Le “riaperture” del 26 aprile non risolvono il problema per i gestori delle attività che sono rimaste chiuse per mesi, né quello dei lavoratori dipendenti di quei settori, dalla ristorazione al commercio fino allo spettacolo.
Hanno la forma di una boccata d’aria per alcuni, ma sono il prolungamento dell’agonia per tutti.
Non solo perché per riaprire e lavorare, rimangono in vigore parametri e condizioni (vedi spazi all’aperto per i ristoratori), ma soprattutto perché le ripartenze avvengono in un contesto economico e sociale più grave di quando, nel marzo del 2020, fu disposto il lockdown generale.
Le proteste e le manifestazioni dei tanti imprenditori (e dipendenti) della ristorazione, del commercio e dello spettacolo delle settimane scorse avranno forse una parziale battuta di arresto nei mesi estivi: ragionevolmente, chi può cercherà di approfittare della situazione per tornare a lavorare. Ma sono destinate a riprendere perché la pandemia e le misure che la classe dominante ha imposto con il pretesto di farvi fronte hanno determinato una situazione per cui niente sarà come prima.
Per quanto riguarda le categorie mobilitate con la parola d’ordine “Io apro”, le cui iniziative e proteste in tutta Italia sono state in genere censurate dalla stampa borghese per assurgere alla ribalta solo per le pagliacciate di Casa Pound a Roma nel mese di aprile (gli scontri concordati con la Questura a beneficio di telecamera), rimandiamo alla lettera che ha scritto alla Redazione un ambulante fierista (qua sotto).
Per quanto riguarda i lavoratori dello spettacolo la loro mobilitazione ha sollevato contraddizioni profonde. Non solo perché è un settore di cui vivono centinaia di migliaia di persone, spesso nella completa precarietà; non solo perché è emersa in modo dirompente la contraddizione fra la cerchia ristretta di chi con l’arte e lo spettacolo si è arricchito (e in ragione di ciò appartiene alla classe dominante) e l’enorme fetta di proletariato (e classi intermedie) che deve lavorare per vivere, ma anche e soprattutto perché sono emersi in tutta evidenza l’aridità e il calcolo con cui la cultura e l’arte vengono trattati dalle istituzioni del nostro paese.
Certo, non si tratta – apparentemente – di attività essenziali come la sanità pubblica. Ma tagli, speculazioni, sottomissione alla legge del profitto hanno distrutto le attività e le produzioni artistiche e culturali e la mancanza di arte e cultura contribuisce all’abbrutimento e alla sottomissione delle masse popolari.
La classe dominante ha distrutto le possibilità di produrre e riprodurre arte e cultura di qualità, mentre continua a foraggiare le mille forme di intrattenimento pecoreccio per intossicare le menti e i cuori delle masse popolari.
Si pone quindi la questione di quale sia il lavoro e il servizio che i lavoratori “dello spettacolo” devono svolgere.
Le occupazioni dei teatri (il Piccolo di Milano, il Mercadante di Napoli), criticate dai duri e puri perché “poco conflittuali”, pongono invece la questione in modo dirompente. Al punto che il Ministro della (distruzione della) Cultura, Dario Franceschini, ha dovuto venir meno al “protocollo del rigore e del distacco” di Mario Draghi per fare la sua comparsa al Globe Theatre occupato a Roma.
E si badi bene, qui la contraddizione non è certo di chi “ha accolto” il ministro: il problema politico è tutto di Franceschini! Che fa il governo? Che fanno le istituzioni? Che fanno le autorità? Che fanno i Paperoni dell’intrattenimento a fronte del disastro culturale, intellettuale e morale in cui la classe dominante ha sprofondato il paese?
Le occupazioni dei teatri mostrano bene che la questione può essere affrontata con la protesta – che è sacrosanta e legittima – ma anche che è necessario e urgente ragionare di un sistema alternativo affinché chi lavora con l’arte e la cultura possa “mangiare e vivere dignitosamente” e le masse popolari possano nutrire il loro spirito in maniera sana e appagante.
Come si diceva tempi addietro, vogliamo il pane, ma anche le rose!