Potete presentarvi e raccontarci qualcosa di voi?
Adriano. Ho 77 anni, sono nato a Trieste e sono figlio di un operaio dell’Arsenale. Ho sempre vissuto nell’ambiente operaio del quartiere popolare di San Giacomo a Trieste e ho fatto esperienza politica tra la classe operaia. Abitavo vicino alla chiesa dei salesiani, la chiesa di San Giacomo, in un quartiere operaio che ai tempi del fascismo veniva chiamato “la Stalingrado di Trieste”. Nel quartiere c’era anche una componente slovena e una croata. Le mie origini affondano nella cultura croata, slovena e italiana. Mio nonno era dell’Istria croata, venne qua all’inizio del Novecento per motivi di lavoro; mia nonna era slovena e i genitori di mia madre erano di Capodistria.
Ho ereditato da mio padre la passione per la politica. I miei genitori, parlo degli anni Cinquanta, simpatizzavano per il PCI, anche se non erano iscritti. Sono appassionato di storia fin da ragazzino: a scuola studiavo la materia con passione e questo mi spingeva a cercare discussioni impegnative. Quando abbiamo avuto una radio, all’epoca avevo 8 anni e mezzo, ho seguito giorno per giorno la battaglia di Dien Bien Phu(1) in Vietnam, nel 1954. Conoscevo tutti gli schieramenti sul campo dei vietcong e dei francesi. Mi piaceva capire cosa succedeva nel mondo.
Andavamo spesso al cinema. Allora era un luogo dove si produceva cultura, non davano i film di oggi dove si vede solo distruzione. Ad esempio, il film più cretino che si poteva vedere sui cowboy parlava del 7° cavalleria che è parte della storia degli Stati Uniti d’America. Anche i film sulla Seconda guerra mondiale erano sì spettacolari però tutti di carattere storico: erano una conseguenza della guerra e noi eravamo figli della guerra.
Augusto. Io ho 89 anni e sono di via Borletto, davanti al cantiere navale. Sono emigrato qui dalla Puglia, dopo la Prima guerra mondiale.
Che mansioni svolgevate?
Augusto. Ero operaio meccanico specializzato, attrezzista meccanico. Quando sono andato in Italsider nel 1965 i dirigenti, che erano degli incompetenti, mi fecero: “Ma sa, noi non abbiamo bisogno di persone che distribuiscono gli attrezzi”. Al che rispondo: “Ma vi rendete conto di quello che dite? Io che sono attrezzista faccio anche il meccanico, ma il meccanico non fa l’attrezzista”.E mi presero.
Adriano. Io ero tornitore. Prima avevo lavorato in un negozio di lampade, e al cantiere volevo fare l’elettricista perché avevo un minimo di esperienza, ma avevano bisogno di meccanici. La mattina dell’assunzione, accompagnato da mio padre che conosceva tutti – era uno degli anziani dell’azienda – andai dal capo officina e questo mi propose di fare il meccanico oppure il tornitore. E allora scelsi. Non avevo mai visto un tornio, ma imparai lì ad utilizzarlo.
In seconda avviamento, la scuola di allora,si studiavano fisica e tecnologia, e in terza anche laboratorio tecnologico. Si studiava la siderurgia e pure il tornio, ma senza vederlo mai! Sapevo anche usare il calibro e il micrometro. A quei tempi, tutti i calcoli bisognava farli a mano.
Quando sono andato a lavorare, dopo sei mesi – ed eravamo in 900 – conoscevo i falegnami e tutti i lavoratori del cantiere. Pur facendo il tornitore, in poco tempo ho conosciuto tutti, perché si parlava tra noi, c’era interscambio. Tieni presente che in cantiere c’erano lavoratori di tutti i mestieri: dal vetraio al tappezziere, dal tubista al manovale. La fabbrica era un luogo di relazioni sociali immenso.
Esisteva un Consiglio di Fabbrica nei Cantieri dell’Arsenale? Dal punto di vista della conflittualità interna, com’era la situazione?
