Le masse popolari peruviane, in particolare indios, campesinos e minatori, continuano da più di un mese la mobilitazione contro la destituzione del Presidente Pedro Castillo, arrestato con l’accusa di ribellione e sovversione e sostituito con la sua ex vice, Dina Boluarte, oggi a capo di un governo di destra.
La protesta ha il suo epicentro nelle regioni meridionali e nelle aree rurali più povere ed emarginate del paese, ma coinvolge tutte le principali città ed esige la liberazione immediata di Pedro Castillo, le dimissioni di Dina Boluarte, nuove elezioni politiche e, soprattutto, una nuova Costituzione. Alle rivendicazioni politiche si somma la rabbia contro la violenta repressione dell’esercito e della polizia, che ha già fatto (secondo i dati forniti dal governo, ma è impossibile escludere numeri maggiori) più di 50 vittime e diverse centinaia di feriti.
Il 19 gennaio si è svolta una grande manifestazione nazionale nella capitale, la “Marcia per la presa di Lima”, nel contesto di un “Paro nacional”, uno sciopero generale nazionale permanente, accompagnato da mobilitazioni in tutte le principali città e regioni del paese ad opera dei comitati di lotta popolare, dei sindacati (con alla testa la Cgtp – Confederacion General Trabajadores de Perù), gruppi politici e associazioni.
I manifestanti hanno realizzato 127 blocchi stradali in 18 regioni impedendo il transito su 26 arterie principali, assaltato 2 miniere di proprietà di multinazionali (una di queste, la Glencore, è proprietaria dello stabilimento Portovesme di Portoscuso, in Sardegna) costringendole a sospendere le attività e hanno tentato di occupare gli aeroporti di Arequipa, Juliaca e Jaén, che sono stati di conseguenza chiusi al traffico aereo, mentre quelli di Ayacucho, Puerto Maldonado, Tacna e Cusco hanno subito forti limitazioni.
Diverse vittime sono cadute sotto i proiettili della polizia e dell’esercito e a Lima, presidiata da 12.000 agenti della Policia Nacional, gli scontri si sono susseguiti per tutta la giornata e sono culminati nell’incendio di un grande palazzo nel centro della città.
Il governo golpista ha proclamato lo stato d’emergenza in 7 regioni fino alla metà di febbraio per agevolare l’impiego dell’esercito contro i manifestanti, ma di fronte a una sollevazione popolare di questa portata, la sua capacità di reagire con la repressione dispiegata è messa a dura prova. Questo alimenterà ulteriori fratture nel blocco di potere che lo sostiene. Perché di fratture ce ne sono già.
Uno dei risultati conseguiti dalla mobilitazione popolare è stato proprio quello di alimentare le contraddizioni all’interno della classe dominante peruviana, divisa tra i fautori di un dialogo con i manifestanti e l’ala più oltranzista, determinata a difendere il potere che ha usurpato con ogni mezzo.
Due ministri appena nominati hanno rassegnato le dimissioni condannando l’operato della polizia e dell’esercito e, il 10 gennaio, la massima autorità giudiziaria del Perù, la Procura Generale, ha aperto un’inchiesta per genocidio, omicidio e lesioni a carico di Boluarte, del Primo ministro e dei ministri dell’Interno e della Difesa.
Dopo la giornata di proteste del 19 gennaio persino gli Usa hanno iniziato a dubitare delle possibilità di vittoria del cavallo su cui hanno puntato e hanno tentato, maldestramente, di correggere il tiro: il giorno dopo hanno pubblicato sul profilo twitter dell’ambasciata in Perù, un comunicato che chiede conto al governo e alla Boluarte delle vittime della repressione, richiamandoli alla necessità di garantire il rispetto dei diritti umani e il diritto alla protesta.
Il comunicato è stato condiviso sul proprio profilo anche dall’ambasciatrice Lisa Kenna, quella che il giorno prima del golpe aveva incontrato il neo nominato Ministro della Difesa del Perù, presumibilmente per ordinargli di procedere con la destituzione del Presidente.
Le masse popolari peruviane si confrontano con un governo golpista espressione degli elementi più reazionari della borghesia di un paese vassallo degli imperialisti Usa, proprio nel momento in cui questi ultimi continuano a perdere posizioni in America Latina, un continente che per due secoli hanno considerato come il “cortile di casa” loro.
La mobilitazione di queste settimane dimostra che gli imperialisti sono “tigri di carta” e le masse popolari possono scrivere la storia, a patto che si diano i mezzi e l’organizzazione necessari a farlo.