Ai capi politici delle liste anti Larghe Intese: fate un bilancio serio dei motivi della disfatta

Per introdurre efficacemente e seriamente questo ragionamento dobbiamo partire dal fatto che gli obiettivi che il P.CARC (e più in generale la Carovana del (nuovo)PCI) si era posto non sono stati raggiunti. In particolare

– siamo riusciti solo in parte a spingere i candidati delle liste anti Larghe Intese a fare una campagna elettorale che andasse oltre le liturgie dei comizi e delle comparsate in TV e a promuovere iniziative e azioni radicali,

– non li abbiamo indotti a far convergere i voti su una sola lista, in modo da consentire a quella che aveva le maggiori possibilità di superare almeno la soglia di sbarramento (avevamo indicato Unione Popolare, ma abbiamo anche detto che l’importante era che i capi politici e promotori delle liste si mettessero d’accordo fra loro),

– non siamo riusciti a spingerli a trattare apertamente in campagna elettorale le questioni che stanno alla base delle divisioni. Non siamo riusciti a spingerli a dichiarare pubblicamente che se questi incontri e relazioni non sarebbero stati avviati in campagna elettorale (per il prevalere dello spirito di concorrenza) si sarebbero fatti dopo le elezioni.

Apparentemente, quindi, la nostra linea elettorale è stata un fallimento, anche alla luce del fatto che Unione Popolare, che abbiamo indicato di votare, non ha raggiunto nemmeno il 3%.

Della nostra autocritica parliamo nell’articolo sotto. Lo facciamo pubblicamente perché è una questione di serietà, di responsabilità verso coloro a cui ci siamo rivolti e verso le masse popolari e perché è una grande occasione di formazione per i nostri membri e simpatizzanti.

Qui di seguito, anche se brevemente, introduciamo una serie di aspetti su cui chiamiamo a ragionare i militanti, gli attivisti, gli elettori delle liste “antisistema”.

Anzitutto, calcolatrice alla mano, le 5 liste che si sono presentate apertamente contro l’agenda Draghi e le Larghe Intese (omettiamo volutamente quelle dichiaratamente reazionarie e quelle troppo marginali) hanno raccolto complessivamente più del 5% dei voti (più di 1 milione e mezzo, in termini assoluti) presentandosi separate, in reciproca concorrenza e conducendo una campagna elettorale per lo più fiacca e lamentosa: Unione Popolare 402.977 voti (1,43%); Italia Sovrana e Popolare 348.074 (1,24%); Italexit 534.574 (1,9%); Vita 201.537 (0,72%); PCI (presente solo in 5 collegi alla Camera e 9 al Senato) 24.555 (0,09%).

Questo dimostra che esistevano le potenzialità per eleggere numerosi esponenti anti agenda Draghi e rendere ingestibile il Parlamento alle Larghe Intese. Se ciò non è avvenuto è unicamente per (ir)responsabilità dei capi politici. Ci sono poi aspetti più politici.

Il primo e principale è che se i dirigenti avessero iniziato a trattare apertamente, seriamente e con senso di responsabilità le cause per cui procedevano separati, ciò avrebbe permesso di fare passi avanti per far confluire i voti su un’unica lista. E ciò avrebbe anche dato un segnale a quel 32% di astenuti: “c’è qualcuno che mette il proprio orticello in secondo piano rispetto alle necessità di riscossa delle masse popolari di questo paese”.

Una lista unitaria avrebbe sicuramente portato al voto alcuni dei milioni che invece si sono astenuti, delusi dalla frammentazione, dai personalismi vari e dalla brama di andare in parlamento a ogni costo. Tutto ciò avrebbe dato linfa agli attivisti che avrebbero guardato agli astenuti con spirito di conquista e propositi di coinvolgimento, anziché con l’indice puntato, come se fossero loro i responsabili della disfatta.

Non solo questo non è avvenuto, ma ci sono stati esempi opposti.

C’è De Magistris che interpellato espressamente dagli studenti No Green Pass di Napoli ha detto che sull’argomento si è già schierato (con un post su Facebook a inizio agosto che ha sollevato un vespaio dentro Unione Popolare) e non intendeva farlo di nuovo, in campagna elettorale, “perché è un argomento divisivo”. Ecco, appunto!

Ci sono stati candidati di Italia Sovrana e Popolare che, a dispetto del primo punto del “programma radicale” che andavano illustrando durante i comizi, non si sono presentati nemmeno a una delle varie mobilitazioni contro la guerra e la NATO (e ce ne sono state tante, vedi articolo a pag. 11) a causa della presenza di candidati di Unione Popolare o perché “è organizzata dai CARC che hanno dato indicazioni di voto per Unione Popolare”.

Ci sono dirigenti del Partito Comunista Italiano che sono convinti di aver dato lustro al simbolo raccogliendo poco più di 20mila voti e disertando un’iniziativa di commemorazione della Breccia di Porta Pia, il 20 settembre a Roma, perché in campagna elettorale non è conveniente attaccare il Vaticano!

Ci sono candidati di Italexit, riconosciuti per la partecipazione alle mobilitazioni, che hanno subìto il veto di Paragone a partecipare alle manifestazioni contro il carovita perché gli organizzatori non permettevano loro di fare passerelle elettorali.

La tara dell’elettoralismo ha annebbiato la capacità di analisi e l’aderenza alla realtà, ma soprattutto ha riversato sui capi politici la responsabilità di aver sprecato un’occasione per costruire un fronte unitario per rendere ingestibile il parlamento.

Questo è il dato politico su cui riflettere (e far riflettere), su cui poggiare il bilancio della campagna elettorale e dell’esito delle elezioni. Da questo la base deve partire per pretendere dai gruppi dirigenti tre passi: bilancio, autocritica e rettifica della condotta, cioè fare adesso quello che si sono rifiutati di fare prima.

È tardi, ma non è troppo tardi. Sembra poco, invece è tanto. Ma soprattutto è giusto, serio e responsabile. Per partire da basi più solide è necessario fare tesoro dell’esperienza. Solo così trasformiamo questa sconfitta in un’occasione.

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