Adriano.Il CdF era quello dell’Arsenale triestino San Marco, perché l’azienda a quel tempo esisteva, appunto, come Arsenale triestino. Nel 1940, un mese prima che scoppiasse la guerra, era diventata una società separata. Tra i suoi azionisti c’era il Lloyd triestino, che aveva la sua sede in un palazzo di proprietà della marina mercantile austriaca. L’Arsenale esisterà fino al 1966 quando, in seguito al piano CIPE(2) di riorganizzazione dell’industria cantieristica, si deciderà di ridimensionare il cantiere San Marco, perché vi si potevano costruire navi solo fino a 30-40 mila tonnellate. Per esempio, nella costruzione della Raffaello, la prua della nave arrivava sullo scalo oltre il cantiere a causa delle sue dimensioni troppo grandi (Augusto: c’erano anche la Augustus, la Vittorio Veneto, tutte navi da guerra molto grandi). Venne quindi finanziata la costruzione del cantiere di Monfalcone, perché il mercato ormai andava oltre quei tonnellaggi e, quindi, necessitava di spazi maggiori. Oggi è l’unico cantiere in Italia che costruisce navi così grandi.
Augusto. Dal punto di vista della conflittualità interna, gli operai erano molto uniti e quando scioperavamo si bloccava tutto.
Adriano. Il 1° Maggio si fermava tutto, anche i mezzi pubblici. Il corteo partiva da Roiano, oltre la stazione ferroviaria, e attraversava tutta la città; si partiva tutti a piedi da là e il pomeriggio c’era il saggio ginnico organizzato dalle organizzazioni di massa del PCI allo stadio comunale. Succedeva spesso che la città fosse bloccata, accadeva pure in occasione degli scioperi, che nascevano anche in modo spontaneo. Nel 1971 ci fu l’attentato a Vittorio Vidali, storico esponente partigiano di Muggia, e noi del cantiere e della vicina fabbrica siamo scesi tutti in sciopero e in manifestazione.
C’erano già i CdF o ancora le Commissioni interne?
Adriano. C’erano i CdF. Anche se la loro diffusione avverrà nel 1970-1971, l’esigenza del superamento delle Commissioni interne era iniziata già dalla metà degli anni Sessanta. Già allora nei convegni si diceva:“La Commissione interna non è più sufficiente perché la contrattazione con le aziende, con la Confindustria, sta assumendo un carattere politico”. Questo avveniva, ad esempio, nell’organizzazione del lavoro.
Nel 1962 quando ci fu la vertenza di sei mesi per ottenere il contratto di settore (Augusto: la FIOM della cantieristica indicò che ci voleva un “contratto di settore”per unificare, a livello di settore, i trattamenti e tutto il resto, perché allora ogni cantiere andava per conto suo. La FIOM ha portato avanti questa battaglia per più di sei mesi. L’opposizione dei rimanenti sindacati e il crumiraggio portarono la battaglia alla sconfitta) e la FIOM non riuscì ad ottenerlo e si passò al contratto nazionale, i lavoratori dissero: “In futuro o ci si muove tutti insieme oppure non si fa niente”. Per cui si obbligavano anche gli altri operai, crumiri e impiegati, che vivevano di rendita a fare la loro parte. In quel momento si è resa necessaria la realizzazione di un’organizzazione politica di base. È così che nel 1969 sono nati i Consigli di Fabbrica, per portare avanti le questioni politiche che il contratto poneva. Si poneva, ad esempio, il problema della riduzione dell’orario di lavoro.
La maggior parte dei lavoratori era iscritta alla FIOM?
