Libertà di espressione e censura cade la maschera della democrazia borghese

La farsa della libertà di parola sta perdendo progressivamente la sua efficacia. Prima delle conquiste del periodo dei Consigli di Fabbrica degli anni Settanta si diceva che la Costituzione si fermava ai cancelli delle fabbriche. Oggi nella maggioranza dei posti di lavoro sembra di essere tornati a quei tempi e la libertà di parola è di nuovo sotto attacco.

Negli ultimi anni le aziende che vengono criticate o denunciate pubblicamente da loro dipendenti, fanno ricorso sempre più spesso dell’articolo 2105 del Codice Civile, il cosiddetto “vincolo di fedeltà aziendale”. Con esso cercano di mettersi al riparo dalle critiche e dalle segnalazioni pubbliche delle loro nefandezze, pena il licenziamento di chi coraggiosamente denuncia. Basta un post su Facebook, come nel caso di Riccardo Cristello dell’ILVA di Taranto.

Chi viene licenziato può ottenere il reintegro, come successo appunto a Cristello, ma i padroni raggiungono comunque l’obiettivo, perché mirano a creare un clima di paura nelle loro aziende. La borghesia approfitta della debolezza organizzativa sui posti di lavoro per reprimere il dissenso e applica lo stesso schema nella società.

La classe dominante ha sempre più difficoltà a mantenere la coesione sociale, non ha più margini per concedere alle masse popolari miglioramenti tangibili delle condizioni di vita. Per mantenere il suo dominio è costretta a fare ricorso alle menzogne, all’intossicazione, alla diffusione di notizie false, alla distrazione. Cerca di cancellare nelle masse la coscienza della realtà che vivono quotidianamente. Quando questo non basta, ricorre alla censura e alla repressione di quanti dissentono.

La lotta contro la censura e per la libertà di espressione è un aspetto della lotta di classe.

I “filo-Putin” denunciati dal Corriere della Sera. L’Italia partecipa attivamente alle operazioni di guerra contro la Federazione Russa per conto della NATO e il governo mette all’indice quanti non si allineano alla propaganda di guerra. Appaiono le liste di presunti collaborazionisti con il “nemico”; dalle redazioni di giornale e dalle trasmissioni televisive si rimuovono, si emarginano o si denigrano pubblicamente giornalisti, attivisti e intellettuali che non si genuflettono alla propaganda di regime.

La lista è lunga e va da giornalisti insospettabili come Innaro e Capuozzo, passando per Santoro e arrivando a Bianchi, Orsini, Reginella ecc. Tutti velatamente accusati di nutrire rapporti con la Russia, forse di essere addirittura al soldo di Putin…. Ma a proposito di stampa realmente asservita possiamo solo immaginare quanti presunti giornalisti nostrani siano al soldo della CIA o del Mossad, qui ci basta ricordare, per tutti, Renato Farina, alias “agente Betulla”, che ai tempi di Libero era al soldo del SISMI con il compito di diffondere notizie false (motivo per cui è stato radiato dall’Ordine dei Giornalisti).

Gli artisti non allineati. Non è solo l’ambito della guerra in corso in Ucraina quello che vede la classe dominante all’attacco sul diritto di espressione e di parola. Recenti sono i casi di artisti perseguiti per i testi delle loro canzoni. Bakis Beks, cantate hip hop sardo, ha ricevuto un decreto penale di condanna nel 2020 per la sua canzone Messaggio. La denuncia è partita da alcuni poliziotti presenti a un suo concerto nell’estate del 2018, che avrebbero ritenuto il brano e l’atteggiamento del cantante sul palco “offensivo” nei loro confronti.

Il crimine di Bakis Beks è contestare l’occupazione militare della Sardegna e la presenza di innumerevoli poligoni militari, che oltre a occupare un territorio sottratto al popolo sardo, lo inquinano con l’utilizzo di munizioni all’uranio impoverito che sono causa di malattie mortali, che colpiscono sia i militari in servizio che gli abitanti delle zone limitrofe.

