Pubblichiamo l'intervista a Marco Dal Toso, avvocato del foro di Milano, per fare luce sulla natura, sulle cause e sulle conseguenze dei referendum sulla giustizia che si svolgeranno il 12 giugno.
L’argomento “Giustizia” è una costante della guerra per bande fra le fazioni della classe dominante e i quesiti referendari sono “incomprensibili” per i comuni cittadini: quale è la posta in gioco?
Sempre sul nostro sito, l’Agenzia Stampa “Staffetta Rossa” ha raccolto altre interviste che contribuiscono a fare chiarezza.
Unica annotazione preliminare: la Consulta Costituzionale ha bocciato, con il pretesto della poca chiarezza – o comunque l’inammissibilità – del testo, i referendum sulla legalizzazione della cannabis e sull’eutanasia. Due argomenti su cui effettivamente esiste uno schieramento chiaro anche fra le masse popolari. Ma ha approvato cinque quesiti estremamente complicati, tecnici, tre dei quali sarebbero già superati dai decreti attuativi della riforma Cartabia…
Ecco un’altra dimostrazione del fatto che la classe dominante considera le masse popolari che partecipano alla “lotta politica” borghese solo come massa di manovra.
Iniziamo con l’inquadrare politicamente i referendum del 12 giugno. Si parla di riforma della giustizia da decenni, qual è a tuo giudizio la posta in gioco di questa battaglia referendaria?
Partiamo dal dire che un referendum non può risolvere i problemi annosi della giustizia.
La giustizia italiana ha bisogno di tante cose: risorse economiche, concorsi e assunzioni… Sono previste circa 18000 assunzioni nel prossimo triennio, ma ci sarebbe bisogno che fossero di più. Inoltre c’è una grande disomogeneità sulla rapidità dei processi, a seconda delle aree del paese: in alcune zone del Mezzogiorno i tempi sono molto più lunghi. Uno dei grandi assenti in questi referendum, ad esempio, è che nel paese c’è molto bisogno di accelerare i tempi della giustizia civile: alcuni dei motivi per cui, si dice, le grandi imprese straniere non investono in Italia riguardano i tempi lunghi per il recupero dei crediti e l’incertezza del diritto. Quindi, anche da un punto di vista capitalistico, questo sistema deve essere sostanzialmente modificato.
Più in generale, da un punto di vista costituzionale andrebbe pretesa una giustizia equa, celere e che soddisfi i bisogni individuali e sociali dei cittadini.
Tuttavia, una parte dei soldi che dovrebbero arrivare con il Recovery Fund sono vincolati a una richiesta precisa: mettere mano a una riforma della giustizia nel nostro paese. Questo è uno dei motivi per i quali il governo Draghi vuole una riforma dell’ordinamento giudiziario in tempio brevi. Va considerato che dei cinque quesiti referendari, tre di essi potrebbero essere superati se arrivassero i decreti attuativi della riforma Cartabia, già approvata, ma appunto non applicata.
Poi c’è un secondo ordine di ragionamento, che emerge se guardiamo chi sono i proponenti dei referendum.
Da una parte abbiamo il Partito Radicale, da sempre impegnato in un “garantismo a 360°”, dall’altra abbiamo la Lega, che si attesta invece su un “garantismo peloso”. Il garantismo è ciò che protegge l’individuo e il corpo sociale dall’intervento dello stato, indipendentemente dalla razza o dalle condizioni socio-economiche. Questa è la definizione di Stefano Rodotà, che è quello forse che su questo punto ha dato la definizione più alta e che io personalmente condivido. Riguardo al garantismo delle Lega basta invece pensare alle politiche sui migranti basate sulla discriminazione che promuove e attua ovunque sia in posizione di governo…
Ecco, soprattutto da parte della Lega, c’è quindi una finalità politica: tanto nell’aver raccolto un milione di firme per presentare i referendum quanto per avere a carico pesanti indagini per tutta una serie di illeciti… basti ricordare, ad esempio, che recentemente sono stati condannati in primo grado due loro revisori dei conti per passaggi di denaro nella vicenda legata alla Lombardia Film Commission.
