Pubblichiamo l’intervista fatta ad una lavoratrice e membro della segreteria regionale CGIL della sua categoria. Manteniamo la forma anonima per poter permettere alla lavoratrice e ad altre che vorranno seguire il suo esempio di esprimersi liberamente, senza dover tenere di conto della repressione sul luogo di lavoro o all’interno delle organizzazioni sindacali.
Dall’intervista emergono il dibattito e la lotta interna alla CGIL e anche come questi siano rafforzati dalle esperienze di mobilitazioni di operai e lavoratori, come ad esempio quella del Collettivo di Fabbrica della GKN. Mostra il ruolo che anche in questa battaglia possono assumere le donne perché l’interesse di tutti i lavoratori si combina ed è inscindibile dall’interesse delle donne lavoratrici. L’oppressione delle donne è doppia, ma lo è anche la spinta alla riscossa e a liberarsi dalle catene che le opprimono.
L’intervista è molto utile a tutte quelle donne che hanno o che vogliono assumere un ruolo dirigente all’interno di un organismo, che sia questo di movimento, sindacale o politico. Mette in fatti bene in luce quali sono le contraddizioni che una donna deve affrontare per assumere un ruolo in questa società e anche all’interno dell’organismo in cui si attiva. Mostra anche quali sono stati gli strumenti di cui la compagna si è dotata per superarli e quali sono gli aspetti centrali nel percorso. É quindi di esempio per tutte quante si trovino nella stessa condizione.
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Prima di tutto raccontaci qual è stato il tuo percorso di militanza e come sei arrivata al sindacato.
Prima di entrare nella CGIL ero stata attiva principalmente in collettivi studenteschi alle superiori, sulla base dell’aggregazione e di spinte adolescenziali, ma ho sempre seguito l’attivismo politico di base. Quando ho iniziato a lavorare mi sono trovata a diventare una delegata sindacale quasi per caso, anche se niente accade per caso e c’è sempre la disponibilità e la volontà individuale. Nel mio caso riguardava principalmente la volontà di giustizia. Dopo poco tempo che sono entrata nel mio posto di lavoro il delegato della CGIL è stato trasferito improvvisamente e, io che mi ero iscritta da poco alla CGIL per una vicinanza politica, sono stata indirizzata da lui a prendere il suo posto. Avevo 24 anni, ero da poco entrata a lavoro e quando ho iniziato a fare attività sindacale ero completamente delegittimata perché ero una donna ed ero giovanissima, conoscevo poco il mio posto di lavoro, che è una competenza fondamentale per fare la sindacalista, ed ero “ingenua” politicamente. Mi sono quindi trovata da subito a scontrarmi con dinamiche che poi avrei conosciuto meglio.
Era il tempo della battaglia legata all’articolo 18 e mi sono trovata catapultata nel dover promuovere assemblee e andare nei posti di lavoro; l’ho fatto sempre sola perché la mia era una provincia periferica. Il primo “scontro” interno che ho avuto è stato su una questione di salute e sicurezza all’interno del posto di lavoro. Io mi appoggiai per il lavoro da fare ai sindacalisti CISL e UIL, che avevano più esperienza di me. Il segretario provinciale subito mi richiamò duramente accusandomi di non aver rispettato una procedura, che in realtà non era necessaria. Il richiamo ovviamente non era sul merito ma riguardava una dinamica tra sigle e una questione di visibilità, a cui io non avevo minimamente pensato.
Un episodio simile al precedente mi capitò poco tempo dopo, in occasione del congresso della CGIL. Mi lessi i due documenti congressuali e decisi che avrei votato il secondo documento perché i contenuti mi convincevano di più rispetto al primo documento. Quando, in sede congressuale, votai il secondo documento il segretario provinciale subito venne da me dicendomi che forse avevo sbagliato a votare. Quando confermai il mio voto la sua risposta fu che non mi pensava così “barricadera”. La mia reazione in quel caso, invece di farmi intimidire, fu quella di sostenere con forza la mia posizione e grazie a questo riuscì ad ottenere i voti che mi portarono a tutti gli organismi dirigenti della CGIL perché le quote di minoranza hanno la garanzia della rappresentanza e quel secondo documento aveva l’appoggio di molti lavoratori. Quindi da RSA sono entrata a far parte della segreteria provinciale e del direttivo della Camera del Lavoro. È iniziato così il mio percorso all’interno della CGIL.
Racconto questi episodi perché sono parte integrante di un modus operandi da parte di alcuni dirigenti per contrapporsi alle posizioni più “scomode”. Io sono riuscita a superare episodi come questo perché ho un carattere forte, ma molte giovani donne che si trovano ad assumere ruoli sono colpite da questo atteggiamento e scoraggiate a continuare. È una forma di violenza che le donne subiscono per l’oppressione che vivono all’interno della società.
