[Salerno] Per Matteo: che le sirene dei porti suonino non più a lutto, ma per l’organizzazione dei portuali!

La recente morte di Matteo Leone, al lavoro sul Molo 10 del porto di Salerno, grida vendetta. Come vendetta gridano le altre morti sul lavoro avvenute e che con sistematicità avvengono nei porti italiani e sui luoghi di lavoro più in generale. È una lunga strage. Una guerra sporca, non dichiarata, che padroni ed armatori senza scrupoli conducono contro gli operai e i lavoratori, per una media di tre morti sul lavoro al giorno nell’arco del solo primo trimestre del 2021

Matteo era un ragazzo trentacinquenne, che solo due anni fa aveva sconfitto la leucemia. Il cordoglio pubblico è stato grande. Tutti i porti del paese hanno suonato le loro sirene in segno di lutto. Finanche personalità pubbliche e politiche si sono sperticate in dichiarazioni e promesse di trattazione nelle sedi istituzionali e di competenza delle condizioni di vita e di lavoro in sicurezza.

Il punto, però, è che il cordoglio non basta, le sirene dei porti italiani continuano a suonare troppo e troppo spesso e leggi, normative, dispositivi e anche strumentazioni tecnologiche, dotazioni, misure per la sicurezza sul lavoro esistono già, quali conquiste strappate con le lotte operaie dei decenni passati. Non si tratta, dunque, di limitarsi a invocarle o di proporsi di farne di nuove, ma di imporre il rispetto di quelle esistenti, controllare direttamente la loro osservanza, applicarle.

Chi può farlo? È evidente che i padroni, gli armatori e le loro istituzioni, enti, autorità non hanno alcun interesse e nessuna intenzione di farlo. Perché la sicurezza, la sanità, più in generale la salute, in un sistema di mercato, sono considerati un costo che la logica della massimizzazione dei profitti vuole che, in quanto tale, debba essere abbattuto “..e se morirà qualcuno, pazienza!” dice, del resto, candidamente Confindustria.

I provvedimenti in materia portuale come il ddl ‘Concorrenza’ del MiSE di qualche tempo fa e la ‘riforma’ della L.84/94 proposta dal MiT, negli ultimi vent’anni, pur avendo drasticamente colpito le attività portuali, avevano almeno definito la distinzione dei “mercati” di riferimento delle imprese ex. Artt. 16, 17 e 18, la specializzazione del lavoro e la navigazione garantita dai sevizi tecnico nautici. Oggi, armatori e padroni mai sazi dei loro profitti e rendite parassitarie pensano di poter, invece, disporre dei porti e dei lavoratori dei porti a proprio piacimento e avere mano libera nella definizione dell’assetto strategico di strutture, infrastrutture e logistica, linee di navigazione e attracco. Tutto nel silenzio-assenzo di Autorità Portuali assenti e degli enti pubblici di riferimento sostanzialmente compiacenti pur di tenere il mercato attivo. Ed è così, allora, che accade che la facoltà di “autoproduzione” che si arrogano padroni e armatori nei porti costringa sempre più, ad esempio, a impiegare i marittimi, fuori dalle loro competenze e professionalità, a fare il lavoro dei portuali. È così che accade che il ricatto del lavoro costringe, ad esempio, i terminalisti di aziende private a fare il lavoro dei portuali di banchina delle Compagnie o viceversa. È così che accade che l’ennesimo carrello elevatore ti finisca addosso spezzandoti la vita sul posto di lavoro..

I tentativi reiterati da parte di padroni e armatori di sottrarre lavoro ai lavoratori ex Art.17, il rischio che l’ingresso dell’autoproduzione padronale nel porti inneschi la “guerra tra poveri” in cui i lavoratori marittimi di bordo, già pressati da sfruttamento intensivo e salari da fame, vengano utilizzati contro i lavoratori portuali, presentati da armatori e padroni come “troppo costosi” e “dei privilegiati”, sono già una realtà. I sovraccarichi di lavoro e l’abbassamento delle soglie di sicurezza sul lavoro pure. È la realtà dettata da chi, per mantenere profitti, rendite e controllo sociale punta a dividere i lavoratori per “governarli”, a metterli di fronte a scelte obbligate, a lavorare ad ogni costo e condizione: o, per i portuali, accettare la riduzione dei livelli salariali e di sicurezza e rinunciare ai propri diritti, fino allo smantellamento del CCNL di categoria e, per i marittimi, accettare di lavorare di più, con ulteriori mansioni e a parità di salario o, per entrambe le categorie, andare incontro una nuova ondata di licenziamenti.

La lotta all’autoproduzione è lotta che non riguarda solo i portuali, così come non lo è quella per la sicurezza sul posto di lavoro o quella, più in generale, contro i vincoli di fedeltà aziendale che mirano a imbavagliare la denuncia operaia, la sua organizzazione e le sue stesse agibilità sindacali. È, invece, terreno sul quale rilanciare una più generale battaglia per il lavoro, la salute, la sicurezza, il salario, il reddito, i diritti conquistati in anni di dure lotte operaie. È, dunque, ambito di mobilitazione, organizzazione, coordinamento operaio e popolare.