Infine, i cinque quesiti “sulla giustizia” sono in verità quesiti sulla magistratura… C’è un tentativo di limitare gli spazi di autonomia d’azione della magistratura, in una fase un cui non gode più della popolarità del 1992.
In che senso?
Mani Pulite ha prodotto un profondo cambiamento del sistema politico. I grandi partiti di massa, DC, PSI e anche il PCI sono stati sostanzialmente superati. Si è chiusa una fase politica, ad opera della magistratura. Al netto di alcuni eccessi di “uso improprio della custodia cautelare” furono in pochi a finire in carcere e fra di essi quasi tutti rei confessi., ci fu invece un ampio ricorso ai patteggiamenti, agli accordi transattivi, ai risarcimenti. Ci furono anche dei suicidi, è vero, ma stiamo parlando di un cambiamento epocale che ha rifondato il sistema politico e la classe politica stessa. C’è da dire che in questo terremoto non è scomparsa solo la parte corrotta e affarista della classe politica, ma anche una leva di persone che aveva formazione e competenze… insomma non è affatto detto che in termini di rinnovamento della classe politica, sia stato tutto di guadagnato: l’attuale classe politica non è neppure paragonabile con la vecchia…
Detto questo, anche la magistratura è cambiata. Ad esempio, negli ultimi due anni si è parlato molto delle correnti nel Consiglio Superiore della Magistratura (CSM), ma le correnti non sono più da intendere rispetto alla loro funzione storica, vanno anzi intese considerando ciò che via via sono diventate, talvolta, non sempre, un sistema di “lottizzazione” degli incarichi. Ne è esempio il “caso Palamara”…
Pertanto, in sintesi: una parte della politica ha come obiettivo di limitare gli spazi di autonomia d’azione della magistratura, la magistratura offre più di un pretesto perché il processo di “autoriforma” della stessa non ha prodotto risultati particolarmente positivi…
Approfondiamo un attimo sulle correnti nella magistratura…
Prendiamo Magistratura Democratica. È nata sull’onda delle lotte degli anni Sessanta e Settanta come esigenza di democratizzazione della magistratura, così come avvenne in altri settori e apparati dello Stato. E in effetti, anche i figli delle classi meno abbienti iniziarono ad avere accesso alla magistratura. Come dirigenti di questa corrente ci furono persone dello spessore politico e culturale di Luigi Ferrajoli e Marco Ramat, che lanciarono l’edizione della rivista Questione Giustizia, dove si faceva politica del diritto. L’obiettivo era tradurre lo spirito della Costituzione, coniugare la giustizia sociale alla tutela delle libertà individuali, il diritto come strumento per leggere la realtà sociale e per volgere al meglio “i rapporti di forza”, come strumento per emancipare le classi sociali meno abbienti e i lavoratori. Era un’area “nobile”, legata ai valori della sinistra garantista, ai valori come tutela delle libertà individuali, delle lotte, dell’applicazione della Costituzione sul tema del diritto del lavoro. Non è un caso che negli anni Settanta, finalmente, con lo Statuto dei Lavoratori la Costituzione entra nei luoghi di lavoro.
Sull’altro versante esisteva l’area centrista, Unità per la Costituzione, e poi Magistratura Indipendente, aperta alla cultura “classica” dello Stato repressivo della destra, lo stato del giustizialismo.
