Le Larghe Intese governano il paese principalmente perché la rete del nuovo potere delle masse popolari non è ancora sviluppata e organizzata a un livello tale da soppiantarle.
Questo significa che per dare seguito pratico alle tante aspirazioni di cambiamento del paese, la questione principale è rafforzare la rete di organismi operai e popolari, costituirne di nuovi dove ancora non esistono e coordinarli tutti affinché ognuno faccia la propria parte nella gestione di quelle attività che la classe dominante manda in malora perché, anche utilizzandole al meglio, non le porterebbero tutti i profitti che ricava dalle speculazioni.
Nel nostro paese ci sono già una miriade di organismi che si pongono l’obiettivo di far funzionare ciò che non funziona, di salvare le aziende dalle chiusure e dalle delocalizzazioni, di rendere fruibili beni e servizi che con le privatizzazioni sono diventati merce (dalla sanità all’acqua pubblica, dall’istruzione ai trasporti, ecc.). Ognuno di essi dimostra in piccolo che le masse popolari organizzate possono fare meglio della classe dominante, in primo luogo perché ne hanno l’interesse e la volontà.
Ognuno di essi, può essere il primo ingranaggio della struttura via via più estesa (a livello provinciale, regionale e poi nazionale) su cui poggia il nuovo potere del governo di emergenza popolare.
Su Resistenza facciamo spesso da alcuni mesi l’esempio degli operai della GKN di Firenze. Non solo perché la loro lotta contro la chiusura della fabbrica è un’esperienza da cui possono trarre spunti e insegnamenti tutti i lavoratori e, più in generale, tutte le masse popolari, ma anche perché questi operai guardando oltre il loro obiettivo particolare hanno tracciato un sentiero che può – e deve – diventare una strada.
Lo scorso 11 marzo hanno presentato il loro piano per un Polo Pubblico per la Mobilità Sostenibile, scritto con il contributo della rete di economisti della Scuola Superiore Sant’Anna e di ricercatori di altre università. Un piano ragionato che permetterebbe sia la riconversione dello stabilimento – e quindi la piena ripresa del lavoro per gli operai – sia la produzione di semiassi destinati a un trasporto pubblico ed ecologico (il cui sviluppo è nell’interesse delle masse popolari). Un piano, quindi, che parte da un bisogno reale per andare oltre, che ripensa l’intero settore l’automotive.
È un esempio “in piccolo” di ciò che è possibile fare “in grande” per mettere mano agli effetti più gravi della crisi. Ma l’aspetto principale della questione non è tanto la giustezza o “fattibilità” dei piani che le masse popolari elaborano dal basso. L’aspetto decisivo è lottare per imporli.
Gli operai GKN dicono che per attuare il loro piano serve cambiare i rapporti di forza nel paese. Questo è vero, ma il ragionamento deve essere dialettico: quanto più cambiamo i rapporti di forza tanto più sarà possibile realizzare i piani elaborati dalle masse popolari, ma i rapporti di forza tra le classi si ribaltano tanto di più quanto più le masse popolari lottano per imporre le loro soluzioni!
“Ma non ce lo lasceranno fare” diranno molti. Sicuro, la classe dominante farà di tutto per impedirlo. Ma se i cambiamenti politici e sociali dipendessero dall’assenso della classe dominante saremmo ancora all’età della pietra!
Gli operai GKN hanno ottenuto il ritiro dei licenziamenti perché hanno occupato la fabbrica, di certo senza chiedere il permesso alla direzione aziendale. Hanno potuto costruire la manifestazione nazionale del 26 marzo che ha visto scendere in piazza “la nuova classe dirigente del paese” perché hanno guadagnato autorevolezza tra i lavoratori e le masse popolari.
Ovvio, il Collettivo di Fabbrica GKN ha aperto una strada, ha dimostrato che è possibile ribaltare decisioni già scritte di fondi finanziari internazionali con la forza degli operai e del territorio. Ma da sola questa esperienza non basta nemmeno a sé stessa. Se la GKN rimane un unicum nel paese, come dicono gli stessi operai, non riuscirà a cambiare i rapporti di forza e nemmeno a riaprire la fabbrica.
