Abbiamo intervistato un gruppo di lavoratori e lavoratrici del sistema, in cooperativa, dell’accoglienza migranti bolognese.
L’intervista, corale ma anonima (per tutelare gli intervistati), mostra le reali condizioni di vita e di lavoro a Bologna, città vetrina per il PD che si ricandida a governare (speculando) la città con le prossime Amministrative.
Inoltre, l’intervista mostra con praticità la forza e i risultati dell’unità dal basso dei lavoratori, costruendo il sindacato ma anche organizzandosi al di là della tessera sindacale, mettendo al centro i propri interessi anche con “assemblee allargate” oltre i singoli lavoratori coinvolti nella lotta (costruzione della rete e del fronte, solidarietà, visibilità, ecc.).
E’ questo un esempio piccolo ma luminoso dell’organizzazione popolare (e operaia) di cui abbiamo bisogno per realizzare gli interessi delle masse popolari e per combattere il sistema di speculazione, affarismo e corruzione che dirige questo settore (che è poi lo stesso che governa le nostre città).
Buona lettura
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La vostra esperienza dimostra che organizzandosi si possono strappare delle conquiste anche in una fase di crisi come questa. È un’esperienza che dà fiducia ad altri quindi iniziamo proprio dal raccontarla. Che cosa è successo?
Una premessa: il contesto in cui si inquadra la nostra lotta è quello di una crisi del settore dell’accoglienza migranti in cui si tagliano tutti i servizi su cui non è possibile speculare. Questo perché l’accoglienza migranti è in mano ai privati. “Privato sociale” ma sempre privato. Quello che fanno i nuovi decreti Salvini è solo accelerare questo processo che è già in atto da sempre e riposa tanto sulla Minniti – Orlando quanto sulle leggi precedenti. L’accoglienza è un business.
C’è un processo in atto a vantaggio delle grandi cooperative e consorzi che stanno arrivando a posizioni monopolistiche e sono gli unici in grado di sostenere la riduzione dei costi imposti dal Ministero, facendo economica di scala e andando a peggiorare sempre di più retribuzioni e condizioni di lavoro. In questi processi i lavoratori vengono lasciati per strada o passati da una cooperativa all’altra come pacchi postali.
Nel nostro territorio questa tendenza ha visto un’accelerazione recente. Noi siamo insegnanti di italiano L2, uno dei primi servizi che sono cominciati a saltare su scala nazionale. Questa volta per quanto ci riguarda, invece di ridurre un servizio o magari spostarci ad altre mansioni come avevano tentato di fare in passato, la dirigenza della nostra cooperativa ha deciso di esternalizzare la scuola di italiano. Da un giorno a un altro veniamo messi di fronte al ricatto di andarcene o essere inquadrati dentro una nuova “scatola”, con la “garanzia” della cassa integrazione COVID nel frattempo. Ci viene detto che questo è necessario perché il committente, il Comune, in seguito ai decreti sicurezza, pretende dei tagli al costo del personale. Nel sistema degli appalti ogni livello scarica la responsabilità sul livello superiore ma alla fine tutto ricade sulle spalle dei lavoratori.
Tutto questo era è gravissimo e illegittimo, stante anche i nostri contratti. Noi lavoratori e lavoratrici da tempo ci incontravamo e ragionavamo da anni sulla questione dell’accoglienza con assemblee comuni. Grazie a questa prassi siamo riusciti a mobilitarci quando è arrivato l’attacco: c’erano dei percorsi avviati sottotraccia. È un lavoro che lì per lì sembra non porti da nessuna parte ma poi emerge in queste situazioni. Al bisogno siamo riusciti a organizzarci e ritrovarci uniti.
Il salto di qualità, però, è stata la sindacalizzazione, la comprensione della necessità di dotarci di uno strumento, il sindacato, che potesse organizzare la lotta e fornire degli strumenti laddove non sai come reagire ad attacchi frontali. È stata USB a prendere in mano su nostra spinta la vertenza, portando la nostra lotta sul piano pubblico e allargandola ad altri.
Le assemblee sindacali che abbiamo fatto hanno avuto da subito il carattere di “assemblee allargate” che hanno richiamato tanti colleghi, ex-colleghi ma anche solidali non iscritti che hanno preso parola e hanno detto: “io ci sono”. Tutto questo ci ha dato una forza enorme: la dirigenza dell’azienda ha fatto retromarcia e ha deciso di mantenere in essere il nostro servizio, ritirando il proposito di metterci in cassa integrazione. Abbiamo vinto!
Nella nostra lotta noi eravamo e siamo appartenenti a diversi sindacati: siamo lavoratori e lavoratrici appartenenti a diverse sigle (confederali e di base) e cioè siamo un gruppo intersindacale che lavora su più fronti. Le differenze fondamentali in questo campo non hanno però comportato una rottura su un piano più generale.