Nel corso degli anni, a mio parere, la situazione è mutata. Anche nella composizione sociale stessa della magistratura, ad esempio con i concorsi. Questo ha favorito che le aree politico-culturali presenti nel CSM nella seconda metà degli anni settanta, via via, si trasformassero nel sistema di “lottizzazione” degli incarichi che esiste oggi e di cui il caso Palamara è esempio. Poca attenzione ai problemi riguardanti la giustizia e grossa attenzione agli incarichi direttivi: il Procuratore capo, i Presidenti dei tribunali, il Presidente della Corte d’Appello… i grandi incarichi direttivi che determinano gli assetti organizzativi e l’assegnazione anche delle pratiche e dei procedimenti.
Ecco uno degli appigli che la magistratura ha offerto agli attacchi della politica…
Parliamo dei quesiti referendari. In che modo entrano nel processo di stravolgimento dei principi della Costituzione del 1948?
La nostra Costituzione prevede, dagli articoli 101 in poi, in particolare il 104, un unico ordine. Rispetto ai referendum si parla impropriamente del quesito “sulla separazione delle carriere”, ma non è una separazione delle carriere. Non lo è perché la nostra Costituzione prevede un unico ordine, la magistratura come potere autonomo nello stato di diritto, autonomo dal potere esecutivo e dal potere legislativo. Dovrebbe essere modificato l’articolo 106 per separare le carriere fra magistratura inquirente e magistratura giudicante.
In realtà questo quesito introduce una divisione delle funzioni. Ora è possibile passare, per un numero determinato di volte e limitatamente alla giustizia penale, da Pubblico Ministero inquirente (PN) a giudice e viceversa.
Io ho più fiducia di un di un PM che abbia anche la cultura della giurisdizione. Un giudice che ha fatto anche il PM, e viceversa, secondo me è un giudice migliore. Potrebbero essere fatti corsi formativi di specializzazione per chi andrà a fare il PM e chi il giudice, ma non ritengo si debba impedire la possibilità del passaggio.
Su questo punto, fra l’altro, la riforma Cartabia già trova una mediazione.
Un altro quesito riguarda la composizione dei Consigli Giudiziari, formati da magistrati, avvocati e professori universitari, presso ciascun distretto di Corte d’Appello. Fra le varie funzioni che li caratterizzano, ogni 4 anni inviano al CSM una relazione sulla professionalità dei magistrati di loro competenza. Agli avvocati e ai docenti non è però consentito esprimere una valutazione sull’operato dei magistrati, anche perché spesso non sono in possesso dei dati necessari per esprimersi. Il quesito referendario mira a togliere questa limitazione e ad assegnare il diritto di voto agli avvocati presenti nei Consigli Giudiziari.
L’obiezione che fa la magistratura su questo punto è che potremmo avere la valutazione di un avvocato che ha perso una causa con quel singolo magistrato: l’indipendenza della magistratura verrebbe così minata: potremmo avere un giudizio dettato da una esperienza personale anziché da una valutazione complessiva e oggettiva.
Un terzo quesito, anch’esso sarebbe comunque superato dai decreti attuativi della riforma Cartabia, propone una riforma del sistema elettorale del CSM. Non entro nei dettagli tecnici del funzionamento elettorale perché effettivamente sono di difficile comprensione, mi limito a una questione. Attualmente, per presentare una candidatura per la componente togata del CSM, i magistrati, è necessario sostenerla con un numero di firme: da 25 a 50. Sono poche ma assicurano una rappresentatività che, abolendo le firme, andrebbe del tutto persa. Se poi mi permettete un’ulteriore riflessione: la Lega addirittura propone che il CSM fosse composto da magistrati estratti a sorte…
Rimangono altri due quesiti, che forse sono i più politici. Uno è quello che richiede l’abrogazione della legge Severino.
Anche in questo caso, l’argomento è complesso. L’art. 54 della Costituzione prevede che tutte le funzioni pubbliche siano svolte con “lealtà e onore”. Non mi dilungo nelle descrizioni di quanto e come il principio sia stato disatteso…
La legge Severino prevede l’incandidabilità nelle liste elettorali e l’eventuale decadenza dal mandato, per coloro che hanno subito condanne in via definitiva per reati gravi commessi contro la pubblica amministrazione, legati al terrorismo o alla criminalità organizzata.
