Valerio, puoi presentarti brevemente? In che fabbrica hai lavorato? Quando sei stato assunto?
Mi chiamo Valerio Gelli e ho iniziato a lavorare alle Officine Galileo nel giugno del 1973. Venivo da un’altra azienda metalmeccanica che si trovava a Castello (nella zona industriale di Termine, all’inizio di Sesto Fiorentino – ndr), la Niccoli e Nardoni, e già lì facevo il delegato sindacale. Siccome ero “conosciuto” dalla FIOM territoriale, appena entrato alle Officine Galileo fui subito chiamato a far parte del Consiglio di Fabbrica, fondato nel 1970 e composto da quaranta delegati. L’azienda contava, allora, oltre duemila dipendenti e dal punto di vista sindacale era una delle più forti in Italia. Per intenderci, nel 1945 uno dei due direttori, Gianfranco Musco(1), era un partigiano, medaglia d’oro della Resistenza. Probabilmente aveva preso il posto di Ettore Gamondi(2), un direttore precedente ammazzato perché partigiano. Ci è rimasto fino al 1952 o 1953 e, logicamente, con figure di questo calibro il lavoro sindacale all’interno dell’azienda era importante. Era stata costituita la Fondazione Lavoratori Officine Galileo – FLOG(3) e anche l’asilo; inoltre avevamo l’assistenza sanitaria gratuita. Ricordo che quando entrai, nel 1973, il dottore veniva gratuitamente a visitare mia figlia ed era un luminare!
Per quanto riguarda gli accordi ne esistevano di ottimi, come quello sulla malattia che era copiato pari pari da uno precedente e che superava di gran lunga il contratto metalmeccanico. Prima del Sessantotto il mondo del lavoro, a livello contrattuale, era molto arretrato; il sindacato era rimasto “alla finestra” facendo meno che in altri paesi. Dall’inizio degli anni Cinquanta hanno provato a metterci un freno perché in diversi non volevano un’azienda così forte tanto dal punto di vista sindacale che politico (c’era un numero altissimo di operai iscritti al PCI).
Non lo voleva Confidustria o il governo?
Un po’ tutto “l’apparato”. Anche perché la Galileo incominciava a interessarsi alla Marina e successivamente ai sistemi d’arma per la contraerea: due settori, diciamo, delicati per il tipo di prodotti che facevamo.
L’azienda all’epoca produceva solo per il settore militare o anche per quello civile?
Quando entrammo noi c’era il settore civile che aveva il maggior numero di addetti, ma se si guardava al bilancio sicuramente il settore militare era prioritario. Ciò è stato all’origine di tutti i problemi successivi.
Già nel 1959 la società mirava a una ristrutturazione, in teoria perché il settore civile costava troppo, in pratica perché era intenzionata a eliminare senza nessuna trattativa oltre 500 dipendenti sindacalizzati. Questo portò all’occupazione della fabbrica del 9 gennaio 1959 a seguito della quale 180 operai furono rinviati a giudizio. Sui fatti della Galileo di quegli anni si trova tanto, a testimonianza dell’importanza della fabbrica per la città. Mi ricordo i racconti di un membro del CdF, il Gori (un cattolico della FIOM), che spiegava come non si riuscì a dimostrare il danneggiamento della fabbrica occupata. Nonostante questo, si creò un precedente pericoloso: l’azienda poteva querelare l’operaio che occupava, licenziarlo e chiedergli i danni. Inoltre, dopo l’occupazione non tutti gli operai rientrarono a lavoro: fu fatto un accordo sindacale che aprì una crepa nel corpo operaio, anche a causa di buonuscite poco consistenti.
In che reparto lavoravi?
Nel reparto Officina. Prima stavo nel reparto prototipi militari e spaziali. Facevamo dei prototipi che venivano subito venduti e prodotti altrove a discrezione dell’acquirente. Questo era il dato negativo della produzione: portavano la produzione dove meglio conveniva aggirando i controlli. Iniziammo a lavorare anche nel settore aerospaziale, a livello europeo e con gli americani, collaborando con agenzie come la NASA soprattutto sui satelliti.
Lo stabilimento dov’era prima che fosse trasferito nella sede attuale di Campi Bisenzio?