La dirigenza dei confederali cercava di gestire la situazione in modo “privato”, caso caso. Tuttavia, più si allargava la lotta al livello di sindacato di base più questo ci dava agibilità anche all’interno dei confederali che, per non perdere tessere e la faccia, erano costretti a attivarsi su nostra spinta. Al di là delle sigle, quindi, quello che ci dice la nostra esperienza è quello di partire dell’unità sulla base dei comuni interessi.
Un altro elemento è anche quello che alla lotta hanno partecipato lavoratori che erano in ruoli gerarchici diversi all’interno dell’azienda. Questo va reso un elemento di forza e non di debolezza e per farlo va trattato coscientemente nel gruppo a viso aperto.
Quali sono le condizioni di lavoro nel settore dell’accoglienza?
A parità di orario lavorato c’è stato un aumento del carico per tutti i lavoratori dell’accoglienza. In più c’è stato una “frantumazione” delle mansioni e dei contratti. Le contrattazioni vengono portate avanti in maniera singola e per via “personale”. Si alimenta un meccanismo per cui questo tipo di lavoro lo puoi fare solo se sei giovane e per un periodo breve (molti nostri colleghi stanno abbandonando), perché le condizioni stanno peggiorando a fronte di un aumento delle responsabilità ed è prassi normale che i lavoratori “scoppino”. Poi vengono assunti nuovi in condizioni peggiorative.
All’inizio c’erano tanti giovani ma via via che le cose si trasformano tanti trovano vie di fuga. Sta però anche crescendo la coscienza dello sfruttamento che c’è. Dopo che vieni sfruttato per anni cominci a renderti conto delle cose, oltre al fatto che cominci ad avere bisogni diversi. In sostanza si acquista una coscienza di classe.
Prima ci percepivamo come “parte del progetto”, tanti di noi sentivano il senso della missione rispetto al sociale. Questo però non faceva i conti con la questione di classe. Sulla soglia dei trenta o quarant’anni ci sono scoperti del tutto incompetenti sulle questioni di diritto del lavoro, anche se magari avevano sempre fatto battaglie civili e politiche. Persone con strumenti e una certa consapevolezza politica, erano però più rivolti “all’esterno” – p. es. sulla questione di migranti – ma con grossissime lacune e incompetenze dal punto di vista di rivendicare i propri interessi sul posto di lavoro. Abbiamo cominciato a capire che le questioni erano concrete, investivano le esistenze di ognuno di noi, non solo concettuali e teoriche.
Questa è stata la base dello sviluppo della sindacalizzazione nel settore, anche per rispondere a queste “emergenze” che venivano fuori, quando eri sotto attacco. È un processo che all’inizio è partito lentamente ma poi ha un salto qualitativo in situazioni come la nostra.
Infine, stiamo tornado a trattare questioni generali ma con una consapevolezza diversa. Difficilmente possiamo limitarci a difenderci sulle singole vertenze. Bisogna costruire su una consapevolezza larga e ampia sulla questione generale del lavoro nel terzo settore e più in generale sulle condizioni lavorative ed esistenziali delle persone. Questo significa lotta agli appalti al ribasso, alla privatizzazione dei servizi (internalizzazione dei servizi per il comune) nell’interesse di lavoratori e beneficiari. Ogni cosa è collegata.
Nel vostro settore la questione dell’immagine (giustificazione pubblica dei progetti ai fini di indirizzare soldi pubblici verso gruppi privati di interessi) è fondamentale, quindi smascherare la speculazione che ci sta dietro è un’arma per i lavoratori, insiste sul loro tallone d’Achille (dire pubblicamente una cosa e farne segretamente un’altra sottobanco). Voi avete fatto un’inchiesta rispetto a dove vanno a finire i soldi che oggi vengono sottratti?
La narrazione dei servizi di accoglienza è servita alla cooperativa e al Comune come specchietto delle allodole, per farsi “belli” perché promuovevano un servizio sociale inclusivo. Per fare questo si sono fregiati della nostra professionalità finché ha fatto loro comodo per vincere i bandi.
La verità è che l’intreccio di interessi è pazzesco. La dirigenza della cooperativa, il consorzio a cui appartiene, il Comune, le forze politiche che dirigono lo stanziamento dei fondi fanno di tutto per rendere opache le acque. Il fronte di smascherare pubblicamente quello che fanno è un fronte aperto per noi.
Altre cooperative sociali sono venute in solidarietà alla vostra lotta, abbiamo davanti lo sblocco dei licenziamenti e in prospettiva la costruzione di uno sciopero generale. Come avete legato la vostra lotta con la più generale lotta di classe sul territorio? E quali sono le prospettive ora?
È di fatto una questione aperta. Diciamo che adesso si apre una nuova fase, di incertezza, di riorganizzazione, di controllo e punizione da parte della Coop, di sfilacciamento del servizio della scuola. Dal punto di vista organizzativo dei lavoratori e delle lavoratrici è il tempo di riorganizzarsi. Una vittoria costituisce una nuova ripartenza. La forza va mantenuta e coltivata a partire dalle posizioni conquistate.