Adriano.A Trieste in cantiere avevamo il 90% di iscritti ai sindacati, la maggior parte era iscritta alla FIOM, non la totalità. Io nel 1968 ero iscritto al PCI della sezione di fabbrica, nel 1969 ho fatto parte del comitato di gestione della lotta dei Cantieri, che era l’embrione di quello che sarà il Consiglio di Fabbrica, e nel giugno del 1970 sono entrato nel direttivo provinciale della FIOM. In quegli anni la FIOM aveva oltre 4.000 iscritti a Trieste, la Camera del Lavoro ne aveva oltre 2.000, la CISL non arrivava a 1.000 per un totale di 7.000 metalmeccanici iscritti in una città di 200.000 abitanti. All’inizio il CdF era costituito dal direttivo, poi c’erano i delegati e l’esecutivo, la rappresentanza che andava a discutere. Io facevo parte dell’esecutivo ed ero responsabile delle relazioni esterne strettamente sindacali, che esercitavo dopo l’orario di lavoro.
Augusto. Penso che se hanno chiuso l’unico cantiere così ben organizzato che c’era in Italia è stato proprio perché era molto sindacalizzato: bastava che si dicesse “domani si fa sciopero” che tutto si fermava.
Adriano. Io la penso diversamente. La debolezza del sindacato, in quel momento, stava nel non prendere di petto il cambiamento più generale in corso nel sistema di costruzione delle navi: si limitò a difendere lo status quo in un periodo in cui la costruzione navale ha subito uno stravolgimento, anche nella struttura aziendale. Mentre prima la nave si poteva tirare sullo scalo di adagio mettendola all’asciutto perché pesava relativamente poco, poi le cose sono cominciate a cambiare. Per esempio, noi avevamo l’esperienza a Trieste del cantiere San Rocco, che nella metà degli anni Cinquanta faceva parte dei Cantieri Riuniti dell’Adriatico, cioè della stessa azienda. Questo aveva un bacino di carenaggio un po’ piccolo, risalente al 1852, il primo in muratura del Mediterraneo, il più antico in assoluto, e vi si potevano costruire navi fino a 2.000-3.000 tonnellate. Ma, alla fine del 1800, si passò alla costruzione di navi fatte totalmente in ferro, motivo per cui bisognava far arrivare al cantiere le lamiere e altro materiale in ferro. Non c’era, però, il collegamento ferroviario perché la ferrovia non arriva a Muggia. Il trasporto dalle fonderie e dalle acciaierie diventava difficile, si doveva fare via acqua, caricare tutto su una bettolina (nave di piccole dimensioni che effettua servizio di trasporto verso navi più grandi in ambito portuale – ndr), scaricare, ecc. Troppi problemi, e così il cantiere San Rocco è stato ridimensionato: la parte della costruzione è passata al cantiere San Marco, mentre l’altra è diventata Arsenale triestino di riparazioni navali. Tutto questo nel giro di dieci anni.
Le reazioni degli operai rispetto al ridimensionamento progettato dal CIPE quali sono state?
Adriano. Con la presentazione del piano CIPE la città ha iniziato a reagire. Nel febbraio 1965 c’è stato uno sciopero generale che ha avuto una partecipazione mai vista: era talmente tanta la gente che non entrava neppure nella piazza. Due settimane dopo io sono stato chiamato alle armi, in Marina, per due anni, e nel frattempo la situazione è cambiata.
E la mobilitazione della città che effetti ha avuto?
Adriano. Ha prodotto dei risultati. Tieni presente che nell’ottobre 1966 c’è stata quasi una rivoluzione, in quel periodo sono successi dei fatti incredibili. Qui, a San Giacomo, c’era un circolo delle ACLI che una sera, dopo le mobilitazioni, è stato assaltato e distrutto. Quando sono tornato dal servizio militare se ne parlava in cantiere. Io avevo letto le notizie e pensavo alla stranezza della vicenda dato che la protesta vera era stata al mattino mentre l’assalto al circolo ACLI avvenne di sera. Si parlò allora di un intervento di Gladio(3), peraltro c’era il precedente del 1963 a Roma(4). L’obiettivo di Gladio era portare le cose alle estreme conseguenze, trasformare la protesta democratica in una guerra di modo che le istituzioni potessero avere delle giustificazioni per i loro interventi successivi(5). Un abbozzo di strategia della tensione in una città dove le proteste erano diffuse. C’erano poi anche interessi di carattere internazionale(6). Fino al 1975 Trieste non era pienamente italiana e anche noi sfruttammo questo come punto di forza per imporre delle modifiche nelle trattative.