Era in Piazza Dalmazia. Anni prima c’era perfino la fonderia e arrivava quasi fino a via Alderotti; nella zona del Poggetto c’era la parte riservata, lì non entravi. Nel 1959, oltre all’occupazione mi ricordo gli scontri in piazza del Duomo(4) con le camionette che passavano sui marciapiedi: per fortuna non ci furono morti, ma i feriti furono parecchi. Lì assistemmo a un cambio di fase: la fabbrica passò ad essere da fortemente politicizzata e sindacalizzata a fortemente “militarizzata”, con una forte repressione interna. Non a caso, subito dopo, costituirono le due “OTE”, la ESA e la Biomedica (due nuove società scorporate dalla casa madre – ndr) dove lavoravano gli operai più fidati, mentre quelli che non si piegavano li mandarono a Doccia (un’altra frazione di Sesto Fiorentino – ndr) in un magazzino del Meccanotessile, una sorta di reparto confino.
Oltre che della mensa, del salario e delle condizioni di lavoro, visto quello che hai appena raccontato il CdF si occupava anche di repressione?
Premetto che rispetto alle altre aziende altrettanto forti dal punto di vista sindacale, come la Pignone ad esempio, la nostra fabbrica era molto dipendente da strutture esterne come Partito e sindacato. Questo, se faceva forti le lotte sindacali, determinava però anche una sorta di isolamento dal mondo esterno. A mio avviso, una fabbrica culturalmente avanzata come la nostra non riuscì ad inserirsi appieno nel Sessantotto, perché in gioco non c’erano solo le questioni sindacali. Nella nostra fabbrica non c’era bisogno di indire gli scioperi: di scioperi ce n’erano tutti i giorni e noi delegati ne prendevamo solo atto, garantendo la copertura ai lavoratori. La nostra attenzione però era rivolta principalmente alle questioni interne e questo fu un grosso limite. Non siamo stati in grado di cogliere le problematiche del mondo dei giovani come quelle connesse alla scuola, oppure quelle relative alle pensioni. Anche su altri temi come il divorzio e l’aborto il CdF ci è andato sempre molto cauto, con la perenne paura di fare un passo di troppo.
Nel 1980 iniziò il trasferimento della fabbrica a Campi per favorire la speculazione immobiliare. Allora eravamo un’azienda per metà pubblica e metà privata e, nonostante le battaglie sindacali, passammo, nel 1978, alla Bastogi (di fatto una finanziaria legata alla DC – ndr), rendendoci subito conto di quanto questa fosse reazionaria. Fu un periodo molto buio, venivamo condannati sistematicamente nei tribunali anche a fronte di evidenti elementi a nostro discarico.
I rapporti con il PCI e il sindacato com’erano?
Erano molto stretti. Noi aiutavamo il PCI, ma questo durò solo fino ad un certo punto. La cosiddetta “cinghia di trasmissione”, il delegato FIOM, che nella squadra composta da 30-40 lavoratori si trovava a discutere un problema qualunque, a volte era costretto a dover “fronteggiare” nelle riunioni anche il rappresentate del comitato degli iscritti al PCI e ad entrare in contraddizione con le scelte del Partito. Dopo alcuni anni, cominciammo a scontrarci in particolare con quelli del Partito che venivano da fuori: gli operai comunisti avevano posizioni diverse rispetto a chi veniva da altri ambienti.
Da lì cominciammo a spaccarci, soprattutto dopo lo sciopero degli addetti della mensa di Careggi(5) negli anni Settanta, quando il PCI e la CGIL mandarono gli operai della Galileo a picchiarli: lì ci fu la rottura. La generazione di quelli che avevano fatto la guerra e che hanno sempre lavorato uniti non capirono.
Le divisioni si aggravarono con lo spostamento delle Officine Galileo a Campi Bisenzio, quando uscì fuori una vertenza che palesò come questo trasferimento non rispondeva a reali necessità aziendali, ma a una questione di soldi. Una parte del PCI sostenne lo spostamento e una parte del CdF firmò l’accordo che di fatto favorì la speculazione edilizia in piazza Dalmazia. Prima avevamo uno stabilimento modello, con viali pieni di palme… ora ci sono i palazzoni che tutti a Firenze possono vedere.
Sulla questione salariale, alla Galileo si stava benino, ma non come dovrebbe essere in una fabbrica militare dove il giro di soldi è inimmaginabile, credimi. Il rapporto fra il salario di un meccanico civile e di uno militare era solitamente di 1 a 5, se non di più. Noi prendevamo le briciole. Chi faceva il trasfertista e viveva chiuso in una caserma in Libia o Siria e non aveva famiglia poteva anche vivere bene, ma la disparità di salario era evidente all’interno della fabbrica. Per i lavoratori che stavano alla produzione cambiava poco, ma gli addetti all’area riservata – in cui non si capiva bene cosa si facesse – avevano altri stipendi e i CdF non riuscivano a gestire la situazione. L’azienda utilizzava questa disparità per dividere i lavoratori.