Occorre quindi che le masse popolari da un capo all’altro dell’Italia imbocchino la stessa strada in ogni ambito, dal più grande al più piccolo, dalle aziende ai quartieri; serve che in ogni luogo si formino e sviluppino organizzazioni che si riuniscono, che fanno piani, che si coordinano con le altre realtà e che cominciano ad attuare su scala ridotta quello che vogliono fare in grande! È così che si guadagnano posizioni, è così che si ribaltano i rapporti di forza.
È necessario che le forze che devono soppiantare quelle della classe dominante siano schierate e organizzate, attive e in reciproca relazione fra loro.
Le posizioni di forza guadagnate vanno sviluppate affinché diventino forza dirigente, affinché siano le masse popolari a decidere cosa e quanto devono produrre le aziende, ad assegnare un lavoro dignitoso a tutti, a riorganizzare la distribuzione delle risorse, le relazioni politiche, economiche e sociali del paese. Questo vuol dire prendere in mano il governo del paese!
Per salvare il paese serve un piano. Non è la lista delle buone intenzioni, né l’elenco di “ciò che bisognerebbe fare”, ma è la somma (momentaneamente) disordinata e contraddittoria dei tanti piccoli piani che si danno gli organismi operai e popolari. Dalla loro attuazione passa il ribaltamento dei rapporti di forza.
Si può fare!
I primi soviet vennero costituiti in Russia nel fuoco delle battaglie rivoluzionarie del 1905 (i principali a Pietroburgo, Mosca, Kharkov). Inizialmente erano né più né meno che dei comitati di lotta sorti per dare una direzione comune alle rivendicazioni disorganizzate dei lavoratori. Il primo soviet si formò nel maggio 1905 a Ivanovo-Voznesensk (distretto tessile di Mosca), i suoi obiettivi (la sua piattaforma rivendicativa) erano: l’abolizione del lavoro notturno e del lavoro straordinario, un salario mensile minimo, l’abolizione della “polizia di fabbrica”, la libertà di parola e di riunione per gli operai. Esso era formato da un centinaio di delegati (eletti tra e dagli operai delle fabbriche del distretto) e aveva il compito di dirigere lo sciopero, impedire trattative separate e il crumiraggio, mantenere l’ordine e rafforzare l’organizzazione tra gli operai.
La sconfitta della rivoluzione del 1905 portò con sé lo scioglimento dei soviet, l’arresto in massa dei loro dirigenti e la loro messa fuorilegge.
Nel febbraio del 1917 tornarono sulla ribalta della scena politica, tanto che il 22 marzo il ministro della guerra del governo provvisorio presieduto da Kerenskij scriveva che “il governo provvisorio non possiede un potere reale, i suoi ordini sono eseguiti solo per quel tanto che è permesso dal soviet degli operai e dei soldati, che ha in mano gli elementi più importanti del vero potere, cioè i soldati, le ferrovie, il servizio postale e telegrafico. Si può dire in forma più netta che il governo provvisorio esiste solo in quanto il soviet glielo permette. Specialmente in materia militare gli ordini che si possono dare non devono essere fondamentalmente in conflitto con le deliberazioni del suddetto soviet” – da “Tutto il potere ai soviet” su Resistenza n. 4/2014
“Con la nostra lotta siamo stati in grado finora di salvare la continuità occupazionale e dei diritti. Non siamo riusciti a salvare però la continuità produttiva, perché è impossibile pensare di salvare la singola unità produttiva in un settore come l’automotive senza un intervento complessivo. In pratica non era possibile salvare la produzione di semiassi a Campi Bisenzio senza ripensare l’automotive in Italia. Per questo abbiamo proposto una riconversione all’interno del polo pubblico della mobilità sostenibile”- Dario Salvetti, delegato RSU GKN