Comunque nel 1969 si raggiunse l’accordo definitivo sul piano CIPE: nessuno sarebbe andato a Monfalcone, il cantiere diventava “costruttore speciale”, cosa non prevista dall’accordo precedente. Certo, se il movimento sindacale avesse preso di petto l’intero problema invece di difendere solo le posizioni, se avesse pensato a cosa si poteva fare di più, sarebbe stato molto, ma molto meglio.
Il PCI che ruolo ha avuto in tutto questo?
Adriano. Il PCI era l’unico che sosteneva tutto questo, mentre tutti gli altri erano filo governativi. Il CIPE non era un comitato a se stante, ma espressione del governo e tutti lo difendevano. Per quanto riguarda i sindacati c’era la CISL appena nata, che era quasi inesistente; la UIL che poi è diventata UIL e che allora si chiamava Camera Confederale del Lavoro; e la CGIL, che a Trieste prendeva il nome di “Sindacati Unici” mentre in tutta Italia era la Nuova Camera Confederale del Lavoro.
Quando è stato costruito il cantiere di Monfalcone, anche lì si sono iscritti in tanti ai sindacati?
Augusto. A Monfalcone arrivavano lavoratori da tutto il Friuli. C’era una ditta che cercava saldatori, ma i saldatori erano tutti nel cantiere e la ditta è andata a cercarli a Milano perché a Trieste non ne trovava.
Adriano. Il mandamento di Monfalcone era di sinistra, amministrato dal PCI. Se ci fate caso, tutte le zone dove ci sono cantieri navali in Italia sono zone rosse. Per esempio, in Campania, a Castellammare di Stabia nel 1946 votarono per i repubblicani, mentre tutti erano, in genere, per la monarchia, e questo perché c’era il cantiere. Anche Livorno, La Spezia e Ancona sono zone rosse. La Spezia è sempre stata amministrata dalla sinistra, al contrario di Imperia, che è liberale; Sampierdarena è per Genova quello che San Giacomo è per Trieste.
Gli operai erano guardati con rispetto, si diceva “quello là è un bravo operaio” e questo fa capire il movimento sociale, la solidarietà che si sviluppava attorno a loro.
Avete accennato prima al fatto che il CdF si è occupato del problema della riduzione dell’orario di lavoro…
Adriano. Sì, noi della cantieristica avevamo la settimana di 45 ore, che era la più lunga, la siderurgia di 42 ore e altri di 43. Quando fu concordato che tutti dovevano arrivare a 40 ore, introducemmo il pagamento dello straordinario contingentato: il primo anno si potevano fare al massimo 240 ore in più, il secondo 220, il terzo 200. Se si superava questo monte ore, potevi rifiutarti di fare gli straordinari. Non c’era ancora lo Statuto dei lavoratori, il sindacato non aveva cittadinanza in fabbrica, anche se noi avevamo già la bacheca dei comunicati, conquistata nel 1961 grazie a rapporti di forza favorevoli in fabbrica, una sorta di rappresentanza in azienda che altrove non esisteva. Con l’occupazione dell’Arsenale del 1961 abbiamo conquistato anche il premio di produzione, specifico per ogni cantiere. Avere una rappresentanza politica, però, vuol dire riuscire a far riconoscere legalmente le conquiste che hai ottenuto. Certi elementi dello Statuto dei lavoratori li avevamo già, ma non avevamo un peso politico. Formalmente l’azienda avrebbe potuto dire “da questo momento le cose si fanno diversamente.”
I Consigli di Fabbrica avevano voce in capitolo sull’organizzazione del lavoro?
