Tutte le citazioni sono tratte da Proletari senza rivoluzione di Renzo Del Carria
Il contesto in cui avviene l’attentato a Palmiro Togliatti del 14 luglio del 1948 è quello tumultuoso del secondo dopo guerra. Alla grande forza conquistata dal Partito comunista e dalle masse popolari organizzate con la vittoria della Resistenza si contrapponevano le manovre della classe dominante per riprendere in mano la situazione. Quest’ultima usciva indebolita dalla caduta del fascismo, ma aveva trovato nuovi punti di riferimento nel Vaticano, uscito indenne dal conflitto mondiale, e negli imperialisti USA che occupavano il paese.
Le masse facevano valere la loro forza: dopo la vittoria della Resistenza era stato un crescendo di mobilitazioni, manifestazioni grandi e piccole che attraversavano la penisola da nord a sud.
Ma nel maggio ‘47, con l’appoggio appunto degli USA e del Vaticano, la DC di De Gasperì riuscì ad espellere definitivamente il PCI e il PSI dal governo. In seguito a questi fatti e con la nomina di Scelba a Ministro degli Interni il 2 febbraio di quell’anno, la repressione si fece più feroce e la lotta di classe più violenta.
“Tutto il novembre ‘47 è funestato da eccidi di lavoratori. Il 3 è arrestato il segretario della CdL di Carbonia; il 9 viene ucciso il capo-lega Pipitone a Marsala; il 10 e l’11 nella campagna milanese si uccidono operai e contadini; il 12 si ha un attentato terroristico alla Federazione comunista di Milano; il 12 e 13 Milano, Torino, Vercelli, Alessandria, Novara, La Spezia, Venezia, Livorno e Napoli sono teatro di imponenti manifestazioni popolari contro l’inerzia del governo nel campo dell’alimentazione, dei salari e dei licenziamenti; il 15 la polizia pone in stato d’assedio Cerignola (rimangono uccisi lavoratori e due agenti e molti feriti); il 18 la polizia uccide un operaio e una donna a Corato durante uno sciopero e a Trani 2 cittadini sono feriti; il 20 a Campi Salentina 2 morti e 7 feriti sono il bilancio della sparatoria della polizia (…); il 21 un gruppo di lavoratori viene aggredito con bombe a mano a Bitonto; il 25 una bomba fascista viene lanciata contro la sede de L’Unita e de L’Avanti a Roma. (…). Il 28 novembre la lotta culmina a Milano con manifestazioni di strada, scioperi tumultuosi, attacco alle sedi dei partiti di destra e infine con l’occupazione della Prefettura da parte di partigiani ed operai che intendono opporsi alla sostituzione del Prefetto Troilo, ex comandante partigiano, mentre il Partito dirige cautamente l’azione. I manifesti affissi nella città dicevano: Scelba capo mafia degli agrari, non occuperai mai Milano”.
Il 18 aprile 1948 si tennero infine le prime elezioni politiche del dopoguerra, per la prima volta a suffragio universale. Vaticano e imperialisti USA mettono in piedi un apparato propagandistico e clientelare senza precedenti per assicurare la vittoria della DC, che effettivamente conquista la maggioranza dei voti, certificando l’espulsione dei comunisti dal governo.
A fronte delle manovre della classe dominante e dell’attivismo delle masse popolari, il PCI rimane sostanzialmente sulla difensiva. La linea che si era affermata nel partito, incarnata da Togliatti, era infatti quella di evitare a ogni costo lo scontro con la classe dominante e proseguire nella via parlamentare delle “riforme di struttura” che avrebbero portato al socialismo. Era una linea che disarmava di fatto le masse popolari, non valorizzava la forza costruita nella lotta di Liberazione ma, assumendo come campo principale di lotta quello elettorale, rimetteva il pallino in mano alla classe dominante.
Eloquente in questo senso il discorso tenuto da Togliatti all’Assemblea Costituente dopo la crisi di governo di maggio:
“L’on. Cappi sviluppava ampiamente la tesi che i ceti produttivi capitalisti hanno il diritto di vivere e di contribuire alla ricostruzione del paese… Sappiamo benissimo che per la ricostruzione del paese sono necessarie queste forze e infinite volte abbiamo detto loro collaboriamo e abbiamo teso loro la mano, abbiamo elaborato programmi di ricostruzione di fabbriche, di zone industriali, di città, di province intere… Ma gli operai hanno fatto di più: hanno moderato il loro movimento, l’hanno frenato, l’hanno contenuto nei limiti in cui era necessario contenerlo per non turbare l’opera di ricostruzione. Hanno accettato la tregua salariale, cioè una sospensione degli aumenti salariali, senza che vi fosse la corrispondente sospensione degli aumenti dei prezzi… (…) Stia tranquillo onorevole Corbino! Lei ha dimostrato la sua soddisfazione per il fatto che il nostro partito, messo fuori dal governo, non ha lanciato la parola d’ordine dell’insurrezione. La cosa ci meraviglia. Lei, onorevole Corbino, avrebbe il dovere di conoscerci meglio”.
Sarebbe riduttivo attribuire questa deriva del PCI solo al “tradimento dei capi”. Fu piuttosto il frutto di una posizione politica che aveva la sua base nella sfiducia nelle masse, nella rivoluzione, che già da tempo si andava consolidando nel Partito (già nelle Tesi di Lione del 1926 se ne denunciava la presenza) e si era affermata a partire dalla Svolta di Salerno promossa da Togliatti nell’aprile del ‘44. La sinistra nel Partito, rappresentata dai capi più autorevoli della lotta al fascismo e della Resistenza (Secchia, Vaia, Alberganti, ecc.), dimostrò i suoi limiti ideologici sottomettendosi a tale linea, senza riuscire ad opporgliene una realmente rivoluzionaria.
