Sul ruolo del Vaticano: la breccia di Porta Pia

Il 20 settembre il coordinamento Unità Popolare promuoverà a Roma un’iniziativa per la ricorrenza della cosiddetta “breccia di Porta Pia” (1870). Nel contesto della campagna elettorale, l’incontro vuole denunciare il ruolo di potere occulto del Vaticano nel regime politico del nostro paese: un centro di potere politico ed economico che piazza i suoi uomini nei posti di comando, che opprime le masse popolari. Un centro di potere parassitario che è custode e promotore dei peggiori retaggi culturali contro le conquiste della scienza e contro l’emancipazione dall’oscurantismo e misticismo (in particolare delle donne e delle minoranze sessuali). Un baluardo della mobilitazione reazionaria nel mondo, nemico dei lavoratori e delle masse popolari.

Alcuni considerano la presenza del Papa e il Vaticano in Italia come un tratto solo “folcloristico” (e la classe dominante alimenta questa visione), con ruoli marginali nel sistema di potere del paese. Tutt’altro! Il Vaticano è un potere feudale che la borghesia italiana, durante il processo unitario, non è riuscita a estirpare e che, nel corso dei decenni, si è evoluto fino a diventare uno dei principali protagonisti nel panorama delle potenze imperialiste. Vediamo qual è stato il processo storico che ha portato alla situazione odierna.

Durante il contraddittorio processo dell’Unità d’Italia sul trono pontificio sedeva Pio IX (1792 – 1878), irriducibile avversario della democrazia e del progresso. Per capirci: nel 1864 pubblicò il cosiddetto Sillabo nel quale venivano condannate aspramente tutte le teorie d’avanguardia, le conquiste del pensiero scientifico, i movimenti democratici e socialisti. Nel luglio 1870 il Concilio Vaticano I convocato da Pio IX proclamò, su richiesta dei Gesuiti, il dogma dell’infallibilità del Papa.

Pio IX si oppose aspramente all’inclusione di Roma nello Stato unificato italiano, processo avviato con la spedizione dei “Mille” di Garibaldi del 1860 e prima ancora con la guerra della Francia e del Regno di Sardegna contro l’Austria del 1859. Nel 1861 gran parte della penisola era sotto il controllo dei Savoia. Tra il 1861 e il 1862 il governo Ricasoli dovette affrontare anche lo spinoso problema di un’eventuale annessione del Lazio e di Roma, contro la quale Pio IX si era schierato in maniera categorica. Questo perché l’unificazione politica della penisola e lo sviluppo capitalista della sua economia comportavano per forza di cose l’abolizione dello Stato Pontificio. Il Papato aveva toccato il fondo del suo declino, il sostegno delle potenze europee era venuto in gran parte meno e il resto delle istituzioni feudali lo aveva seguito nella sua decadenza. Era ormai un’istituzione superata dalla storia.

Nel 1862 Garibaldi, appoggiato indirettamente da Ricasoli, intraprese una nuova spedizione per liberare Roma al grido di “Roma o morte”. Ma il re Vittorio Emanuele II temeva la mobilitazione popolare repubblicana e democratica, nonché un conflitto con Napoleone III che sfruttava la questione dello Stato Pontificio per ostacolare il processo dell’unità, facendosi garante degli interessi del Papato. Per questo Vittorio Emanuele II intervenne inviando le truppe del Regno d’Italia contro Garibaldi. Lo scontro avvenne sull’Aspromonte: Garibaldi venne ferito e fatto prigioniero e la spedizione garibaldina su Roma si tradusse in una sconfitta.

Qualche anno più tardi, nel 1866, l’Italia partecipò al fianco della Prussia alla guerra contro l’Austria (Terza guerra di indipendenza). Le truppe italiane furono sconfitte nelle battaglie contro gli austriaci; solo il corpo di volontari guidato ancora una volta da Garibaldi ottenne dei successi. Tuttavia, la disfatta del grosso delle forze austriache ad opera dell’esercito prussiano nella battaglia di Sadowa determinò l’esito della guerra anche per l’Italia: l’Austria fu sconfitta e, con la pace di Vienna (3 ottobre 1866), anche il Veneto venne unito all’Italia.