Augusto. Prima con le Commissioni interne non andava molto bene, perché i sindacati erano separati. Poi con i Consigli di Fabbrica le cose sono cambiate: i CdF erano unitari anche se poi al suo interno c’erano democristiani, socialisti e comunisti. Noi operai chiedevamo che i sindacati si unissero, ma abbiamo dovuto aspettare fino alla fine degli anni Sessanta.
Adriano. Abbiamo cominciato a contrattare l’organizzazione del lavoro. La Commissione interna non poteva affrontare questa questione perché aveva un ruolo solo tecnico, e come detto prima la direzione poteva dire: “Il sindacato in fabbrica non entra, si ferma sulla porta”. Quante volte all’epoca si diceva: “La Costituzione si ferma alla porta della fabbrica. Si ferma là perché fin là arriva la Repubblica italiana, dopodiché diventa un altro Stato”.
Dopo l’autunno caldo si è applicato il contratto nazionale e nel frattempo si è discusso il contratto integrativo, quello che la FIOM dieci anni prima aveva chiesto come contratto di settore. Noi e gli operai della Fiat avevamo aperto una vertenza. C’è un manifesto del 1971 che parla di 200 mila operai in lotta per il contratto integrativo della FIAT. Tutti i metalmeccanici hanno scioperato in solidarietà con gli operai della FIAT perché vincendo alla FIAT si sarebbero rafforzate tutte le altre lotte operaie. Fino a quel momento, non avendo un contratto di settore, ogni cantiere andava per conto proprio, allora c’erano i costruttori, i riparatori e i motoristici che erano divisi in tre condizioni completamente diverse. Nel 1971 sull’organizzazione del lavoro abbiamo fatto questi contratti, per unificare i salari, perché nell’ambito della metalmeccanica il settore meno retribuito era la cantieristica, perché nel Terzo Mondo era meno costosa, produrre una nave in India o in Corea costava molto meno. Già negli anni Sessanta la concorrenza maggiore per la cantieristica italiana era il Giappone.
A quel punto si è costituito il Coordinamento nazionale della cantieristica, fu nominato un responsabile per sindacato per ogni cantiere e le decisioni valevano per tutti i cantieri (Augusto: il coordinamento è nato alla fine degli anni Sessanta per affrontare i problemi. La FIOM è sempre stata sensibile su questo fronte tant’è che già negli anni Cinquanta aveva un comitato centrale della cantieristica che rappresentava una sorta di coordinamento. Il sindacato aveva capito che per affrontare i problemi occorreva superare le divisioni.). Fino ad allora il cantiere che percepiva il salario più basso di tutti era il nostro. Con la prima piattaforma del 1972 si convenne che il cantiere di Genova avrebbe ricevuto un aumento di 2.000 lire mentre noi di 5.000 per cercare di riequilibrare i salari. Nell’ambito di questa piattaforma abbiamo avanzato la richiesta di turni di lavoro organizzati e non estemporanei, per eliminare lo straordinario selvaggio e aumentare la produttività. Fino a quel momento il capo poteva chiederti di fermarti a lavorare anche fino al mattino successivo facendo leva sullo straordinario.
Prima del 1972, inoltre, avevamo l’orario differito: c’erano operai che iniziavano a lavorare alle 20:00 e staccavano alle 6:00 del mattino successivo, senza cena, senza niente, con la sola garanzia delle dieci ore; e quando non c’era abbastanza lavoro ti facevano firmare e ti mandavano a casa pagandoti solo otto ore a salario ridotto, senza straordinario. In questo modo non ci si poteva organizzare la vita, mentre con una turnazione prestabilita sai esattamente quando inizi a lavorare e quando finisci. Non avete, però, idea dell’opposizione che questo nuovo sistema di turnazione incontrò da parte operaia, perché stravolgeva le abitudini di vita acquisite. Dicevano: “Per tutta la vita ho iniziato a lavorare alle 7:00 e adesso per una settimana devo iniziare alle 14:00”. In tal modo abbiamo sì conquistato i turni, ma non sono stati applicati perché la direzione fece leva su questa opposizione diffusa. Il Consiglio di Fabbrica risultò un po’ isolato.