Affinché Matteo non sia più solamente “uno di noi”, come da commemorazione social, ma, semplicemente, non ci sia più “un matteo” da commemorare!

Le importanti mobilitazioni dei portuali italiani che hanno impedito il carico di armi dirette in Israele per la guerra di sterminio che quel paese conduce contro il popolo palestinese; le assemblee operaie che si stanno tenendo in diversi porti; il sistema di unità d’azione e di coordinamento che le compagnie portuali stanno provando a mettere in campo a Napoli come a Genova, a Gioia Tauro come a Civitavecchia, a Salerno come a Ravenna, a Livorno come a Trieste; i recenti scioperi diffusi contro le morti sul lavoro indetti tanto dai Confederali che dai sindacati combattivi e di base; lo sciopero generale Porti indetto il 14 giugno prossimo da USB a fronte dello smantellamento disposto dal governo delle normative sul codice degli appalti con la conseguente massimizzazione del ribasso nelle gare e dell’ampliamento delle possibilità dei padroni di appaltare e subappaltare e, quindi, di ampliare i margini di ricatto sui lavoratori dimostrano che la resistenza operaia, nei porti, cresce! È la risposta organizzativa di un pezzo della classe operaia del nostro paese che non si piega ai ricatti, che rigetta la logica “lavoro o salute”, che conosce i propri diritti e ne esige il rispetto. IN questo i portuali sono esempio anche per altri lavoratori. Perché mostrano che laddove esiste foss’anche un piccolo nucleo organizzato di operai decisi a lottare e vincere, quella resistenza cresce, si rafforza e si sviluppa, fa scuola di organizzazione e coordinamento, crea titolo di esempio, muove alla mobilitazione di categoria, punta a quella generale.

È una guerra, quella che gli operai sono chiamati a combattere per non esserne solo le vittime. Per vincere, però, è necessario che allarghino il più possibile il fronte sociale di forze solidali attorno a loro e alla loro lotta, rendendola parte di quella più generale per cambiare il corso delle cose.

Rifiutarsi di essere ancora “carne da macello” sul mercato del lavoro deregolamentato o delle “leggi carta straccia”, opporsi alle politiche e ai ricatti di padroni e armatori senza scrupoli, resistere all’offensiva padronale e passare alla controffensiva operaia significa imporre alle autorità costituite proprie autorità di classe! Diventare e agire come vere e proprie nuove autorità pubbliche! Prendere in mano la gestione delle aziende e delle compagnie; stendere piani alternativi a quelli di padroni e armatori che salvaguardino la sicurezza e il lavoro e imporli ad aziende, istituzioni, enti e autorità; puntare, così, alla società tutta, affinché sia posto il lavoro a suo fondamento e non oltre il profitto.

La via immediata? Organizzarsi e coordinarsi nel porto, tra porti e fuori dai porti, legandosi al resto dei movimenti di resistenza sociale diffusi sul territorio e in altre aziende, a partire da quelle che proprio dei porti si servono per la movimentazione merci (in Campania, ad esempio, FCA e AVIO a Pomigliano, le aziende della logistica a Nola o del gruppo Finmeccanica come Leonardo ex Alenia e Atitech in zona Napoli nord e il casertano, Ansaldo, Hitachi e Whirlpool in zona Napoli est o, ancora, B.Ticinoa Torre Annunziata e Sirti a Sala Consilina nel salernitano, fare solo alcuni esempi). Il modo? Creare legami e sinergie tra lavoratori, precari, disoccupati, così come il Comitato dei Lavoratori Portuali di Napoli (CLP) sta facendo in queste ore rispetto alla lotta dei lavoratori della logistica in CULP, Co.Na.Te.Co e So.Te.Co., a quella in TNT FedEx, quella dei Disoccupati 7 Novembre o finanche a quella, nascente e combattiva, dei lavoratori dello spettacolo.

I portuali, pur nella tragedia, stanno aprendo una strada. Non soluzioni particolari a casi particolari, siano essi la lotta dei lavoratori CULP contro l’autoproduzione padronale o la rivendicazione di contratti e diritti dei lavoratori dello spettacolo o ancora quella di lavoro di precari e disoccupati, ma l’uso di ogni conflittualità e tensione sociale per creare e rafforzare legami e organizzazione tra operai, lavoratori, masse popolari. Azienda per azienda, città per città, territorio per territorio, indipendentemente dalle sigle politiche o sindacali di appartenenza dei singoli operai e lavoratori o dall’appartenenza a nessuna organizzazione politica o sindacale. Creare e rafforzare organizzazione che si occupi della salute degli operai stessi e della salvaguardia dei posti di lavoro, prevenga le manovre di padroni e armatori (chiusura, delocalizzazione, derizzaggio in autoproduzione, ecc.) e faccia fronte comune per combattere il degrado sociale e ambientale che va diffondendosi nelle nostre città e territori.