La critica che viene fatta da alcuni settori garantisti verte principalmente sulla sospensione dall’incarico per l’art. 11 della legge Severino, ad esempio per i sindaci condannati per abuso di ufficio. Fu il caso di De Magistris, che per un certo periodo venne sostituito dal suo vice sindaco.
L’obiezione che mi sento di fare è che su questo punto sarebbe sufficiente intervenire con una modifica legislativa dell’unico articolo che riguarda questo tipo di casi specifici, senza eliminare tutto il contesto generale. Va ricordato che che, per quanto riguarda il contesto generale, la legge delega ha aumentato per esempio le pene per i corruttori, per le concussioni, per i reati contro la pubblica amministrazione, ha introdotto il sistema del whistleblowing, cioè della possibilità di fare denunce anonime da parte del dipendente che nell’esercizio del suo lavoro venga a conoscenza di episodi di grave corruzione, di una grave anomalia ecc. Questo sistema secondo me non deve essere intaccato e il decreto Severino deve essere mantenuto nel suo complesso, con particolare riferimento all’incandidabilità a cariche pubbliche elettive e alla decadenza per coloro che sono stati condannati in via definitiva per gravi reati commessi contro la Pubblica Amministrazione.
L’ultimo quesito riguarda la proposta di abrogare la lettera c del comma 1 dell’articolo 274 del codice penale, che prevede l’ipotesi della possibile reiterazione del reato come uno dei requisiti per adottare un provvedimento di custodia cautelare.
Anche qui bisogna mettersi d’accordo. Questo provvedimento viene esteso anche alle misure interdittive, per esempio per i cosiddetti “reati in famiglia”. Quando vi è una denuncia per lesioni e il giudice adotta un provvedimento cautelare, questo non è necessariamente la custodia cautelare in carcere. Sono, ad esempio per i reati di maltrattamenti in famiglia, l’allontanamento dal domicilio; sono l’obbligo di presentazione all’autorità giudiziaria per reati come la resistenza a pubblico ufficiale, il presentarsi tutti i giorni oppure una volta a settimana a firmare; sono per esempio gli arresti domiciliari. Tutte sono considerate misure cautelari, misure che in caso di condanna poi vengono conteggiate in termini di pena. Nei primi due casi sostituiscono gli arresti domiciliari: la presentazione all’autorità giudiziaria impedisce che l’imputato venga ristretto nella sua libertà personale, che è un altro principio costituzionale. Ogni provvedimento del giudice in merito alla restrizione della libertà personale del cittadino dovrebbe essere motivato.
Qual è il problema in questo caso? C’è una larga discrezionalità del giudice nella valutazione della possibilità di reiterazione del reato. Anche qui l’intervento dovrebbe essere per via legislativa, introducendo l’obbligo di motivazione a carico del magistrato sulla sussistenza del pericolo di reiterazione, come accade per il pericolo di inquinamento delle prove. In caso di approvazione del referendum saremmo di fronte alla limitazione della custodia cautelare.
C’è da considerare, inoltre, la necessità di valutare reato e reato. Per alcuni reati, dai maltrattamenti alle lesioni, lo strumento della custodia cautelare in carcere a volte è uno strumento di protezione; non solo della vita della persona lesa, prevalentemente donne, ma anche della collettività nel caso in cui ci si trovi di fronte a imputati già recidivi e seriali nella commissione di alcuni tipi di reati.
Quindi anche questa è una discussione molto delicata e il ricorso allo strumento del referendum abrogativo è assolutamente inadeguato e improprio per entrare in queste questioni, che oggettivamente sono molto difficili. Tant’è che credo che nella campagna elettorale sentirai prevalentemente giuristi, magistrati o avvocati che interverranno per cercare di spiegare questioni che, ripeto, anche per gli stessi giuristi non sono semplicissime.