A questo punto rimanevano fuori solo Roma e i possedimenti pontifici circostanti.

Nel 1867 Garibaldi e i suoi volontari cercarono di realizzare questa unificazione ed entrarono nelle terre del Papa. Ma Pio IX schierò contro di loro le truppe mercenarie svizzere che, grazie all’appoggio dei francesi, sconfissero i garibaldini nella battaglia di Mentana (3 novembre 1867). Questi avvenimenti dimostravano però che il potere pontificio poteva impedire il compimento dell’Unità d’Italia solo grazie all’aiuto armato del governo di Napoleone III.

La creazione di uno Stato nazionale italiano fu portata a termine nel 1870 quando iniziò la guerra franco-prussiana (1870 – 1871). Dopo le prime disfatte della Francia, Napoleone III fu, infatti, costretto a richiamare da Roma le truppe francesi. Nel settembre 1870 i soldati italiani entravano quindi nel territorio pontificio e il 20 settembre, dopo aver bombardato e aperto una breccia nelle mura di Porta Pia, occuparono Roma. A sancire la conquista, nel gennaio del 1871, la capitale del Regno d’Italia venne trasferita da Firenze a Roma.

Rimaneva però aperta la questione dei rapporti tra lo Stato e il Pontefice, il clero e tutto il loro sistema parassitario. Il 13 maggio del 1871 il Parlamento italiano approvò la legge delle Guarentigie che, se da una parte riconosceva la reciproca indipendenza del Regno d’Italia e del Papato, dall’altra assicurava al pontefice la più ampia libertà d’azione e comunicazione, attribuiva il diritto di extraterritorialità ai palazzi del Vaticano e garantiva al clero italiano piena indipendenza politica “nell’esercizio delle funzioni spirituali”. Stabiliva, inoltre, una dotazione annua a favore delle casse vaticane per il mantenimento della Corte papale. Il Papa formalmente non accettò l’accordo, visto come “concessione” di prerogative che egli rivendicava per diritto divino. Anzi, nel 1874 la Santa Sede condannò come inopportuna (non expedit) la partecipazione dei cattolici alle elezioni politiche e amministrative del Regno d’Italia.

In questo modo la Chiesa continuò a funzionare in tutto il paese come un potere sovrano, uno Stato nello Stato, con la sua rete di funzionari indipendenti dallo Stato italiano che si ramificava in tutto il paese. Ebbe inoltre il vantaggio che ora erano la polizia, la magistratura, l’amministrazione penitenziaria del nuovo Stato unitario a far rispettare i suoi interessi, il suo potere, le sue speculazioni e il suo prestigio e che, quindi, se ne assumevano la responsabilità agli occhi delle masse popolari.

Un aspetto importante da considerare, che ha ripercussioni anche nella società di oggi, è l’egemonia morale e intellettuale che la Chiesa aveva sui contadini, sulle donne e su una parte della popolazione urbana. E il carattere anticontadino del Risorgimento non fece che giovare agli interessi della Chiesa, dato che la borghesia unitaria non condusse mai energicamente un’attività per eliminare o perlomeno ridurre l’influenza del clero sulla popolazione del suo nuovo Stato, in larghissima parte rurale.

L’analfabetismo, l’influenza della Chiesa nelle scuole inferiori, soprattutto nelle campagne, e la permanenza di un diffuso sistema di collegi e scuole gestito dal clero di eredità medievale, prolungarono l’egemonia della Chiesa nella formazione intellettuale e morale delle nuove generazioni. Col governo Giolitti e fino al fascismo (Patto Gentiloni del 1913 e Patti Lateranensi del 1929) il Vaticano accrebbe la sua influenza e potere in Italia rafforzando il suo ruolo di “Stato nello Stato”.

La borghesia diede al processo di formazione del suo Stato nazionale in Italia il pomposo nome di “Risorgimento”, alludendo a un risorgimento morale e spirituale che avrebbe dovuto affondare le proprie radici nel periodo dell’Impero romano e che sarebbe dovuto avvenire attraverso il raggiungimento dell’unità. Ma questo risorgimento morale e intellettuale non avvenne mai, perché l’unità fu raggiunta non con le masse ma contro le masse a tutto beneficio di una forza feudale come la Chiesa.

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