Sia chiaro, la CGIL, ha uno statuto che ritengo molto avanzato rispetto alla questione di genere. Abbiamo una normativa antidiscriminatoria che prevede negli organismi dirigenti non meno del 40% e non più del 60% di un genere. Ma al di là dello statuto, quotidianamente si tratta di dare battaglia perché questo viva effettivamente. Ad esempio le iscritte CGIL sono più degli iscritti, ma per quanto riguarda gli organismi dirigenti le proporzioni non sono certo le stesse.
Quello che ci hai raccontato mostra come di fatto la questione di genere, anche all’interno dell’ambito sindacale, sia usato come strumento per isolare posizioni politiche scomode e come sia doppiamente difficile quindi per le donne che si fanno portatrici di queste posizioni dare battaglia per farle affermare. Quali sono le difficoltà che una donna si trova ad affrontare all’interno di un simile contesto e quali sono stati i tuoi strumenti per superarle.
La costante nel mio percorso è stata la lotta per conquistarmi autorevolezza. Per le donne è doppiamente difficile crearsela e darsi i mezzi che sono necessari per farlo.
Inizialmente avevo difficoltà ad intervenire nelle assemblee, nei direttivi per la sensazione di essere inadeguata, di dire sciocchezze. Quando ho trovato il coraggio di farlo ed ho iniziato a battermi per dare autorevolezza a ciò che sostenevo l’ho fatto con lo studio e la formazione. Mi sono resa conto che essere una donna che vuole assumere un ruolo nella società e all’interno di un organismo sindacale significava non sgarrare, non avere la possibilità di essere approssimativa o impreparata su un argomento da sostenere. Ho studiato, mi sono formata da sola per capire il più possibile ciò su cui dovevo intervenire, per dare solidità alle mie posizioni e così battagliare per affermarle. Io sono formatrice all’interno della CGIL e ho lavorato duro per assumere questo ruolo. Questa è una condizione che penalizza non poco le donne perché non si possono permettere di sbagliare fin quando non hanno un ruolo affermato e questo preclude loro tante sperimentazioni formative. Per questo mi sono battuta ed ho firmato un accordo per poter fare formazione su diritti sindacali in tutti quegli ambiti in cui non arriviamo come sindacato all’interno della categoria, come ad esempio le assunzioni tramite agenzie d’appalto nel nostro settore, che a maggioranza hanno donne come lavoratrici. E anche in quell’occasione il lavoro di autoformazione che ho fatto mi è servito per non cedere ad atteggiamenti che potevano spingere a mollare o a rivedere l’accordo. Mi è stato detto ad esempio che era un accordo pessimo, ma io anziché lasciarmi intimidire mi sono fatta forza del fatto che è un accordo più unico che raro in Italia e che ne ero orgogliosa, pr questo l’ho difeso strenuamente.
Quindi se devo dire quali siano gli strumenti dico che la formazione è sicuramente l’aspetto principale. Alla base ovviamente significa tenere bene in mente l’obiettivo per cui stai combattendo, per cui ti stai prendendo la responsabilità di assumerti un ruolo e per cui stai intraprendendo la battaglia.
Se metti al centro l’obiettivo, riesci a superare le difficoltà. Il nostro obiettivo come sindacaliste è l’interesse dei lavoratori e quindi contro i padroni. Se ti perdi nelle dinamiche interne e di lotta con altri sindacati è finita.
Un altro elemento che per me è stato molto importante è stata la “sorellanza” che ci siamo costruite con le compagne dentro la mia organizzazione, aiutate anche dal grosso collante che è stata NUDM, per cui siamo state anche messe “sotto accusa” dalla CGIL, come dimostra il mancato appoggio allo sciopero dell’8 marzo. Il nostro non è un organismo strutturato, quanto più un legame di amicizia che è tenuto insieme da un obiettivo di lotta comune. Quello che mi preme sottolineare è che centrale è sempre l’obiettivo, il merito della questione. Su quello si crea la solidarietà e il sostegno delle compagne, su un obiettivo di lotta condiviso e non a prescindere sulla solidarietà di genere. Parlandoci chiaramente, è un errore sostenere una donna perché è una donna, è una trappola. La distinzione principale è quella di classe. Per me la Camusso e Epifani stanno alla stessa stregua perché quello che ci distingue è principalmente a quale classe fai riferimento, di quale classe fai gli interessi. A me, lavoratrice e non appartenente alla classe borghese una donna come la Camusso non dà niente. La classe è il collante di tutto.
Le donne in questa società per affermarsi e avere un ruolo o devono essere ancelle oppure devono diventare degli squali e una volta che lo sei diventata non sei più dalla mia parte, non fai più i miei interessi. La parte dell’oppressore non è una parte che si recita e che poi scompare magicamente.
Questo è anche il limite del coordinamento donne dentro la CGIL, è un coordinamento che si tiene insieme sul genere e non su un obiettivo di linea comune rispetto alle lavoratrici e ai lavoratori. È un organismo non elettivo e “libero”, questo significa che non si fa rappresentante delle lavoratrici e dei loro interessi. É stato un po’ il limite, su cui ci hanno attaccato per lo sciopero dell’8 marzo. Laddove lo sciopero è stato fatto, infatti, è stato fatto a livello dei posti di lavoro (a me è bastato fare assemblea nel mio posto di lavoro e far vedere l’organigramma per organizzarlo ad esempio).