Era importante la relazione con il PCI?
Augusto. Quando eravamo staccati dal Partito era più difficile ottenere qualcosa, il Partito faceva da collante.
Adriano. Facendo un discorso di classe, il PCI dava un’idea comune. Faccio un esempio: le organizzazioni sindacali più grandi in Italia sono tre, la CGIL e la UIL sono confederali, associazioni di lavoratori, di ispirazione socialdemocratica-repubblicana e questo politicamente significa che nel sindacato non posso fare quel che voglio io, ma devo tener conto di tutti. Non posso essere corporativo e difendere solo il mio orticello perché il mio orticello va difeso come associazione di lavoratori. La CISL invece, è una confederazione di sindacati dei lavoratori.
Nel 1970 si pose non solo il problema dell’unità d’azione, ma anche quello dell’unità organica del sindacato.
La CISL si opponeva politicamente a questa proposta perché aveva due sindacati: la Federbraccianti e gli elettrici e questi erano antiunitari, facevano una politica antiunitaria. Negli altri due sindacati confederali questa opposizione sarebbe stata impossibile, avrebbe portato a delle espulsioni, ma nella Cisl no. I braccianti, i più disperati, erano quelli che più si opponevano all’unità. Ricordo che i loro leader erano Sironi e Sartori. Alla fine anche la UIL si oppose e non se ne fece nulla.
Augusto. Dei tre sindacati uno era comunista, uno socialista e uno democristiano.
Adriano. Noi avevamo i direttivi e ogni confederazione aveva i suoi rappresentanti: nel comitato nazionale erano 30, 30 e 30. Il paradosso era però che i due partiti maggiori, che rappresentavano la maggioranza del popolo italiano, erano minoritari. Dei trenta della CGIL venti erano comunisti, una decina socialisti, e poi c’era una terza componente. Nella UIL c’erano i socialisti che erano la maggioranza, poi i socialdemocratici e i repubblicani che erano la minoranza. Anche nella CISL c’erano i socialisti e in questo modo risultavano maggioritari in totale e rappresentavano più della DC.
Il Consiglio di Fabbrica risolveva questo tipo di problema perché non c’era bisogno della tessera, giusto?
Adriano. No, la rappresentanza politica all’interno delle fabbriche qui a Trieste ce l’aveva esclusivamente il PCI. Poi è nato un nucleo socialista, alla Fabbrica Macchine, la Crda, che poi diventerà prima Grandi Motori e quindi Wartsila (Augusto: la Grandi Motori nasce in FIAT che all’inizio aveva reparti di produzione per cielo mare e terra; solo in seguito la FIAT decise di concentrarsi sulle automobili, quindi non sapeva come disfarsi degli altri comparti e così la Grandi Motori divenne al 50% IRI e 50% FIAT, poi fu acquistata dai finlandesi e divenne Wartsila). Tant’è che il segretario della FIOM, Augusto Seghele, che è entrato nel direttivo assieme a me ed è stato anche vicesindaco di Trieste, era socialista.
Per concludere, volete indicare altre battaglie portate avanti dal CdF?
Adriano. Con il contratto del 1973 ponemmo il problema dell’integrazione di malattia. Mentre l’impiegato aveva l’integrazione quando era malato e prendeva sempre lo stesso stipendio (la malattia la pagava l’Inam e il resto lo metteva l’azienda) noi operai non ce l’avevamo. L’abbiamo ottenuta nel contratto successivamente, anche ai fini del calcolo pensionistico. La disparità tra impiegato e operaio atteneva a un discorso di classe, era un lascito del fascismo che diceva che la moglie dell’impiegato doveva avere un tenore di vita maggiore di quella dell’operaio. Con le battaglie del 1970 abbiamo combattuto questa differenza di classe.