Il 1959 ha rappresentato uno spartiacque: la fabbrica, che era nata e si era sviluppata durante la Resistenza e che aveva unificato le lotte a Firenze e anche il modo di concepirle, cambiò con l’arrivo di personaggi che stravolsero la situazione. Questo discorso degli stipendi è continuato anche dopo il Sessantotto.
C’era un giornalino in fabbrica?
In fabbrica non me lo ricordo, mi sembra venisse fatto alla FLOG, ma a livello di CdF non esisteva. C’era però la rassegna sindacale che usciva settimanalmente, anche se ci scriveva solo l’esecutivo fatto da 8-9 persone su 30.
Hai accennato alla presenza in fabbrica di molti partigiani: cosa ci puoi dire in proposito?
Praticamente quando entrai alla Niccoli e Nardoni c’erano due lavoratori anziani che venivano al lavoro in divisa ed erano stati assunti da uno dei due padroni che simpatizzava per il fascismo. Erano entrati lì dopo essere stati buttati fuori dalla Galileo dagli operai.
Al tempo eravamo leader mondiale nella produzione di macchine fotografiche. C’è una storia molto brutta di questa azienda militare, che non era voluta né dai tedeschi né dagli alleati. Questo perché quando i nazisti portarono le macchine al Nord, la fabbrica dove vennero trasferite fu bombardata dagli alleati. L’azienda si ritrovò costretta a far scrivere su un “librone” ad ogni operaio se voleva servire al Nord o si rifiutava. La stragrande maggioranza degli adulti si rifiutò per iscritto, però si pose il problema dei minorenni. Di questi solo uno si rifiutò, mentre gli altri non scrissero niente. Quando si trattò di risolvere questo problema, legato ai contributi pensionistici, toccò anche a me occuparmene dato che ero nella Commissione Affari Sociali.
L’azienda era disponibile a darci quei libroni, perché chi, rifiutando, abbandonò l’azienda perse tutti i contributi. Per il problema dei giovani, noi dichiarammo al Ministero che erano tutti passati nelle file dei partigiani e che ci volevano, quindi, le firme dei partigiani fiorentini. Di questi ce n’erano a decine e naturalmente ci aiutarono.
Parlaci della militarizzazione interna…
A mio avviso, uno dei problemi fu che una fabbrica grande come la Galileo non ha mai messo in discussione il problema del “nulla osta sicurezza” (NOS), motivo per cui è stata negata ai lavoratori la possibilità di essere tutti uguali. Infatti, solo chi riceveva questo nulla osta dal Ministero poteva entrare in un determinato settore. La segretezza delle armi riguardava tutti e veniva impedito, di fatto, anche una sorta di controllo popolare sulle stesse. Non avere il NOS rappresentava però anche una forma di discriminazione: a chi era iscritto a determinati partiti di sinistra, il nulla osta non veniva dato. A ben guardare, degli operai che avevano il NOS nessuno era iscritto al PCI. L’azienda aveva fatto un lavoro di compartimentazione.
Mi viene da dire che i dirigenti d’azienda avevano, per usare un eufemismo, dei “preconcetti” ideologici!
Ce li avevano, anche se il capo del personale di allora si vantava di far entrare i comunisti in quanto suo fratello era deputato. Ciò non toglie che il NOS comunque ci fosse, anche se poi agli amici di Lotta Continua e Servire il Popolo il capo del personale lo dava tranquillamente.
Quali altre vertenze o mobilitazioni vuoi riportare?
Sempre quella contro il trasferimento a Campi, che ci costò un sacco di posti di lavoro: con gli accorpamenti avrebbero dovuto esserci 3.500-4.000 mila lavoratori e invece se ne contavano 700-800 se si comprendevano i lavoratori dell’OTE e della SMA (Officine Toscane e Elettromeccaniche e Segnalazione Marittima e Aerea, fabbriche di elettronica e radar – ndr).