Ciò nonostante la classe dominante continuava a considerare il PCI e la sua forza come il pericolo numero uno e, di fronte alla linea cedevole dei comunisti, proseguì nell’alimentare la tensione. Infine, il 14 luglio del 1948, pochi mesi dopo le elezioni che certificavano l’espulsione del PCI dal governo, Togliatti, nonostante fosse il massimo sostenitore della linea di pacificazione con la classe dominante, fu vittima di un attentato: venne colpito dai tre proiettili sparati da Antonio Pallante, studente anticomunista.
In seguito al ferimento di Togliatti in tutta Italia nacquero, fin da subito, manifestazioni di massa e lotte di strada, mentre scoppiava spontaneo uno sciopero generale senza precedenti come estensione e forza e numerose fabbriche nel nord Italia venivano occupate dagli operai in armi. Alla FIAT di Torino l’Amministratore Delegato, Vittorio Valletta, fu sequestrato nel suo ufficio. A Genova e ad Abbadia San Salvatore (Siena) le proteste sfociarono in vere e proprie insurrezioni.
“A Genova da subito il proletariato occupa le strade e le piazze della città ed affronta risolutamente polizia ed esercito. Già alle ore 14 migliaia di manifestanti affluiscono spontaneamente in Piazza De Ferrari, mentre la Caserma della Polizia a Ponte Spinola viene ripetutamente attaccata da giovani armati. Alle ore 15 una camionetta della polizia viene presa e incendiata e sei celerini sono fatti prigionieri, mentre in via XX Settembre viene invasa e devastata la sede del M.S.I.
Alle 15.30 cinque autoblinde vengono bloccate dalla folla in via XX Settembre: “fulmineamente” narra il cronista del giornale genovese “alcuni giovani saltano sulle torrette e disarmano gli occupanti”. Numerosi agenti presi prigionieri vengono chiusi in una stanza al Palazzo delle Poste.
Alle 17 si svolge un colossale comizio con 120.000 lavoratori, mentre tutte le fabbriche della città sono ferme, i negozi chiusi, il porto bloccato. In tutta la città avvengono episodi di fraternizzazione tra operai e soldati.
Tra le 18 e le 20 una colonna di una decina di gipponi della Celere e aliquote di carabinieri tentano di riprendere il controllo di Via XX Settembre, ma viene accolta da sparatorie che causano tre feriti. Un ufficiale e sei carabinieri vengono catturati. Alle 20 varie colonne della polizia tentano di penetrare nei rioni di ponente, ma all’ingresso di Sampierdarena vengono fermati da posti di blocco. Cominciano a sorgere in tutta la città , anche nelle vie centrali, le barricate difese da mitragliatrici, La radio ed i giornali passano sotto il controllo della Camera del Lavoro. (…) Nella notte (la luce viene tolta in tutta la città) viene assalita la caserma della polizia a Bolzaneto. A Sestri si devastano le sedi della D.C. e delle A.C.L.I. (…) alle ore 13 (del giorno successivo – ndr.) il Prefetto, autorizzato dal Ministro, dichiara lo stato d’assedio. (…)
Ad Abbadia S. Salvatore il paese insorge, si occupa la cabina telefonica amplificatrice che collega il nord con il sud Italia (gli insorti chiamano la Federazione comunista di Siena per avere direttive, ma questa non risponde), si uccide un maresciallo dei carabinieri, si disarmano gli altri carabinieri ed il paese è rastrellato nei giorni seguenti casa per casa”.
Gli organi centrali del PCI, dopo un iniziale invito alle masse popolari a mobilitarsi per rivendicare “la pace interna, la legalità repubblicana e la libertà dei cittadini”, nei due giorni successivi non danno più cenni di vita. Il pallino passò in mano alla CGIL che, dopo aver proclamato nel pomeriggio del 14 lo sciopero generale, accodandosi al fatto compiuto, tornò a farsi sentire soltanto nella notte tra il 15 e il 16, ordinando la ripresa del lavoro per l’indomani alle ore 12. I deputati comunisti, che a fronte dell’accaduto avevano chiesto le dimissioni del governo ritenuto responsabile, ritirarono immediatamente la richiesta. Infine, con grandi difficoltà, ma forti del prestigio guadagnato nel corso della Resistenza, l’apparato di partito e quello sindacale riuscirono dove la repressione si era mostrata impotente: placarono le masse in rivolta.
Nonostante l’attentato e l’enorme mobilitazione popolare, nel giro di due giorni si riaffermò quindi nel Partito la linea della pacificazione, col risultato di disarmare la rivolta popolare, indebolire le posizioni del PCI, rafforzare il governo e lasciare campo libero alla feroce repressione che si abbatterà su lavoratori e comunisti. Ma anche la sinistra del PCI mostrò tutta la sua inadeguatezza: i suoi esponenti più autorevoli tacquero e si sottomisero ancora una volta alla linea di Togliatti, mentre i militanti che tentarono di reagire e di opporsi, generalmente ex partigiani, vennero isolati.
In seguito all’accaduto la linea di Togliatti si consolidò, sancendo la disponibilità del Partito a svolgere il ruolo di cui il regime DC aveva bisogno per affermarsi: avallare il carattere “democratico” del regime imposto al paese da Vaticano e USA, contenere le spinte rivoluzionarie della classe operaia e delle masse popolari e incanalare le loro energie verso le lotte rivendicative e la partecipazione alla vita politica in posizione subordinata alla classe dominante.