Pubblichiamo l’intervista a Sandra Berardi, presidentessa dell’Associazione Yairaiha. A fine articolo le riprese del dibattito “A 20 anni dal G8 di Genova” che si è svolto l’8 agosto a Marina di Massa alla Festa nazionale della Riscossa Popolare a cui l’Associazione ha partecipato con un suo portavoce, Vincenzo Scalia.
Anzitutto parlaci dell’Associazione Yairaiha: da quanto esiste e di cosa si occupa?
Yairaiha Onlus è un’associazione senza scopo di lucro, nata a Cosenza il 29 Marzo 2006. Ci occupiamo della tutela dei diritti umani, in particolare di quelli delle persone private della libertà personale. Speriamo in un mondo senza più carceri.
La nostra attività è iniziata nel 2005: ci siamo occupati delle condizioni dei migranti detenuti negli istituti di reclusione del territorio, tra il 2006 e il 2008 abbiamo effettuato diverse ispezioni negli Istituti Penali calabresi e nei Centri di Permanenza Temporanea da cui sono scaturite alcune interrogazioni parlamentari. Negli stessi anni abbiamo avviato campagne in favore dell’amnistia e dell’indulto.
Dalla nostra costituzione ad oggi ci siamo battuti per l’abolizione dell’ergastolo ostativo e del regime detentivo speciale ex articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario.
Attraverso rapporti epistolari con centinaia di detenuti e loro familiari abbiamo il quadro della situazione costantemente aggiornato.
In questo contesto, la nostra preoccupazione maggiore riguarda le condizioni di salute dei detenuti sottoposti a lunghe pene ed ergastolani: infatti, la maggior parte di essi è anziana e soffre di patologie importanti o di tumori. Per tale ragione abbiamo più volte sollecitato il Governo a concedere il differimento della pena per motivi di salute, come prevede il nostro ordinamento.
Nel marzo 2020 ci sono state le rivolte nelle carceri. Duramente represse, hanno contribuito a squarciare il muro di gomma delle condizioni carcerarie e anche la stampa mainstream è stata costretta a occuparsene…
Di occupare se ne è occupata; anzi se ne è dovuta occupare, ma bisogna vedere come se n’è occupata.
Ad eccezione delle poche testate che curano rubriche quotidiane su carcere e giustizia, come Il Dubbio, Il Riformista e – in alcuni frangenti, con posizione affatto neutrale – Il Fatto quotidiano, la maggior parte della carta stampata difficilmente tratta l’argomento carcere. Invece, dal momento in cui scoppiano le rivolte, e fino alla trasmissione Non è l’arena di Massimo Giletti che ha messo sotto accusa i vertici dell’amministrazione penitenziaria e la magistratura di sorveglianza, viene dato ampio risalto alla questione penitenziaria.
Purtroppo, la maggior parte dei giornalisti che si sono occupati della questione hanno una scarsa conoscenza in materia di esecuzione penale e questo ha prodotto un’informazione “deviata”, e quindi fuorviante nell’opinione pubblica, ingenerando paure infondate e spostando l’ordine del discorso, e l’attenzione dei cittadini, dall’emergenza Covid-19, emergenza quindi esclusivamente sanitaria, alla sempreverde emergenza mafia.
Pur senza avere dati specifici è chiaro che in Italia la funzione del carcere è puramente punitiva. Ma con l’aiuto dei dati il discorso diventa più chiaro: puoi darci un’idea di cosa si parla quando si affronta l’argomento carcere?
L’emergenza Covid ha fatto esplodere tutta la brutalità insita nel carcere in sé. A cominciare dai numeri. Al 7 marzo 2020 la popolazione detenuta aveva oltrepassato di gran lunga la “capienza regolamentare” di 47.000 “unità” arrivando a contenere oltre 61.000 persone. 14.000 persone in più non sono un freddo dato statistico, sono persone ammassate in cameroni anche da 12/13 letti con un bagno-cucina, quindi condizioni igienico-sanitarie precarie per tutti e questo mentre i media, già nelle settimane precedenti il lockdown, avevano iniziato a martellare giorno e notte, a reti unificate, con il bollettino dei morti di Covid e le raccomandazioni per un’accurata igiene personale ed evitare assembramenti.
Tutte le paure, le tensioni e le contraddizioni si sono amplificate fino ad esplodere con la sospensione dei colloqui con i familiari. E non è un caso che le rivolte siano scoppiate nelle sezioni “comuni”, le sezioni dove c’è una più alta concentrazione di persone con un tasso di sovraffollamento che in alcuni casi sfiora il 200%!
Con buona pace degli amanti della dietrologia, non c’è stata nessuna regia anarco/mafiosa dietro le rivolte di marzo, ma la sottovalutazione della reazione che avrebbero avuto persone già private della libertà, degli affetti, di un senso alla propria esistenza – ed anche alla propria detenzione, condannate all’inazione per 20-22 ore al giorno – alla notizia della chiusura dei colloqui con i familiari e l’impossibilità di mettere in pratica il distanziamento fisico.
A conferma dell’incapacità di gestire l’emergenza Covid in carcere possiamo sottolineare il colpevole ritardo nella predisposizione delle aree protette e la mancanza di dispositivi di protezione individuale nelle prime settimane di lockdown.