Ai portuali non può più stare solo suonare le sirene a lutto! Bisogna che

–             si costituiscano come centro propulsore dell’individuazione dei lavori che servono nei porti e del numero dei lavoratori che servono per quei lavori, delle competenze e professionalità necessarie, della giusta distribuzione dei carichi di lavoro per garantire funzionamento in sicurezza ed efficacia dei servizi portuali, di banchina, della logistica pesante;

–             promuovano in tutti i porti la formazione di collettivi di operai e lavoratori autonomi (nel senso di farlo indipendentemente o trasversalmente dalle sigle sindacali di appartenenza dei singoli operai e lavoratori) che esercitino controllo operaio su sistemi di lavoro, turnistica, lavoro in sicurezza e, tal fine, aderiscano e usino lo sciopero generale Porti indetto per il 14 giugno prossimo quale occasione di organizzazione e coordinamento nazionale di settore;

–             contrastino l’autoproduzione padronale facendo fronte unico tra marittimi e portuali affinché si rispediscano al mittente le imposizioni e i ricatti cui sono sottoposti, facendo leva anche sulle misure di “garanzia” per giunta già “per legge” stabilite (ad esempio, la denuncia anche in forma anonima, di ricatti e pressioni di padroni e armatori, loro attività antisindacale o rispetto al diritto dei lavoratori di associarsi e così via);

–             inchiodino il governo alle sue responsabilità e contribuiscano a impedirne la stabilizzazione, incalzandone gli esponenti ovunque si presentino pubblicamente e nei loro stessi Ministeri,

–             spingano i candidati alle prossime Amministrative 2021 e quelli che, fin da ora, sono già in campagna elettorale a fare fin da subito quello che promettono di fare se e quando eletti. Non interrogazioni parlamentari, come annunciato da Gariglio, capogruppo PD in Commissione Trasporti, dunque, ma ispezioni sui luoghi di lavoro!

I comunisti organizzati nelle file della Carovana del (nuovo) Partito Comunista Italiano cui il Partito dei CARC è sempre appartenuto sostengono la lotta dei portuali per il diritto alla salute e lavoro in sicurezza come pezzo della lotta più generale per promuovere organizzazione e mobilitazione della classe operaia e del resto delle masse popolari, affinché si diano un piano di guerra alla guerra che padroni e armatori quotidianamente conducono contro la classe operaia e il resto delle masse popolari e gli strumenti per attuarlo e vincere. Perché i comunisti, fedeli solo alla loro classe di riferimento, puntano a vincere, non a rivendicare ad istituzioni, autorità, enti, agenzie della classe dominante che non possono rispondere alle richieste della classe operaia e delle masse popolari.

Vincere, oggi, significa piegare alle istanze operaie e popolari quelle istituzioni, autorità, enti, agenzie. Imporre le proprie istanze significa puntare a costruire un governo delle organizzazioni operaie e popolari che faccia fronte agli effetti più gravi della crisi e dia forza e forma di legge ai provvedimenti di volta in volta assunti, caso per caso, dalle organizzazioni operaie e popolari stesse!

Il rafforzamento di un coordinamento nazionale porti, la solidarietà attiva tra i portuali e altri settori sociali e di lavoratori in lotta, il moltiplicarsi dei tanti comitati operai che oggi si costituiscono e sono attivi in tante aziende da un capo all’altro del Paese (così come, ad esempio, il coordinamento della siderurgia o quello tra i principali stabilimenti del gruppo FCA), i tanti comitati di scopo che sorgono, agiscono e lottano in aziende pubbliche come quelle sanitarie e, sui territori, come quelli ambientali sono la base di un’alternativa realistica di potere nelle aziende stesse e nella società. Pongono, cioè, le condizioni per la costruzione di un’alternativa politica per il Paese tutto a fronte della crisi del sistema politico della classe dominante: un governo di emergenza popolare, il Governo di Blocco Popolare.

Nonostante l’iniziativa sporca e martellante di padroni e armatori, tra gli operai, i lavoratori, i precari, i disoccupati, così come nel resto della società non regna affatto sfiducia e rassegnazione, ma cova ribellione e voglia di riscatto, tendenza al coordinamento delle forze e solidarietà di classe. Che le sirene dei porti suonino oggi come chiamata generale all’organizzazione! In questo la memoria dei nostri caduti si fa attiva ed operante. Caduti che oggi vivono se vive l’organizzazione operaia che ne darà riscatto, affinché mai più si muoia sul lavoro e di lavoro.

Padroni e armatori saranno pure ricchi e “potenti”, ma sono forti solo fintantoché la classe operaia e il resto delle masse popolari non si organizzano per far valere la propria forza. Quella forza che faranno valere, faremo valere.

E allora non piangeremo più lacrime per i nostri morti, ma strapperemo lacrime al nemico.

Costruiamo in ogni porto, azienda e in ogni territorio organizzazioni operaie e popolari!

Avanziamo verso il Governo di Blocco Popolare!

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