Abbiamo avuto degli infortuni più o meno gravi negli ultimi mesi del 2022 e anche nel 2017.
E come, spesso succede, vengono segnalati ma poi non se ne parla più e molti di questi vanno nel dimenticatoio. Nel 2017 un operaio rumeno è morto schiacciato da un carrello elevatore, ciò ha comportato un’assemblea in memoria dell’operaio, una forma di solidarietà. Anni addietro una morte sul posto di lavoro avrebbe fatto fermare uno stabilimento, alla Portovesme NO!
Il 31 dicembre ha chiuso il servizio medico h24 che la fabbrica andava riducendo da oltre 30 anni (il servizio era diventato di 12 ore, esclusi i festivi). Vuol dire che un infortunio semplice può diventare grave. Nelle poche assemblee che si fanno non si capisce realmente cosa succede, c’è una sorta di complicità e silenzio sindacale: quando succedono queste cose non se ne deve parlare.
Qui da noi ora è in corso una vertenza per il costo dell’energia, ma che parte da lontano. Anni addietro avevamo lo stesso problema che fu risolto con la mobilitazione “tradizionale”, ma anche da altre iniziative. Si entrò in Regione a fare una riunione e non si è presentò nessuno, così abbiamo detto: “noi da qua non usciamo!”. Con noi c’era anche l’Amministratore…. È intervenuta anche la polizia per sbloccare la situazione… ma era un periodo di grande mobilitazione, facevamo le battaglie e ogni manifestazione era sempre partecipata. Si facevano anche due o tre pullman per Cagliari, per i presidi e le manifestazioni.
Penso che la partecipazione dei lavoratori dipendesse dal fatto che c’era un coinvolgimento che partiva prima di tutto dal sindacato: si preparavano le mobilitazioni, tutti sapevano cosa stava succedendo.
Ora è diverso. Adesso i delegati sindacali di punto in bianco ti dicono: “domani a Cagliari si fa un sit-in”. Son cambiate un po’ le modalità, è cambiata la partecipazione, ora la trasparenza non esiste: quando il sindacato va a parlare con l’azienda sa che deve dare un colpo alla botte e uno al cerchio. Spesso dà troppi colpi a noi. E ci ritroviamo nella situazione che non possiamo neanche discutere. Quando i lavoratori fanno proposte, in genere cala il silenzio e non vengono accolte.
Quando in passato si è era presentato il problema del caro energia non si è mai parlato di chiudere: abbiamo fatto cicli di CIG, ma gli impianti non si sono mai fermati. Tutta la Portovesme era riuscita a strappare un contratto tale da garantire le produzioni con costi energetici non elevati e ci è andata bene.
Avremmo dovuto avere questo contratto fino al 2024, ma il nuovo Amministratore ha deciso di non rinnovare questo “regime agevolato” perché ha preferito il mercato libero e ciò gli ha consentito di fare molti profitti, profitti che però noi non abbiamo visto. Ha deciso di intraprendere una strada per un guadagno di 12 mesi, ma se avessimo mantenuto quelle tariffe probabilmente avremmo marciato ancora a pieno regime, considerato anche che siamo stati una delle poche fabbriche in Italia che non ha chiuso durante la pandemia. “Se non c’è energia non si riparte, fermiamo tutto”, è una sorta di ricatto, “ringraziate se state ancora lavorando” ci dicono, noi siamo in questa situazione ormai da più di un anno.
È evidente che la situazione va sbloccata. Dobbiamo tornare ad assumere un ruolo, i lavoratori devono essere i primi a organizzarsi e a uscire dal guscio, iscritti e non iscritti al sindacato. Spesso alla fermata degli autobus si discute tra colleghi e inizio a non essere il solo a pensarlo, in vari mi dicono: “cavolo hai ragione! Sarebbe da fare così”.
Proprio recentemente si diceva che il coinvolgimento dovrebbe partire da noi, che si dovrebbe parlare anche nelle famiglie, e un collega ha detto “sì, mia moglie vorrebbe venire alla prossima assemblea” e un altro fa “anche mia moglie”.
Adesso noi attendiamo. Ci saranno degli incontri, l’obbiettivo è allargare la partecipazione a quegli incontri perché di regola veniamo lasciati fuori. Come se non fossimo in grado di capire e di decidere… è come dire che noi siamo quelli che dobbiamo portare a casa lo stipendio, ma non dobbiamo fiatare e ragionare… e questa è una cosa brutta. Ma succede. Anche nella mia azienda, dove ci sono delegati che si vantano della particolare democrazia interna… poi è da oltre un anno che aspettiamo le elezioni per il rinnovo delle Rsu… Perché poi, a bene vedere, la questione della democrazia in fabbrica è anche più ampia: tutti i lavoratori hanno diritto ad avere una rappresentanza sindacale, che siano iscritti o meno al sindacato. Il sindacato è composto sicuramente dai delegati, ma è composto principalmente dagli iscritti che permettono a quel sindacato di esistere. È una cosa banalissima, è scritto anche nello statuto, noi dovremmo essere un “baluardo di democrazia”. E infatti vorremmo una rappresentanza più diretta: tante volte abbiamo chiesto “perché non possiamo partecipare con una delegazione agli incontri e ai tavoli con il Presidente della Regione, non siamo parte in causa? Sì che lo siamo!”.
Bisogna incalzare i delegati sindacali, chiamarli nei reparti, farli scendere. Il problema è che la gente, quando esce dopo otto ore di lavoro, vuole andare a casa. Si parla e discute negli spogliatoi, ma le occasioni sono poche. Non si riesce perché noi smontiamo da lavoro e, a meno che non ci si veda poi all’uscita che magari ci mancano 5-10 minuti e si riesce a chiacchierare, non c’è tempo. Non c’è mai tempo, stiamo sempre correndo. Io a volte lo dico, stiamo sempre correndo e rischiamo di farci superare dall’azienda e poi continueremo a correre, ma l’azienda sta correndo più di noi.
Non siamo sindacalisti, però l’attività sindacale dentro a una fabbrica è previsto che venga fatta non solo da Rsu e delegati sindacali, ma anche dagli stessi lavoratori. I collettivi all’interno delle fabbriche devono tornare ad esistere e devono farlo proprio in conseguenza dei problemi che si vengono a creare, dove più persone partecipano c’è più possibilità di risoluzione del problema. Più c’è tensione, più c’è l’unione, più le persone che stanno dall’altra parte e le istituzioni si rendono conto che c’è un problema sociale.
Lettera firmata