In nome della lotta alla burocrazia e “per lo sviluppo”, il governo Draghi ha provato a inserire nel Recovery Plan (PNRR) il superamento dei vincoli legali sulle autoproduzioni portuali. Si tratta dell’affidamento delle operazioni di carico e scarico delle merci agli stessi marinai impiegati sulle navi invece che ai professionisti delle compagnie portuali presenti nei vari porti. L’immediata minaccia di scioperi e blocchi ha costretto, almeno per il momento, il governo a fare retromarcia. Ma cosa comporterebbe questa nuova misura? Cosa si cerca di far passare nei porti italiani? Che interessi covano gli armatori?
Attualmente i marinai sulle navi hanno contratti stipulati nei paesi di origine e la maggior parte di loro sono asiatici: il livello più basso dei loro stipendi e le minori garanzie di cui godono rendono estremamente conveniente far scaricare a loro le merci piuttosto che ai lavoratori dei porti di attracco.
L’autoproduzione comporta inoltre maggiori rischi per la sicurezza legati soprattutto alla movimentazione dei container. In porti come quello di Genova, dove non esiste nemmeno un punto di primo soccorso, gli unici sul campo a poter intervenire sono i medici aziendali che però fanno orario di ufficio e questo in una situazione in cui non sono infrequenti i malesseri gravi e gli infortuni causati da un contesto particolarmente usurante che non viene neppure riconosciuto come tale.
I portuali appartengono alle cosiddette categorie essenziali che non si sono fermate un attimo durante la pandemia. I traffici sono aumentati senza che ai lavoratori fosse riconosciuto un accesso prioritario ai tamponi e ai vaccini.
I portuali sono spesso costretti, loro malgrado, a maneggiare “merci” pericolose come le armi con cui anche l’Italia foraggia, direttamente o indirettamente, le guerre nei quattro angoli del mondo alla faccia della nostra Costituzione. I blocchi, promossi nei mesi scorsi dal Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali (CALP) di Genova, nei confronti delle navi cariche di armi dirette all’Arabia Saudita per la guerra in Yemen, hanno sollevato a livello nazionale la questione che pone anche un problema di sicurezza più ampio: pensate a cosa potrebbe succedere in caso di incidenti nei porti che, come a Napoli e a Genova, sono a ridosso dei nuclei abitati (valga da insegnamento la strage di Viareggio del 2009).
A maggio sono transitati nei porti italiani i carichi di armi con cui i sionisti stanno massacrando il popolo palestinese. I portuali di Genova, Livorno e Napoli hanno boicottato (senza riuscire, tuttavia, a bloccarlo) questo traffico su cui il nostro governo non ha proferito parola, nascondendo la propria complicità dietro il libero mercato. Il Sindacato Internazionale dei Portuali (Consejo Internacional de Estibadores – IDC) con sede a Barcellona ha rilanciato la lotta dei portuali italiani (in particolare di Livorno), lanciando un appello alla mobilitazione internazionale contro i carichi di armi dirette ai sionisti. Questo clima ha indotto anche i portuali di Ravenna ad annunciare che risponderanno con lo sciopero al previsto arrivo di una nave che dovrebbe caricare armi dirette in Israele. “I lavoratori di Ravenna si rifiuteranno di caricare armi, esplosivi o altro materiale bellico” annuncia il comunicato di CGIL, CISL e UIL del 21 maggio.
Queste sono le principali rivendicazioni e problematiche che accomunano i lavoratori portuali, sottoposti a continui attacchi mirati a erodere quel che resta delle conquiste strappate con la lotta nella seconda metà del secolo scorso.
Su iniziativa e spinta del CALP di Genova (che a ottobre scorso ha aderito a USB lasciando la CGIL), l’8 maggio si è svolta nel capoluogo ligure una partecipata assemblea sindacale, che aveva come obiettivo principale il confronto comune sulle diverse problematiche su cui i portuali delle varie città italiane iniziano a coordinarsi. Erano presenti delegazioni di Trieste, Civitavecchia e Livorno, ma l’invito era stato esteso anche a lavoratori dei porti di Napoli, Taranto e Gioia Tauro. Estremamente positivo è l’approccio del CALP che cerca di promuovere il più ampio coordinamento possibile, al di là delle tessere sindacali di appartenenza.
Come P.CARC sosteniamo questo percorso, mettendo a disposizione di questa mobilitazione i contatti e le relazioni che abbiamo non solo con i lavoratori portuali, ma anche con gli operai di altri comparti (metalmeccanici, siderurgici, della logistica, del commercio ecc.) e con i vari settori delle masse popolari (sanità, scuola, ma anche P.IVA, ristoratori, lavoratori dello spettacolo ecc.) perché la lotta dei portuali deve essere la lotta di tutti.
Per cambiare il paese serve unire ciò che la borghesia divide!
Avanti classe operaia, avanti portuali di Genova e di tutto il paese!