Si accende sempre di più il dibattito sul futuro della Banca Monte dei Paschi di Siena (MPS) soprattutto a seguito dell’interruzione delle trattative per l’acquisto della banca da parte di Unicredit. Le vicende che coinvolgono MPS preoccupano molto i cittadini senesi ma soprattutto i suoi lavoratori che sono migliaia in Italia, all’incirca 22 mila.
Il Monte dei Paschi di Siena è una tra le banche più antiche al mondo. In epoca fascista divenne un Istituto di Credito di Diritto Pubblico grazie ad una legge nazionale del 1936, rimanendo tale fino ai primi anni ’90 quando il sistema bancario fu oggetto di una serie di riforme volte a privatizzare gli Istituti di Credito di Diritto Pubblico, compresa Banca d’Italia. Con la legge Amato infatti prese il via il sistema delle Fondazioni bancarie che divennero proprietarie di grandi istituti di credito pubblici.
Nel 1994 la direzione di MPS approdò ad un progetto di ristrutturazione della banca conforme alla legge Amato, che il 28 agosto 1995 si concretizzò nella costituzione della Fondazione Monte dei Paschi di Siena, soggetto di diritto privato, e con il conferimento dell’attività bancaria dell’ex Istituto di Diritto Pubblico alla Banca Monte dei Paschi di Siena S.p.A.
Negli anni che seguirono MPS compì alcune operazioni cosiddette di crescita inorganica, tra cui la scalata di Banca Agricola Mantovana, avviò le quotazioni in Borsa, acquistò la maggioranza delle azioni di Banca del Salento e, in contemporanea, iniziarono gli scandali. Visti i fallimenti delle ipotesi di aggregazione tentate nei primi anni 2000, il vertice della banca pensò di poter fare di MPS stessa un polo di aggregazione e nel novembre del 2007 acquistò dal Banco Santander la banca Antonveneta di Padova. L’operazione comportò però un esborso di 9 miliardi di euro, oltre al debito di 7,5 miliardi che Antonveneta aveva verso Abn Amro e che MPS fu costretta ad accollarsi.
Per far fronte a queste necessità finanziarie scattò il primo aumento di capitale, una operazione da 9 miliardi di euro.
Dalle pieghe del bilancio di MPS emersero poi anche altri prodotti derivati, quali Alexandria e Santorini, la cui esistenza era stata nascosta anche alla Banca d’Italia e che erano serviti a occultare perdite di centinaia di milioni. Si parlò di un buco di circa 730 milioni di euro che portò nel 2017 lo Stato a farsi carico di un aumento di capitale per un ammontare di 6 miliardi di euro su 8,8 miliardi, una somma che oltre a tappare il buco ha portato lo Stato a detenere all’incirca il 64% delle azioni di MPS che il Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF) avrebbe dovuto vendere entro la fine del 2021. A tal fine, nel luglio scorso, avevano preso avvio trattative dirette tra Unicredit e il Ministero del Tesoro per l’acquisizione parziale di MPS e, secondo indiscrezioni, la fusione avrebbe comportato circa 5000 esuberi considerando i tagli nelle sedi dei grandi capoluoghi di provincia, nelle direzioni generali di Mantova, Padova e Lecce e fra i lavoratori delle aree territoriali e nei poli di consorzio, oltre ai 2100 lavoratori della direzione generale centrale a Siena.
Malgrado ad oggi la trattativa con Unicredit si sia interrotta, il Governo Draghi ha espresso chiaramente l’intenzione di non voler rinunciare alla fusione rimandando l’agonia di migliaia di lavoratori che, a queste condizioni, prima o poi perderanno il posto di lavoro.
L’operazione con la quale il Governo sta tentando di vendere MPS rientra a pieno titolo nel processo di smantellamento dell’apparato produttivo del paese. Si tratta infatti di un processo che ha già visto ingenti esborsi in termini economici da parte dello Stato, prima per pagare i debiti di enti e banche private, come Antonveneta, poi procedendo a ristrutturazioni che hanno già lasciato dietro di se esuberi e licenziamenti, fino alla necessità di nuove ricapitalizzazioni per portare a termine le fusioni e che vanno a sommarsi ai miliardi già spesi..
Le operazioni di svendita al primo sciacallo, propinate come unica via per salvare MPS, sono la soluzione con la quale il Governo Draghi presta il fianco alla speculazione finanziaria di banchieri e affaristi sulla pelle dei lavoratori, i quali per far fronte allo smantellamento della banca hanno una sola prospettiva possibile, quella della nazionalizzazione di MPS , che tra l’altro, con il 64% delle azioni detenute, è già di fatto di proprietà dello Stato.
La propaganda di regime che volutamente contempla esclusivamente l’acquisto da parte di un compratore privato servono a nascondere il fatto che lo Stato ci ha già rimesso miliardi di euro per ingrassare il mercato privato e che nonostante il sistema bancario sia in crisi, nonostante sia stata proprio la privatizzazione a portare sull’orlo del fallimento Banca MPS, la scelta politica è quella di smembrarla e spacchettarla per finire di darla in pasto al prezzo più scontato possibile agli aguzzini della finanza.