L’oppressione di genere poi, come dicevamo, è di fatto uno strumento ulteriore che usano per isolare e scoraggiare noi compagne. Tante volte sono stata attaccata e si è tentato di isolarmi sul metodo più che sul merito, ad esempio recriminandomi la modalità “violenta” ed “estremista” in cui ponevo le questioni. Questo succede spesso alle donne impegnate in simili contesti, mentre agli uomini non vengono poste. Di fatto si scredita il loro ruolo usando strumentalmente il luogo comune dell’emotività, dell’aggressività ecc.; fermo restando che data la condizione della donna in questa società ha tutta la ragione ad essere incazzata. Questo riguarda anche il legame che c’è tra posizioni femministe e organizzazioni delle “sinistre più estreme” e dei movimenti, a cui la CGIL chiude.
Io ho visto e vedo degli episodi di repressione a compagne in cui magari apertamente emerge la divergenza sulla questione di genere, ma che di fatto vengono represse perché hanno mostrato che il re è nudo e hanno portato all’interno della CGIL contraddizioni reali.
Con il ruolo che hai assunto all’interno del sindacato come è cambiata la gestione del resto delle contraddizioni che riguardano una donna, come ad esempio la gestione della famiglia e della casa?
Alla nascita di mio figlio in realtà io ho reagito con una spinta ulteriore alla lotta, proprio a partire da quello che sulla mia pelle stavo vivendo. La maternità mi ha fatto toccare con mano l’oppressione di genere all’interno della società, l’ha resa più evidente. I figli rappresentano un impegno fisico e mentale che è principalmente a carico della madre. Le ingiustizie sul lavoro, le condizioni peggiori, riguardano spesso questo aspetto per la donna. Lo abbiamo visto con tutta evidenza in questa pandemia, che le donne hanno pagato più cara, sia in termini di posti di lavoro persi che in termini di congedi parentali presi ad esempio.
La nuova condizione mi ha anche mostrato in maniera più evidente come questa venisse usata e strumentalizzata all’interno del sindacato per reprimere e scoraggiare posizioni politiche divergenti. Ad esempio mi ricordo che quando ci fu una fusione tra aziende e fu necessario riorganizzare le posizioni dirigenti i miei detrattori sostennero che essendo io donna e mamma da poco tempo non avrei potuto sostenere quella posizione. La questione veniva usata come strumento per provare a farmi fuori. Ovviamente queste posizioni si fondano su contraddizioni reali, perché è vero che un figlio, per come è la società oggi, è scaricato sulla donna e ci vogliono il doppio di energie per continuare a fare il proprio lavoro e assistere il figlio. Non riguardano solo le condizioni materiali, ma anche il peso mentale che queste provocano. Una donna che è impegnata e che ha intenzione di portare avanti il suo impegno – come nella mia situazione – a cascata ha una gestione della famiglia diversa perché il compagno è chiamato ad impegnarsi e a contribuire alla gestione dei figli e della casa in maniera superiore per creare le condizioni necessarie al suo percorso. La donna che si mette in questa condizione di fatto agisce un cambiamento anche all’interno della coppia e l’uomo in quel caso, come nella mia esperienza, si sostituisce in molte situazioni al ruolo che sarebbe spettato a lei.
In conclusione ti chiedo quali sono nel tuo percorso gli ambiti in cui sei impegnata e le battaglie da promuovere per migliorare la condizione delle donne lavoratrici?
In termini assoluti ti dico che per migliorare la condizione della donna andrebbe distrutto il sistema capitalista. Oggi, qui, quello che possiamo fare noi dal ruolo che ricopriamo penso sia promuovere in primo luogo la formazione delle donne, anche sui luoghi di lavoro, attraverso il sindacato e la politica. Non significa formare le donne a fare meglio il proprio lavoro, a vendere di più o altro. Noi ad esempio facciamo formazione interna anche rispetto alla questione di genere, riteniamo fondamentale intanto conoscere la storia del femminismo per avere coscienza di cosa è stato fatto e conquistato e poi abbiamo organizzato un corso di formazione che rafforzasse le compagne alla contrattazione, una contrattazione che fosse “femminista” quindi inclusiva, che invece di sfondare solo tetti di cristallo pensasse anche a demolire le pareti e quindi la segregazione orizzontale. Nell’ ultimo documento congressuale la contrattazione inclusiva è infatti il principale obiettivo.
Poi, ti ripeto, il cardine del nostro lavoro come sindacaliste deve essere quello di fare gli interessi dei lavoratori e portare le loro posizioni. Guardiamo all’esperienza del Collettivo di Fabbrica della GKN e la loro posizione di forza nei riguardi della FIOM. Loro possono avere quella posizione perché hanno i lavoratori con loro, perché hanno tutta la fabbrica e anche tutta la città con loro. Anche i dirigenti, ai diversi livelli, a un certo punto devono tenerne conto perché ci sarà un congresso e dovranno essere rieletti dalla base.