Attualmente è in corso il processo che il cantante ha voluto affrontare per opporsi al decreto penale, raccogliendo così la solidarietà di associazioni e singoli mobilitati in presidi esterni al tribunale.

Su Resistenza n.6/2022, nell’articolo “Lo spettro delle BR agita la Questura e il Tribunale di Reggio Emilia”, abbiamo già parlato del caso del gruppo musicale P38, inquisito per i contenuti dei suoi testi e per le coreografie dei suoi concerti, in particolare per quello del 1° maggio al circolo ARCI Tunnel di Reggio Emilia. In questo caso risulta inquisito anche il presidente del circolo, Marco Vicini, compagno del P.CARC.

Se allarghiamo lo sguardo all’estero, abbiamo poi i casi similari di Pablo Hasel e di Valtonyc in Spagna e, soprattutto, del Grup Yorum in Tuchia. I compagni musicisti turchi, per le parole della loro musica, sono stati incarcerati dal regime turco con l’accusa di terrorismo e di essere contigui al Fronte Rivoluzionario di Liberazione del Popolo (DHKP-C). Tre loro membri sono morti nel 2020, attuando uno sciopero della fame per protestare contro la detenzione e il divieto di suonare in pubblico inflitto al gruppo.

La censura della classe dominante non è finalizzata semplicemente a nascondere le manovre sporche. La sua preoccupazione maggiore è che dalla conoscenza e denuncia dei suoi crimini, dall’indignazione sterile e individuale, si passi all’organizzazione.

Fare fronte alla censura significa per prima cosa non fare passi indietro, difendere il diritto di parola praticandolo, continuando a fare ciò per cui si è stati censurati e rivendicandolo in ogni contesto. Un’operazione questa che è tanto più efficace quanto maggiore è il livello di organizzazione e sostegno che ogni soggetto che viene colpito è in grado di determinare.

Chi sfida apertamente la censura di regime va sostenuto, non va lasciato solo. Organizzarsi e allargare il fronte solidale è il modo migliore, più efficace, per avere successo.

Perché tanti appelli cadono nel vuoto? Il motivo è che spesso gli appelli si rivolgono solo a istituzioni o organismi legati ad esse, e non vivono fra le masse popolari che sono il vero motore di ogni mobilitazione. È importante, invece, che chi viene colpito dalla censura dedichi energie a far conoscere la sua vicenda anche e soprattutto alle masse popolari, promuovendo tra di esse la formazione di una rete solidale. Costruendo questa rete si fanno fare passi avanti all’organizzazione popolare, si fa diventare pratica di massa la lotta contro la censura.

Il P.CARC partecipa e promuove iniziative sull’argomento in tutta Italia. La lotta alla censura e per la libertà d’espressione, contro la stampa di regime e le sue macchine del fango, contro la repressione del dissenso è un campo di intervento importante per i comunisti. Si lega alla difesa degli spazi di agibilità conquistati con la vittoria della Resistenza che la borghesia tenta di limitare sempre più.
Quanto più la borghesia stringe le maglie alla libertà d’espressione e all’agibilità politica dei comunisti, tanto più si conferma e diventa evidente la giustezza della linea strategica del (nuovo)PCI, che è nato e opera nella clandestinità per fare la rivoluzione socialista nel nostro paese.

La debolezza della borghesia imperialista si vede nell’accanimento che dimostra nei confronti di Julian Assange. L’obiettivo particolare di tanto accanimento è scoraggiare chi potrebbe seguire il suo esempio e rivelare al mondo i crimini che essa commette ogni giorno. Per questo è così importante una condanna esemplare: 175 anni di galera, praticamente una condanna a morte, che giunge quando Assange è già distrutto psicologicamente e fisicamente. Ma più in generale, l’accanimento contro Assange è anche il pretesto per colpire la libertà di stampa e di espressione in un momento di gravissima crisi sociale e politica a livello mondiale in cui il dissenso è destinato non solo a crescere, ma anche ad organizzarsi.

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