Il dato che emerge ad una attenta analisi dell’azione di governo sulla popolazione detenuta è l’aver trattato in termini securitari un’emergenza sanitaria mondiale che avrebbe necessitato ben altra attenzione politica come stava già avvenendo in altri paesi. L’Iran, ad esempio, già il 3 marzo aveva predisposto la sospensione della pena a circa 70.000 detenuti; in Italia, invece, è stata messa sul banco (mediatico) degli imputati l’ormai famosa circolare del 21 marzo, e qualche capro espiatorio nei vertici del DAP, che seguiva le linee (di buon senso) dettate dall’OMS con effetti tragici per la popolazione detenuta, soprattutto per i detenuti anziani e gravemente ammalati.
Ritengo che il clamore sulla sospensione della pena a due/tre nomi “eccellenti” sia stato sollevato strumentalmente per due ordini di motivi: la quasi totalità dei media che ha trattato la questione ha omesso alcune questioni importantissime che, viceversa, se riportate correttamente, avrebbero ridimensionato molto il peso di queste sospensioni. Sul caso Bonura, ad esempio, si è omesso il fatto che a dicembre, dopo circa 6 mesi quindi, avrebbe finito di scontare per intero la sua condanna; omissioni analoghe si registrano nel caso Zagaria per il quale il magistrato di sorveglianza aveva disposto la sostituzione della misura detentiva per soli 5 mesi, il tempo di curarsi.
Con l’insediamento dei nuovi vertici del DAP viene emanata una nuova circolare che ricalca quella precedente. E non poteva essere altrimenti visto che il diritto alla salute è l’unico diritto qualificato come fondamentale nella Costituzione italiana. Qual è stato allora il vero obiettivo della querelle? Quando mi pongo questa domanda mi appaiono i volti dei 14 detenuti morti durante le rivolte. E il fatto che su questi 14 morti, sui trasferimenti dei detenuti in piena pandemia, con diffusione di contagi, è pesato, e pesa, un silenzio istituzionale e mediatico gravissimo che dovrebbe far riflettere sullo stato della democrazia.
Per la strage di Modena è arrivata l’archiviazione. Poco dopo le notizie dal carcere di Santa Maria Capua Vetere… cos’è stato secondo te a rompere il muro di omertà attorno a quel caso? Le inchieste – vedremo poi che seguito avranno – sono davvero scaturite dalla “eccezionalità” delle violenze e degli abusi commessi dalla Polizia Penitenziaria?
Su Santa Maria Capua Vetere ha giocato un ruolo importantissimo la presenza dei garanti e la tempestività nel denunciare la mattanza. Questo ha permesso il sequestro dei filmati che altrove saranno andati distrutti o nascosti. Ed è proprio grazie a quelle immagini che oggi nella società si ha una maggiore consapevolezza rispetto alla realtà del carcere e soprattutto su quanto successo nel marzo/aprile 2020. Eccezionalità? Le immagini che tutti hanno potuto vedere su Santa Maria sono le stesse descritte negli esposti presentati su Foggia, Melfi, ecc. che peraltro si sono verificate nelle settimane precedenti. Una similitudine che lascia intuire un ordine di servizio partito dall’alto più che l’iniziativa dei singoli responsabili.
Da più parti è stato messo in evidenza il “filo nero” che lega le violenze del G8 di Genova e le violenze nelle carceri contro i detenuti: i funzionari in capo al massacro della Diaz, ad esempio, hanno fatto carriera; i fatti del carcere di Modena e Santa Maria Capua Vetere sembrano indicare con chiarezza che non si tratta di un problema di “mele marce”… cosa ne pensi?
I paralleli tra Genova e Santa Maria Capua Vetere, più che Modena, si sono sprecati. Credo che queste vicende siano accomunate dai tentativi di depistaggio attraverso la costruzione di prove false oltre che dall’uso spropositato della violenza. Dico Santa Maria più che Modena perché su Modena non c’è ancora la presa di coscienza collettiva che c’è stata su Santa Maria, nonostante i 9 morti e la vergognosa archiviazione.
Santa Maria ha riportato l’attenzione su quanto accaduto lo scorso anno nelle carceri perché la gente ha potuto vedere le immagini altrimenti anche questa mattanza sarebbe già bella e dimenticata. Che non si tratta di mele marce lo sappiamo e denunciamo da un po’, ma alla maggior parte della società non interessa. La dinamica che abbiamo potuto vedere dalle telecamere del circuito di sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere è identica a quella descritta un mese prima dai detenuti di Foggia, di Opera, di Melfi.
È chiaro quindi che ci deve essere stato un ordine partito dall’alto. E ancora una volta, altro parallelo con Genova, la catena di comando apicale non viene nemmeno sfiorata da alcuna indagine.
Genova ha insegnato tante cose; a noi e a loro. A loro ha insegnato a massacrare e depistare, a costruire prove false per restare impuniti o venire promossi. A noi ha insegnato che la storia non la scrivono i tribunali e che la memoria è un ingranaggio collettivo: alla “verità giudiziaria” che vorranno montare, dovremo continuare a opporre la nostra contro-narrazione, continuando a dare voce agli ultimi per arrivare a una verità storica che restituisca almeno la dignità ai 14 morti e alle vittime della mattanza della scorsa primavera.