Ultima cosa, che è importante. Con il CdF ogni anno la fabbrica consegnava a tutti il bilancio scritto. Prima giustificavano il passivo dei bilanci dando la colpa agli operai e ai loro scioperi. Per un anno io ho raccolto tutte le informazioni possibili sugli aspetti economici e quando hanno presentato ancora il bilancio con il passivo imputato agli operai come CdF abbiamo fatto un comunicato nel quale contestavamo, dati alla mano, la relazione degli amministratori. Ho passato tutto all’Istituto storico Livio Saranz della Cgil a Trieste.
NOTE
1. Combattuta dalle forze vietnamite del movimento d’indipendenza, comandate dal generale Võ Nguyên Giáp, contro le truppe d’occupazione francesi, la battaglia di Dien Bien Phu pose fine alla guerra d’Indocina. L’esito della battaglia influenzò l’andamento dei negoziati in corso alla conferenza di Ginevra, portando alla firma degli accordi di pace conclusi il 21 luglio 1954. In base agli accordi la Francia ritirò le sue truppe dall’intera Indocina francese, mentre il Vietnam venne diviso temporaneamente in due parti lungo il 17º parallelo. La battaglia assunse una grande importanza storica simboleggiando la sconfitta irreversibile del colonialismo occidentale nel Terzo Mondo.
2. Il piano della Commissione interministeriale per la programmazione economica (CIPE) prevedeva in sintesi di incorporare i Cantieri Riuniti dell’Adriatico di Trieste e Monfalcone in una società navale unica con sede a Genova, cosa che di fatto avrebbe comportato la chiusura dei Cantieri e il ridimensionamento dell’Arsenale San Marco, a fronte di promesse di altre iniziative industriali che rimanevano sul vago. Le forze politiche di governo, tranne il Partito repubblicano, erano state unanimemente concordi nel valutare positivamente questa riforma, alla quale invece si erano opposti i partiti della sinistra e i sindacati CGIL e UIL, mentre la CISL (legata alla DC) si era mantenuta su una posizione interlocutoria ed attendista.
3. Riferimento all’operazione Delfino, con cui nel 1966 Gladio progettò contro il PCI operazioni di “disturbo di comizi e manifestazioni”, “azioni di intimidazione”, nonché “atti di terrorismo” da addebitargli provocatoriamente.
4. Riferimento agli scontri avvenuti il 9 ottobre 1963, in Piazza SS Apostoli a Roma durante una manifestazione dei lavoratori edili. Gli scontri furono provocati da un gruppo di personaggi misteriosi che aggredì il corteo svoltosi fino allora pacificamente, provocando 168 feriti, vetrine spaccate, auto rovesciate e filobus incendiati, in una battaglia che durò mezza giornata e che si concluse con rastrellamenti effettuati fino a tarda notte, centinaia di arresti e decine di condanne per direttissima. Il governo, il ministero dell’Interno, la stampa e le forze politiche della destra ne attribuirono subito la responsabilità ai comunisti e alla CGIL.
5. Il 10 ottobre l’allora ministro degli Interni Paolo Emilio Taviani, a cui Francesco Cossiga nel 2008 si riferì come a uno dei padre di Gladio, rispose alle interrogazioni presentate alla Camera dei deputati, che concernevano non solo gli scontri svoltisi a Trieste l’8, ma anche quelli avvenuti a Genova il 5, sostenendo che non si era trattato di “violenze di polizia”, ma di “violenze di dimostranti, spesso di elementi che con il mondo operaio e sindacale ben poco hanno in comune (…) violenze gravi, gravissime, che la polizia ha prima contenuto e poi represso compiendo il suo dovere al servizio dell’ordine democratico”.
6. Taviani, che accusò degli scontri i comunisti, affermò tra le altre cose che gli agitatori “vengono da molto lontano, passando forse da qualche paese vicino sul mare”. Per gli scontri di Genova si era espresso in maniera simile dicendo che gli altri “agitatori” responsabili degli scontri “vengono da molto più lontano, passando magari da qualche paese vicino o confinante per terra oppure per mare, al di là dell’Adriatico”, alludendo a Jugoslavia e Albania.