Una delle lotte che col trasferimento abbiamo perso è stata quella riguardante lo sviluppo del settore civile che, dato il grande fatturato derivante dalla produzione militare, potevamo tranquillamente salvaguardare. Noi producevamo macchinari per fare la carta stagnola sottovuoto ad una velocità incredibile e in notevole quantità. Facevamo forni con trattamenti speciali dietro cui stavano tecnologie elevatissime. Eravamo all’avanguardia mondiale per queste produzioni. Ciò dava grande prestigio alla Galileo, ma tutto fu svenduto, come il Meccanotessile che aveva fatto fiorire il mercato di Prato. Al tempo, il tessile a Prato era composto da piccole aziende familiari di cui era pieno il centro della città e ognuna di esse aveva un telaio Galileo. Se si rompeva un pezzo, veniva sostituito in tempo reale! Non si riuscì a rimanere al passo coi tempi anche perché non interessava farlo e fummo messi in crisi da tecnologie svizzere e giapponesi (e dalla delocalizzazione in Cina – ndr). Fu una botta enorme dal punto di vista sindacale, il settore venne abbandonato e poi Finmeccanica dette il colpo di grazia dirottando tutto sul settore militare.
Cosa pensi rispetto al fiorire dell’industria militare a scapito dell’industria civile e al sacrificio della sovranità nazionale a favore degli USA e della NATO?
“L’Italia è un paese che ha perso la guerra”, questo ci è sempre stato detto in azienda. Noi non potevamo pensare di produrre armi di prima generazione, tra le più efficaci, come possono averle gli USA. Ma il mercato è molto sfuggente…. All’interno della Galileo, parlando con ingegneri o quadri, nacquero molti problemi con la guerra delle Falkland (fra Inghilterra e l’Argentina per il controllo delle isole omonime e che durò dall’aprile al giugno 1982 – ndr). Questo perché la contraerea argentina era di fabbricazione italiana! Anche i francesi avevano venduto agli argentini dei missili aria-terra antinave che fecero due o tremila morti inglesi. Alla fine gli inglesi vinsero perché con i B-52 rasero al suolo l’isola. Io so che all’interno del Ministero della Difesa non vennero resi pubblici i commerci di armi, nonostante le regole della NATO. Le nostre armi furono mandate anche alla Jugoslavia, ho visto la foto di un militare con una contraerea che, nonostante fosse al buio, si capiva che era “nostra”.
Io sono andato in pensione nel 2007 e non so come sia ora la produzione e il commercio di armi: alla fine, vedendo il numero di dipendenti, non credo sia molto importante. Mi capitò di leggere di progetti europei, ma alla fine gli USA ci obbligavano a comprare le loro armi. Di fatto, non c’è un’indipendenza militare del nostro paese, e non ce l’ha nemmeno l’Europa.
Tornando ai Consigli di Fabbrica, secondo te, perché quell’esperienza si è esaurita? Che bilancio ne fai?
L’esperienza dei Consigli di Fabbrica è finita quando le aziende hanno cominciato a dire che il costo del CdF (in termini di ore di distacco – ndr) nel contratto collettivo era troppo oneroso. Limitandone il numero, nacque da parte delle organizzazioni sindacali l’esigenza di tutelare i propri addetti e allora fu creato il delegato d’organizzazione. Fu Bertinotti della FIOM a fare il primo accordo sui delegati d’organizzazione: questo ha sancito la fine dei CdF. Confindustria ha sempre accettato che con la creazione delle RSU dovessero decadere le RSA, oggi rimane il grosso problema della mancanza di democrazia. Cos’è successo? Che il delegato d’organizzazione non è eletto dal basso, ma è indicato dalla struttura sindacale. I confederali nel 1993 fecero anche un’altra scelta, imponendo che l’elezione di un terzo dei delegati fosse riservata a loro e gli altri due terzi ai lavoratori. Il tutto è stato peggiorato con il Testo Unico sulla Rappresentanza del 2014. Poi non tutte le grosse aziende hanno aderito: ad esempio Panorama e Ikea sono uscite da Confcommercio e si sono rifatte pari pari agli accordi del 1993.
Quindi secondo te la fine dei CdF ha avuto motivazioni più sindacali che politiche?