E’ chiaro quindi che la scelta di nazionalizzare MPS non sarà mai una scelta che verrà da parte del governo Draghi, il cui unico obiettivo è quello di proseguire l’opera di smembramento del tessuto produttivo italiano. Se intendesse farlo, come nel caso dell’inserimento di Invitalia nell’affare ex Ilva – Arcelor Mittal di Taranto spacciata come nazionalizzazione ai più sotto il governo Conte 2, lo farebbe solo al fine di accollare nuovamente sullo Stato i debiti dei privati e le spese di gestione, mentre a godere dei profitti saranno le società che si siederanno al tavolo per accaparrarsi questo lauto pasto. Quella del Governo Conte 2 infatti fu una vera e propria farsa: ad essere colpiti dagli effetti negativi della trattativa Invitalia – Arcelor Mittal per la ripresa della produzione delle acciaierie tarantine sono stati esclusivamente i lavoratori. Difatti, non sono stati mantenuti né i livelli occupazionali, né le promesse di bonifica: per i lavoratori tarantini la ricetta della finta nazionalizzazione tramite Invitalia ha voluto dire solo più sfruttamento, più disoccupazione e garanzia di tumori!
Una vera nazionalizzazione vuol dire esclusione dei privati nella spartizione di Banca MPS e investimento interamente pubblico per rendere la banca uno strumento utile a far fronte agli effetti peggiori della crisi, ad esempio: fornire il denaro necessario alle piccole aziende per poter ripartire dopo più di un anno di lavoro altalenante; sostenere e finanziare i progetti di future nazionalizzazioni e/o investire nelle aziende in procinto di delocalizzare che gli operai intendono rilevare per continuare a produrre; sostenere una reale riconversione a sistemi produttivi più ecologici e rispettosi della salute dell’ambiente e del lavoratore ecc. Vuol dire infine che il controllo sull’azienda deve essere in mano ad un consiglio o un’assemblea di lavoratori che ne decide il funzionamento.
Ma per una reale nazionalizzazione di MPS, come le altre aziende del paese, è necessario un governo che lo faccia, che attui le misure di emergenza che servono alle masse popolari e che dunque:
- Vieti la vendita delle aziende tra cui MPS ai gruppi industriali esteri che sfuggono all’autorità dello Stato Italiano, sia ai fondi d’investimento per cui le aziende sono carte nel gioco d’azzardo della speculazione finanziaria;
- imponga ad ogni azienda operante in Italia di sottoporre i piani industriali, idonei a garantire la qualità dei prodotti, dell’occupazione e dell’impatto ambientale, ad un vero Ministero dello Sviluppo Economico;
- Impedisca lo smantellamento delle aziende, la riduzione del personale, le chiusure e le delocalizzazioni finanche a requisire gli stabilimenti e metterli sotto il controllo dei lavoratori.
È impellente imporre un governo di emergenza popolare che abbia la forza di attuare queste misure per salvaguardare i posti di lavoro e svoltare verso lo sviluppo economico che serve al paese. Per farlo, è necessario che i lavoratori di MPS e di tutte le altre aziende in procinto di essere smantellate e chiuse si organizzino, insieme a tutte le altre aziende ancora in piedi (nessuna è esente dalla crisi in corso!) seguendo l’esempio della GKN di Campi Bisenzio (FI).
È necessario che in ogni filiale del paese si formino comitati di lavoratori come quello che spontaneamente si è organizzato e si è riunito dentro ai cancelli della GKN occupata di Campi Bisenzio (FI) in occasione dello sciopero del 24 settembre raccogliendo l’invito ad insorgere!
Questa è la strada che tutti i lavoratori di MPS devono percorrere organizzandosi tra loro ma, anche coordinandosi con le organizzazioni di migliaia di altri lavoratori e operai organizzati nelle aziende che i capitalisti e i loro governi hanno condannato a morte lenta, hanno già chiuso o delocalizzato.
Il destino di MPS è nelle mani dei suoi lavoratori e la loro lotta, come quella dei lavoratori delle altre aziende capitaliste e pubbliche, deve porsi l’obiettivo di cacciare il Governo Draghi, amico delle banche e di Confindustria, e di unirsi alle lotte di chi vuole cacciarlo per imporre un governo espressione degli interessi della classe operaia e delle masse popolari.
Questo è l’unico governo che avrà la forza di nazionalizzare MPS e i suoi lavoratori devono insorgere insieme agli operai della GKN!
L’esempio dei lavoratori della GKN va portato dentro ogni filiale di MPS sulla quale pende la spada di Damocle della riduzione o della chiusura, perchè il suo Collettivo di Fabbrica, attivo già da anni, è la dimostrazione di come sia possibile organizzarsi sul proprio posto di lavoro e portare avanti le lotte sia dentro che fuori l’azienda conquistando prestigio e influenza sulle masse popolari della propria città e di tutto il resto del paese.
Se organizzarsi è stato possibile alla GKN allora è possibile e necessario che anche i lavoratori di MPS imbocchino la stessa strada che li porterà a decidere del loro futuro!