Editoriale
Il movimento politico della società capitalista non è determinato dai governi, dai capi di governo, dai presidenti e dai partiti politici borghesi, ma dal movimento economico.
Non è la politica che dirige la società, ma l’economia. Non è la politica che governa l’economia, ma è l’economia che governa la politica e la crisi generale del sistema capitalista – entrata nel 2008 nella sua fase acuta e terminale – è l’elemento da cui non si può prescindere.
In questo senso le dichiarazioni di questo o quell’esponente politico o istituzionale – e a maggior ragione le opinioni di cronisti, commentatori politici e media – non hanno alcun valore, servono unicamente ad alimentare intossicazione e diversione dalla lotta di classe.
Vediamo cosa significa tutto questo per il nostro paese.
La rielezione di Mattarella è stata presentata come la “saggia scelta del parlamento” per assicurare stabilità al paese. Ma subito dopo l’elezione di Mattarella (e la nomina di Giuliano Amato alla presidenza della Corte Costituzionale) la guerra per bande fra fazioni della Repubblica Pontificia si è intensificata: scontri per via giudiziaria (vedi il processo contro Renzi e l’azzeramento dei vertici del M5S da parte dei giudici di Napoli) e lotte entro tutti i partiti che sostengono Draghi direttamente (vedi M5S e Lega) e indirettamente (vedi Fratelli d’Italia e lo sgretolamento del polo di Centro-destra delle Larghe Intese).
Sgambetti e colpi di mano hanno portato il governo a finire in minoranza quattro volte in un solo giorno (17 febbraio), sugli emendamento al Decreto “Milleproroghe”, tradizionale strumento di spartizione dei soldi stanziati con la Legge di Bilancio fra correnti e comitati d’affari, cosa che ha spinto Draghi a un ultimatum: “o continuate a fare come dico io senza troppe storie oppure cercatevi un sostituto”. Ma i risultati sono stati scarsi: il 21 febbraio la maggioranza si è di nuovo spaccata rispetto al ritiro del Green Pass con la conclusione dello stato di emergenza, il 31 marzo.
A scanso di equivoci, le resistenze dei partiti delle Larghe Intese non provengono da un repentino senso di giustizia nei confronti delle masse popolari o di responsabilità verso il paese, derivano dal fatto che l’attuazione del programma comune della borghesia imperialista intacca gli interessi particolari dei loro bacini elettorali di riferimento.
Inoltre, ogni misura che il governo Draghi attua per accontentare una delle fazioni che lo sostiene finisce inevitabilmente per scontentarne un’altra o comunque crea problemi a un’altra.
Da qui le crepe insanabili nella maggioranza di governo. Crepe che crescono in una fase in cui, anche a livello internazionale, “i nodi vengono al pettine” (provocazioni degli imperialisti USA contro la Federazione Russa in Ucraina, crisi ambientale, crisi energetica, ecc.).
Sul numero scorso di Resistenza abbiamo spiegato cosa significa che l’Italia è un paese occupato e che serve una nuova liberazione nazionale. Tutto quello che è successo nelle scorse settimane ne è conferma e dimostrazione.
Per “mettere in riga” i partiti delle Larghe Intese, Draghi minaccia di mollare.
Le sue minacce, inutili a risolvere le contraddizioni, sono un’ulteriore dimostrazione dell’acutizzarsi della crisi politica, del fatto che la classe dominante non riesce più a governare il paese nonostante abbia messo a capo del governo “il migliore dei migliori”, un commissario della Troika.
Il governo che pone il nostro paese alla mercé degli interessi della NATO (basi militari, risorse, ecc.) va cacciato.
Il governo che permette che le masse popolari siano strozzate per rispettare i vincoli della BCE e dei grandi gruppi della speculazione internazionale va cacciato.
Il governo che permette, e anzi favorisce, le delocalizzazioni e la distruzione dell’apparato produttivo deve essere cacciato.
Il governo che promuove la guerra contro i lavoratori e le masse popolari del proprio paese, che alimenta la guerra fra poveri, che alimenta la guerra contro i lavoratori e le masse popolari di altri paesi deve essere cacciato.
Rendere ingovernabile il paese alla classe dominante e imporre un governo di emergenza popolare che attui misure straordinarie per fare fronte agli effetti della crisi è il compito dei comunisti, dei lavoratori e dei giovani di avanguardia.
Non è tempo di “indossare guanti bianchi”. I comunisti devono competere direttamente con la classe dominante e i suoi “mille tentacoli” (partiti borghesi, movimenti reazionari e sindacati di regime) per dirigere quella parte di masse popolari che già si mobilita, per organizzarla a un livello superiore (affinché si dia i mezzi della sua politica), per coordinarla e portarla a prendere nelle sue mani il governo del paese.
Non è tempo di coltivare illusioni. Cambiare il paese attraverso le istituzioni, la politica borghese, le elezioni è la prima. Le Larghe Intese violano continuamente le loro stesse regole, regole che cambiano in continuazione per rendere più semplice l’esclusione delle masse popolari dalla vita politica (o per rendere questa partecipazione solo simbolica, sterile ai fini pratici).
Cambiare il paese sperando nel buon senso da parte di questo o quell’esponente della classe dominante è la seconda illusione. È vero che gli esponenti della classe dominante vanno affermando che “siamo sulla stessa barca”, ma intendono dire che le masse popolari devono sacrificarsi per non farla affondare. Pertanto no, non è vero che siamo sulla stessa barca. Se la classe dominante affonda, i lavoratori e le masse popolari hanno tutto da guadagnare.
Non è tempo né per l’attendismo né per il disfattismo. Il lavoro che dobbiamo fare è difficile, la lotta è dura, la corrente contraria è forte, i falsi amici sono ovunque, i nostri limiti sono ancora grandi, facciamo e faremo errori. L’importante è superare i primi e correggere i secondi, imparare e andare avanti. Non esiste un’altra via di uscita positiva, non esiste un’altra prospettiva, non esistono scorciatoie.
Imparare a fare facendo, imparare a combattere combattendo, imparare a vincere avanzando. Passo dopo passo, ma senza aspettare. Non si può più aspettare. Se non ora, quando?