Certo, però diciamo anche che le aziende hanno fortemente spinto per distruggerli; il sindacato concertativo ha fatto una scelta precisa rispetto ai Consigli, ha avuto maggiori finanziamenti dall’azienda e non a caso utilizza tranquillamente i distacchi, che per l’azienda sono un costo. Non è vero che i CdF avevano un costo eccessivo, era il loro peso politico a dar fastidio. I CdF erano un’organizzazione capillare che copriva tutta la fabbrica. Quando hai un numero piccolo di delegati e gli operai non ti conoscono personalmente è un problema, mentre noi avevamo tanti operai disponibili a fare lavoro sindacale e si copriva ogni posto, si arrivava anche agli impiegati. Quando questi mancano si fa strada il capo reparto, il capo ufficio e si fanno i passi indietro… Oggi con la riforma delle RSU il numero di delegati è stato ulteriormente ridotto, come si fa a fare un lavoro sindacale all’altezza?
NOTE
1. Gianfranco Musco entrò nel 1935 alle Officine Galileo di Firenze. Nel dicembre del 1945 fu nominato direttore delle Officine insieme all’ing. Giulio Martinez, incarico che ricoprì fino al 1952, quando, nel clima della “guerra fredda”, fu allontanato dalla Galileo. Nel 1943 aveva aderito al PCI e dal novembre 1943 rappresentò con continuità il PCI nel Comitato Toscano di Liberazione Nazionale. Nei giorni della Liberazione di Firenze prese parte alla cacciata dei tedeschi come membro del Comando della III zona di Firenze. Dopo la guerra ha fatto parte della Commissione Nazionale del PCI. Dal 1946 è stato consigliere comunale di Firenze e Assessore all’Urbanistica e ai Lavori Pubblici nella giunta comunale Fabiani (1946-1951). Per la sua partecipazione alla Resistenza nel 1974 la Regione Toscana gli ha conferito una medaglia d’oro.
2. Ettore Gamondi, direttore delle Officine Galileo, fu arrestato nel marzo 1944 dai nazifascisti per la sua opposizione al regime. Fu ucciso in via Berchet all’angolo con via del Mugnone, poche ore dopo che il suono della Martinella aveva dato ai partigiani e ai fiorentini il segnale dell’insurrezione. Nel 1951 fu insignito della medaglia d’argento alla memoria per il suo appoggio al movimento partigiano durante l’occupazione nazifascista della città.
3. Il 19 settembre 1945, un anno dopo la liberazione di Firenze, alcuni dirigenti, operai ed impiegati delle Officine Galileo, diedero vita alla Fondazione Lavoratori Officine Galileo (FLOG), che acquistò circa 4 ettari della collina di Montughi detta “Il Poggetto” dove venne situata la sede della Fondazione, dotata di pista da ballo, piscina (la prima a Firenze) e campi da tennis.
4. La direzione della Officine Galileo si apprestava a licenziare 980 persone, quasi un terzo dell’intera manodopera. Gli operai reagiscono occupando lo stabilimento. Alle 4 di mattina del 27 gennaio 1959 la polizia circonda la fabbrica, gli occupanti sono obbligati a uscire e vengono schedati. La notizia si diffonde rapidamente, Firenze scende in piazza in difesa della “sua” fabbrica. È una delle più imponenti manifestazioni popolari del dopoguerra: scioperano per solidarietà postini, lavoratori del gas, netturbini, ceramisti, studenti e nei vari quartieri ci sono cortei spontanei. I manifestanti affluiscono in Piazza Duomo dove viene schierato un esercito di agenti e carabinieri con decine di jeep e autocarri. La battaglia finisce solo a tarda sera con numerosi arrestati e feriti. Pochi giorni dopo, a Roma, fu siglato l’accordo: un nuovo piano industriale che imponeva la riassunzione di 550 lavoratori licenziati e concordava le dimissioni agevolate di 366. I licenziati furono 64.
5. A Firenze il 31 marzo 1977 il Coordinamento degli ospedalieri di base, circa trecento persone, occupa la mensa all’Ospedale Careggi. Segue il tentativo di sgombrarli da parte della FLO (Federazione Lavoratori Ospedalieri – espressione del sindacato unitario creato da CGIL, CISL e UIL), condotto attraverso gli operai della Galileo e della Nuova Pignone mandati contro dei “fascisti affamatori di malati”. Giunti sul posto, gli operai discutono con infermieri e sanitari quindi, comprendendo le ragioni della mobilitazione, si allontanano. Nel 1977 sono molteplici gli scioperi e le occupazioni in tutta Italia contro la piattaforma contrattuale proposta dal sindacato per i 250.000 lavoratori della categoria, una piattaforma considerata, dalla maggioranza dei sanitari, non rispondente alle rivendicazioni avanzate nei mesi precedenti e che era incentrata unicamente su aumenti salariali minimi.